Posted: Marzo 18th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: comune, critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su basic income
Secondo la ministra del lavoro, in Italia “con un reddito base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro”. Per risponderle, ecco un’intervista a Philippe Van Parijs, fondatore del Basic Income Earth Network, tratta da Per un’altra globalizzazione (Edizioni dell’Asino 2010).
di Giuliano Battiston
Prima di capire le ragioni per cui dovremmo fare nostra l’idea di “versare a tutti i cittadini, incondizionatamente, un reddito di base cumulabile con ogni altro reddito”, valutiamo le obiezioni più comuni, tra cui quella – già avanzata da Marshall in un diverso contesto – che i diritti di cittadinanza debbano accompagnarsi a delle contropartite, a dei doveri; che ci debba essere un legame tra reddito e lavoro; che la concessione del reddito vada condizionata a un contributo produttivo, o alla volontà di darlo. Come lei ricorda ne Il reddito minimo universale, soprattutto nell’Europa continentale è forte il modello “bismarckiano” “conservator-corporativista” della protezione sociale, l’idea che la previdenza sociale sia legata al lavoro e allo statuto di salariato del cittadino. Mentre nel saggio Il basic income e i due dilemmi del Welfare State riconosce che la parziale “disconnessione tra il lavoro e il reddito richiederebbe un radicale ripensamento” culturale, anche in quei pochi partiti di sinistra che ancora oggi riconoscono nel lavoro un tema centrale della loro agenda politica. Come favorire questo ripensamento? E come risponde alle obiezioni menzionate?
L’idea che il diritto a un reddito debba essere legato al lavoro o alla disponibilità a lavorare, che dunque ci sia un’associazione, che deriva da considerazioni di tipo etico, non economico, tra lavoro e reddito, non si limita ai Paesi dal modello “bismarckiano”, ma investe anche il mondo anglosassone, e direi anzi che sia presente in tutte le società del mondo. A questo proposito, è interessante notare una singolare analogia, perché quest’idea si avvicina molto alla relazione etica che per lungo tempo diverse società hanno istituito tra sesso, gratificazione sessuale e riproduzione. In tutte quelle società nelle quali, in ragione di una forte mortalità infantile, era essenziale ottenere un elevato livello procreativo, divenne infatti eticamente obbligatorio legare la gratificazione sessuale almeno al “rischio” della procreazione, così da contribuire eventualmente alla sopravvivenza della comunità. Per lungo tempo, e per ragioni analoghe, si è radicata l’idea che si potesse avere accesso alla gratificazione del consumo, dunque al reddito, solo a condizione di essere disposti a contribuire alla produzione (l’equivalente della riproduzione nel caso della gratificazione sessuale). La connessione tra i due aspetti è evidente. Oggi però ci troviamo a vivere in condizioni tecnologiche ed economiche molto diverse, grazie alle quali non è più necessario che tutte le attività sessuali siano legate alla possibilità della procreazione, e allo stesso modo non è necessario fare del contributo alla produttività, dunque del lavoro, una condizione di accesso al reddito. Intendo dire che è possibile dare vita a un’organizzazione della società che non sia basata su questo tipo di etica del lavoro. Mi rendo conto tuttavia che questo discorso dimostra solo la possibilità di una diversa organizzazione, ma non che sia giusto o preferibile introdurla. Per questo occorre ancora lavorare molto, superando i tanti ostacoli culturali, sia a destra che a sinistra. Mi sembra comunque curioso che in tutti questi anni l’obiezione etica abbia sempre prevalso rispetto all’obiezione tecnica, relativa alla plausibilità di finanziare un meccanismo del genere, e agli interrogativi sulla realizzabilità politica di quest’idea.
[…]
Posted: Marzo 16th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo | 10 Comments »
unsettling knowledges
transversal web journal
The crises within cognitive capitalism and cognitive labor are mirrored in the reproduction and exacerbation of global divisions of labor and the emergence of new forms of exploitation as part of a regime of flexible capital accumulation. While drastic austerity measures and heightened control mechanisms lead to a radical transformation of the welfare state on the one hand, new networks of communication, struggle and alternative forms of knowledge emerge on the other.
This issue of transversal attempts to review some of the general assumptions of a theory of cognitive capitalism and to unsettle the very notions of knowledge and its production, discussing the conditions of its capture, its “re-invention” and its capacity for creating worlds. The individual essays follow the lines of a (post-)colonial historicity and a feminist and geopolitical critique of capitalist valorization, thereby questioning the materiality of knowledge and its production in relation to resources and bodies, as well as how art and knowledge production are interwoven with political struggles.
http://eipcp.net/transversal/0112
Contents
Lina Dokuzović: The Resource Crisis and the Global Repercussions of Knowledge Economies
Silvia Federici: African Roots of US University Struggles. From the Occupy Movement to the Anti-Student-Debt Campaign
Encarnación Gutiérrez Rodríguez: AFFECTIVE Value. On Coloniality, Feminization and Migration
Therese Kaufmann: Materiality of Knowledge
Christian Kravagna: The Trees of Knowledge: Anthropology, Art, and Politics. Melville J. Herskovits and Zora Neale Hurston – Harlem ca. 1930
Brigitta Kuster: The Imperceptibility of Memory
Sandro Mezzadra: How Many Histories of Labor? Towards a Theory of Postcolonial Capitalism
Walter Mignolo: Geopolitics of Sensing and Knowing. On (De)Coloniality, Border Thinking, and Epistemic Disobedience
Raimund Minichbauer: Fragmented Collectives. On the Politics of “Collective Intelligence” in Electronic Networks
—
Creating Worlds
eipcp
eipcp – european institute for progressive cultural policies
a-1060 vienna, gumpendorfer strasse 63b
a-4040 linz, harruckerstrasse 7
contact@eipcp.net
http://www.eipcp.net
Posted: Marzo 15th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Christoph Türcke
1) I banali traumi dello status quo
di Benedetto Vecchi
Pubblicato il saggio del filosofo tedesco Christoph Türcke. Gli shock
emotivi non producono la crisi, ma le condizioni per la difesa dell’ordine
costituito. Un’importante analisi del capitalismo che ne fotografa però solo
l’ambivalenza. Ci sono dei libri che difficilmente cadono nel dimenticatoio.
Possono anche non avere successo di pubblico, né di critica, ma le tesi che
esprimono reggono all’usura determinata dall’imperante just in time
dell’industria culturale. La società eccitata di Christoph Türcke è uno di
questi libri (Bollati Boringhieri, pp. 352, euro 43). Uscito nel 2002 in
Germania, ha dovuto attendere dieci anni prima che fosse pubblicato da
Bollati Boringhieri, che ha ritardato la sua uscita per la difficoltà del
testo, al punto che il suo traduttore, Tommaso Cavallo, ha voluto spiegare
le scelte fatte per termini del tedesco antico, del latino medievale. I
problemi non nascono solo dai raffinati e talvolta arcaici lemmi scelti da
Türcke, ma perché La società eccitata non nasconde mai l’ambizione di volere
essere un’analisi puntale del capitalismo contemporaneo e, al tempo stesso,
una resa dei conti con il marxismo tedesco occidentale del secondo
dopoguerra, così fortemente condizionato dalla Scuola di Francoforte, dal
principio speranza di Ernst Bloch o dalla messianica ricezione tedesca di
Walter Benjamin.
Obiettivi dunque complementari, ma distinti, che provocano non pochi
problemi nella lettura, che si presenta sin da subito impegnativa. Ma per un
libro, la fatica della lettura, come la concentrazione per destrutturare le
cattive astrazioni che popolano l’universo informativo sono fattori
indispensabili per riprendere contatto con la realtà che la seconda natura
della tecnologia tende a occultare. La concentrazione e la fatica aumentano
dunque il valore analitico di questo saggio. Ha dunque fatto bene l’editore
a perseguirne la pubblicazione, nonostante le difficoltà di traduzione e il
fatto di essere un libro che non comparirà mai nelle classifiche dei libri
di più venduti della settimana.
L’inganno dell’opinione pubblica
La tesi presentata da La società eccitata può essere così sintetizzata. Il
capitalismo è una organizzazione sociale incardinata su due elementi tra
loro contraddittori. Da una parte usa l’industria culturale e
l’intrattenimento per costruire un consenso passivo dei singoli allo status
quo; allo stesso tempo, deve garantire la sua riproduzione allargata
attraverso la produzione di reiterati shock emotivi che svelano sì la
violenza del sistema di sfruttamento vigente, ma lo «naturalizzano». Nel
primo caso, produce, attraverso i mass media e l’industria culturale,
un’opinione pubblica che non mette mai metterne in discussione la
legittimità del potere costituito.
L’opinione pubblica è giustamente interpretata come l’antitesi dell’agire
politico, cioè di quella azione collettiva tesa a trasformare l’ordine
sociale esistente. In questo, l’analisi di Türcke è fortemente debitrice nei
confronti della dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer e allo
stesso tempo critica nei confronti di Jürgen Habermas, il filosofo tedesco
che ha invece individuato nell’opinione pubblica lo sfondo in cui collocare
una politica della trasformazione.
Per quanto riguarda gli shock emotivi, il riferimento ovviamente è alla
diffusione e alla centralità delle immagini tesi a provocare spaesamento,
insicurezza, sentimenti dai quali sfuggire o cercare zone franche che
offrano riparo e sicurezza, attraverso una eccitazione dei corpi. La società
eccitata è dunque il trionfo dello spettacolo, operando così una messa
all’angolo della parola scritta. Aspetti certo non nuovi, ma che l’autore ha
il grande pregio di contestualizzate all’interno della densa e pur sempre
breve storia della modernità, intesa come un progressivo divenire del
visuale il fattore centrale dell’industria del divertimento. Anche qui,
Turcke non nasconde i suoi debiti teorici. C’è ovviamente Guy Debord, ma
anche il Walter Benjamin della riproducibilità dell’opera d’arte e dei
passages parigini. L’aspetto interessante della sua riflessione non è però
nel suo ricollegarsi a un filo rosso del pensiero critico da tempo lasciato
cadere, bensì nel fatto che lo shock emotivo permanente del capitalismo
contemporaneo è solo apparentemente un fattore destabilizzante dei fattori
regolatori del legame sociale, bensì il fatto che lo shock è sempre stato un
elemento teso a produrre un ordine sociale che si riproduce appunto
attraverso traumi, shock, senza i quali è destinato a inaridirsi e a
implodere.
Eccitati e precari
Per fare questo Türcke ricostruisce la genealogia del concetto di
sensazione, che ha da quando gli umani hanno assunto la posizione ha sempre
avuto una importanza cruciale nel regolare le relazioni sociali. La
sensazione troduce un trauma attraverso il quale i singoli scoprono la loro
vulnerabilità e i problemi che li angosciano.
Ma proprio questa «scoperta» – togliendo a questo termine ogni connotazione
positiva – consente il superamento della loro precaria condizione. Lo shock,
tuttavia, anche se viene esperito individualmente è sempre un fatto sociale.
Da qui, la affermazione di Türcke che la sensazione è un sentimento che
nasce dal vivere in società. La religione, come i riti di iniziazione, ma
anche la scrittura, la pittura, la fotografia e il cinema sono tutte
«istituzioni» che producono gli shock emotivi necessari all’«individuo
sociale» per superare una condizione di minorità. La modernità ha dunque
elevato alla massima potenza la produzione di shock emotivi per rendere
accettabile la violenza del sistema di sfruttamento capitalistica.
Violenza del lavoro salariato
Questa ultima affermazione non tragga d’inganno. Turcke non è un
apocalittico, né un nostalgico di una immaginaria età dell’oro. Semmai è
interessato a comprendere il perché di questa produzione massificata di
shock emotivi. Ed è per questo motivo che si inoltra in quel continente
rimosso dalle mappe del sapere che è la critica dell’economia politica. Il
confronto che stabilisce con l’opera marxiana parte dalla consapevolezza che
l’autore del capitale si è misurato in gioventù con la religione, l’oppio
del popolo che consente di gestire la fragilità della natura umana,
producendo anche qui traumi e shock emotivi. Ma ciò che interessa in questo
libro è la riflessione che l’autore fa sulla gestione che la «società
borghese» degli shock emotivi, che vengono prodotti affinchè la violenza del
lavoro salariato sia resa accettabile. Affascinanti sono a questo proposito
le pagine che Türcke dedica alla fotografia, al cinema. Alla Rete. La
crescita esponenziale delle immagini e delle informazioni è funzionale a
rendere accettabile ciò che il corpo – senza distinzioni tra mente e carne –
tenederebbe a rifiutare.
E qui si colloca l’interesse del libro. In un movimento forse poco
dialettico, Türcke sostiene che il capitalismo contemporaneo rende manifesti
temi, nodi teorici attinenti alla natura umana. L’uomo, e le donne, va da
sé, hanno necessità degli shock emotivi per sopravvivere in un mondo ostile
e nemico. L’industria culturale e quella dell’intrattenimento hanno dunque
questa ambivalenza. Producono shock funzionali alla riproduzione dell’ordine
esistente, ma nel fare queste aprono il campo alla trasformazione.
Christopher Türcke non nega che questo sia il nodo politico che finora non è
stato sciolto. Quello che non sempre convince del suo procedere analitico è
il movimento circolare che propone.
La modernità nella sua riflessione non esaurisce la storia umana, ma le
contraddizioni che apre costringono a fare i conti con la natura umana, cioè
con quell’individuo sociale preesitente al capitalismo e che sopravviverà
anche alla sua fine. I grandi temi della filosofia tornano ad abitarte la
pagine de La società eccitata. Il capitalismo è una parentesi, al termine
della quale non è dato sapere come saranno affrontati e risolti alcuni
fattori riguardanti il vivere in società. Il rapporto con l’altro,
ovviamente, ma anche il pensare di costruire una società di liberi ed
eguali. Christopher Türcke conosce bene le discussioni su quel cielo diviso
sotto il quale più generazioni hanno visssuto. E sa che tanto ad Ovest che a
Est, il fallimento è una parola che illustra bene i problemi del presente.
La proposta che enuncia non rassicura. L’autore propone certo di assumere la
critica dell’economia politica come bussola. È però consapevole che indica
la direzione ma nulla dice su come vivere nei territori che si attraversano.
Propone di usare la «sensazione» e lo shock emotivo come uno strumento di
sovversione del reale se «depurato» dell’elemento rassicurante. Ma così
facendo, come in un gioco dell’oca, si torna al punto di partenza, cioè a
come attivare quel movimento che abolisce lo stato di cose presenti.
Un libro dunque da leggere, meditare. Lasciando alla critica roditrice dei
topi le illusioni su un semplice e innocente nuovo inizio di quel movimento,
come se nulla sia accaduto nel lungo Novecento alle nostre spalle.
2)
“Nei media d’oggi una magia nera che nevrotizza e uccide lo
spirito”
di Marco Dotti
L’elevata e continua pressione delle notizie sulla vita ha trasformato la
percezione del sensazionale, fino a elevare il caso-limite a norma
Quando Reginald Aubrey Fessenden si mise dinanzi a un microfono, nella
stazione radio di Brand Rock, nel Massachusetts, e, violino alla mano, si
abbandonò alle note di O, Holy Night, pochi si resero conto di quanto stava
accadendo. Era la sera di Natale del 1906, e quella trasmessa da Fessenden
fu la prima emissione radiofonica della storia. Al violino, l’intraprendente
inventore, figlio di un pastore protestante, alternò la lettura di alcuni
passi dal Vangelo di Luca (2,14). Quel «gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini di buona volontà» inaugurò un nuovo corso nella
storia della comunicazione umana. Sarebbe persino banale ricordare, come
provocatoriamente fa nella prima parte del suo lavoro Christoph Türcke, che
evanghélion significa «notizia» se non fosse per ribadire che la scelta di
Fessenden non era priva di coerenza interna in ciò che Türcke chiama assioma
della logica delle notizie, la cui analisi occupa i primi capitoli de La
società eccitata. Una coerenza involontaria, o meglio inconsapevole, quella
di Fessenden (fare notizia leggendo «la» notizia, il Vangelo) che rinveniamo
anche nel termine inglese per notizia, «news», Ed è su questa coerenza che
insiste – tra le altre cose – Türcke. Gli eredi di Fessenden, quelli che
Türcke chiama i moderni «divulgatori di notizie» sono spesso costretti a
decidere nello spazio di pochi istanti su ciò che conta o non conta e sulle
notizie che intendono diffondere, senza badare troppo ai criteri – spesso
totalmente autoreferenziali – della loro scelta.
Non hanno pertanto «molte occasioni per preoccuparsi del sostrato teologico
del loro agire». A dispetto, o forse proprio in ragione di questa
dimenticanza, l’esito di ogni impresa giornalistica, di ogni riunione di
redazione, di ogni lavoro editoriale sembra convergere su un punto: la
notizia deve imporsi. E per imporsi deve essere nuova. Se da sempre, fin dai
tempi della Bibbia – che potremmo leggere come una colossale impresa
giornalistica – e dell’Epopea di Gilgames, le notizie sono state
«fabbricate», per esse valeva entro certi termini ciò che Adorno, tra le
pagine della sua Negative Dialektik, poteva ancora chiamare «il primato
dell’oggetto». Primario era l’evento ritenuto degno di essere comunicato,
non il comunicare stesso. Oggi la mediazione precede l’evento, lo crea e i
modernissimi «divulgatori di notizie» sembrano angeli vuoti, portatori di un
messaggio zero che per essere percepito come rilevante deve essere
sottoposto a un processo di eccitazione infinita e di estetizzazione
spettacolare potenzialmente senza limiti.
La società della sensazione è capace di inflazionare l’istante su cui è
ripiegata, proprio grazie a modelli che catturino e attraggano su di sé,
quasi magneticamente, la percezione. Per continuare a sopravvivere, per non
cadere nel baratro di un fallimento al cui rischio è per sua natura esposto,
un’impresa la cui materia prima sia costituita da notizie da lavorare
mensilmente, settimanalmente, quotidianamente e, oggi, persino istante dopo
istante deve continuamente sperare che news degne di essere comunicate non
manchino. L’inversione tra mezzo e fine, tra mediazione e evento, ha origine
da questo paradosso, purtroppo vitale per l’impresa giornalistica:
comunicare eventi rilevanti, ma in mancanza di meglio rendere rilevanti gli
eventi. Siamo allora dinanzi, scrive Türcke, all’inversione di un assioma e
la logica della notizia, «nuova e rilevante», genera il suo contrario: dal
«comunicare, perché una cosa è importante», al «è importante, perché è
comunicato».
Gonfiare le banalità, rendere isterici gli eventi, nevrotizzare i lettori,
produrre continui corto-circuiti emotivi e cognitivi, ma soprattutto
«semplificare realtà complesse, deviare l’attenzione pubblica da una
determinata vicenda a un’altra: tutto questo inerisce alla stampa come la
sudorazione alla pelle». Si può limitare la sudorazione, ci si può detergere
o lavare di continuo, ma non la si può evitare. Per questa semplice ragione,
prosegue l’autore, non appena ci si imbatta nell’assioma della logica
dell’informazione, ci si imbatte anche nel suo contrario. Di più: «solo
grazie al suo contrario, l’assioma si è conservato, rivestendosene come di
una seconda pelle e confondendo l’una con l’altra al punto da renderle
indistinguibili».
Questo processo, certo ma in nuce sino a che la stampa (intesa in senso
lato) era in procinto di diventare quel mezzo onnipervarsivo che oggi
conosciamo, si rivela adesso nella sua assoluta, nevrotizzante potenza
magica. Non è un caso che proprio il Karl Kraus a più riprese evocato nelle
pagine di questo libro, scrivesse – era il 1921 – che la fine del mondo,
quando avverrà, avverrà a opera di una ««schwarze Magie», una magia nera in
grado di eccitare gli spiriti, uccidendoli. Magia nera che nel linguaggio di
Kraus altro non era se non la stampa. Avendo sotto gli occhi il disastro
della Prima Guerra Mondiale, Kraus si chiedeva: «La stampa è un messaggero?
No, è l’evento. Un discorso? No, la vita. Abbiamo messo l’uomo a cui spetta
di annunciare l’incendio, al di sopra dell’incendio stesso, al di sopra del
fatto, al di sopra della nostra stessa fantasia». Oggi, commenta Türcke,
l’elevata pressione delle notizie sulla vita stessa ha trasformato la
percezione del sensazionale, nella percezione in assoluto, fino a
trasformare il caso limite nella norma di una società perennemente eccitata
passata dalla Totale Mobil- machung, la mobilitazione generale tenuta a
battesimo dalla stampa nelle settimane precedenti il primo conflitto
mondiale, alla mobilitazione infinita iniziata con la Prima guerra del Golfo
e un giornalismo che non ha nemmeno più bisogno di sapersi embedded, per
muoversi al palo, come un cane timoroso, anche quando è senza catene.
Posted: Marzo 14th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: Révolution | Commenti disabilitati su Osvaldo
15 marzo 1972
Località Cascina Nuova, Segrate, Milano
Ai piedi del traliccio dell’altra tensione n.71, all’alba, viene rinvenuto il corpo di un uomo dilaniato da una carica esplosiva. Dalla carta d’identità che porta con sé, risulta chiamarsi Vincenzo Maggioni. Ventiquattro ore dopo il rinvenimento, gli inquirenti sono però in grado di stabilire che si tratta di Giangiacomo Feltrinelli, militante dei Gruppi d’Azione Partigiana.
NOME DI BATTAGLIA OSVALDO, FORMA LA PRIMA ORGANIZZAZIONE ARMATA CLANDESTINA, CHE COMPARE SULLA SCENA ITALIANA TRA L’APRILE E IL MAGGIO 1970. TRA LA FINE DEL ’70 E L’INIZIO DEL ’71, I GRUPPI D’AZIONE PARTIGIANA SI PROCURANO UN CERTO NUMERO DI RADIO MODIFICATE PER INTERFERIRE SUI CANALI DELLE RETI NAZIONALI, PER POTER COSI’ INCORAGGIARE ALTRI GRUPPI ALL’AZIONE CLANDESTINA.
26 MARZO 1972: IL SALUTO DALLE PAGINE DI POTERE OPERAIO
Un rivoluzionario è caduto
Lo dipingono ora come un isolato, un avventuriero, come un deficiente o come un crudele terrorista. Noi sappiamo che dopo aver distrutto la vita del compagno Feltrinelli ne vogliono infangare e seppellire la memoria – come si fa con i parti mostruosi. Si, perchè feltrinelli ha tradito i padroni, ha tradito i riformisti. Per questo tradimento è per noi un compagno. Per questo tradimento i nostri militanti, i compagni delle organizzazioni rivoluzionarie, gli operai di avanguardia chinano le bandiere rosse segno di lutto per la sua morte. Un rivoluzionario è caduto.potereoperaioe28093feltrinelli
Giangiacomo Feltrinelli è morto. Da vivo era un compagno dei GAP (Gruppi d’Azione Partigiana) – una organizzazione politico-militare che da tempo si è posta il compito di aprire in Italia la lotta armata come unica via per liberare il nostro paese dallo sfruttamento e dall’ingiustizia. A questa determinazione Feltrinelli era arrivato dopo una bruciante e molteplice attività – dalla partecipazione alla guerra di liberazione, alla milizia nel PCI, all’impegno editoriale, alla collaborazione con i movimenti rivoluzionari dell’ America Latina. L’indimenticabile ’68, lo aveva spinto ad un ripensamento di tutta la sua milizia politica; la breve ma intensa confidenza con Castro e Guevara gli forniva gli strumenti teorici attraverso cui analizzare il fallimento storico del riformismo e, ad un tempo, la prospettiva da seguire per una ripresa del movimento rivoluzionario in Europa. La forte passione civile, la rivolta ad ogni forma di sopraffazione e di ingiustizia ( si pensi all’ attenzione con cui ha sempre seguito le rivendicazioni autonomiste delle minoranze linguistiche italiane ) lo spingevano a saltare i tempi, a bruciare le mediazioni. E’ l’inquietudine di cui parla oggi con disprezzo misto a compatimento il <>. In realtà è l’inquietudine che porta con sè ogni uomo che non si adatti a vivere come un bue, che nutre un odio profondo per tutti i cani ed i porci dell’ umanità. Certo nell’azione di questo compagno ci sono stati errori, ingenuità, improvvisazioni. Grave soprattutto ci è sembrata e ci sembra, nel programma politico dei GAP, la sottovalutazione delle lotte operaie, della loro capacità di andare oltre il terreno rivendicativo per porre la questione dei rapporti di forza tra le classi cioè del potere politico. Ma i suoi errori, la sua impazienza, appartengono al movimento rivoluzionario e operaio; <> che da qualche anno migliaia di militanti hanno cominciato a ricostruire dopo decenni di oscurità e di paura. Fanno parte di questo cammino che, come diceva Lenin, non è diritto e piano ma tortuoso e difficile, e dove accanto all’estrema determinazione di percorrerlo non v’è alcuna certezza sui tempi necessari a mandare in rovina lo stato delle cose presenti.
Il compagno Feltrinelli è morto. E gli sciacalli si sono scatenati. Chi lo vuole terrorista e chi vittima. Destra e sinistra fanno il loro mestiere di sempre. Noi sappiamo che questo compagno non è né una vittima, né un terrorista. E’ un rivoluzionario caduto in questa prima fase della guerra di liberazione dello sfruttamento. E’ stato ucciso perchè era un militante dei GAP. E carabinieri, polizia, fascisti esteri e nostrani lo sapevano e lo sanno benissimo. feltrinelligiangiacomoE’ stato ucciso perchè era un rivoluzionario che con pazienza e tenacia, superando abitudini, comportamenti, vizi, ereditati dall’ambiente alto-borghese da cui proveniva, s’era posto sul terreno della lotta armata, costruendo con i suoi compagni i primi nuclei di resistenza proletaria.E’ probabilmente vero che la ricerca affannosa che, da mesi, fascisti e servizi segreti vari avevano scatenato per prendere Feltrinelli, si è intensificata dopo il contributo ulteriormente portato dei GAP nello smascheramento dei mandanti e degli esecutori della strage del dicembre del ’69. E’ probabilmente vero che questo compagno ha commesso, per generosità, errori fatali di imprudenza – cadendo così in un’ imboscata nemica la cui meccanica è a tutt’ oggi oscura. Quello che è certo è che di questo assassinio si sono fatti complici tutti coloro che cercavano un <> per l’attività dei gruppi rivoluzionari. Dal Secolo all’ Unità in una paradossale unità d’intenti dopo la manifestazione del giorno 11 a Milano, tutti hanno latrato : vogliamo il mandante, vogliamo il finanziatore. Come se la lotta di strada, la lotta di piazza avesse bisogno di finanziatori. Le bottiglie <> sono generi di largo consumo nell’ Italia degli anni 70. Costano poche centinaia di lire. Come dire alla portata di qualsiasi militante. Sono le attrezzatissime bande fasciste, sono i giornali di partito senza lettori, sono le costose campagne di pubblicità elettorale, sono i mastodontici apparati di Partito che richiedono e trovano i finanziamenti di Cefis, di Agnelli, di Borghi, di Ravelli – oltrechè il generoso contributo delle casse statali e parastatali. Comunque loro – destra e sinistra – volevano il mandante, il finanziatore. Fascisti e servizi segreti glielo hanno trovato. Un cadavere straziato di un pericoloso rivoluzionario che aveva deciso di far sul serio è diventato utile per la bisogna – perchè era Giangiacomo Feltrinelli discendente di una delle famiglie più ricche del paese. Ed i giornali della borghesia si sono affrettati a sputare sopra il cadavere. Con tutto l’odio che si sente per un traditore. Perchè è vero. Giangiacomo Feltrinelli li aveva traditi. Aveva rotto con il suo ed in tre anni densi di attività minuta, continua e coraggiosa era diventato un rivoluzionario. E i miliardari che finanziano i partiti, si drogano al <>, vogliono l’ordine e la morale nelle fabbriche e nelle scuole – e per questo utilizzano le bande fasciste – non possono perdonare questo figlio degenere.
Posted: Marzo 11th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: arts, au-delà | Commenti disabilitati su Moebius
http://www.youtube.com/watch?v=QyF2bad0f2o
Elegante e azzardato come «un fiore che attira le api»
di Thomas Martinelli
Con un nome d’arte dal fascino intrigante, quello di Moebius, Jean Giraud lascia un segno indelebile nel fumetto internazionale, sia di genere (il western Blueberry, firmato con lo pseudonimo Gir), sia fantascientifico d’autore appunto come Moebius. Ma rinchiuderlo in due soli filoni sarebbe sbagliato e ingrato per chi ha fecondato in ogni direzione l’immaginario disegnato dell’ultimo quarto del XX secolo. Illustratore fine, autore di pietre miliari del fumetto internazionale, influenza discreta nel cinema di fantascienza (Alien e Blade runner di Ridley Scott, Il quinto elemento di Luc Besson), l’artista d’oltralpe il cui alter ego richiama i paradossi grafico-geometrici di Escher, è giustamente ritenuto uno dei principali artefici del rinnovamento del fumetto europeo e mondiale degli anni ’70. Elegante e sofisticato, spettacolare, azzardato, luccicante come acciaio e d’impatto rock duro, punk, metallico, il suo segno s’insinua nell’immaginario post-sessantottino soprattutto sulle pagine raffinate di Métàl Hurlant, la cui prima sconcertante, mostruosa, aliena copertina è disegnata appunto da Moebius. Pseudonimo con il quale per più di 30 anni ha siglato le sue opere più fantastiche e surreali quali Arzach, Il garage ermetico, la saga dell”Incal, mentre per la parte più realistica e concreta, rappresentata soprattutto dal popolarissimo western Blueberry, riservava l’altro pseudonimo di Gir, alias Jean Giraud.
Conversando con me a Napoli una decina di anni fa con aria divertita e trasognata al limite della distrazione, Jean Giraud rideva leggero come le figure di linea chiara che da tempo amava disegnare firmandosi come Moebius. E come aveva fatto anche in precedenti interviste, rispondeva in modo casuale e enigmatico, lasciando come nelle sue storie la possibilità a qualsiasi sviluppo. Di fronte alla domanda se era giunto a un punto d’arrivo o se la ricerca continuava, così rispose: «Non sto cercando nulla. Cerco di aprire le cose che vengono e sono difatti abbastanza passivo. È la stessa cosa per gli incontri e gli amori: sono piuttosto come un fiore che attira le api. Non so, ma veramente non cerco niente. Cerco solo di fare del mio meglio».
Fecondatore dell’immaginario collettivo, a volte poteva dare la sensazione di non controllare tutto ciò che produceva, ma è un aspetto che lui stesso rivendicava: «Senza dubbio, è questo il gioco ed è ciò che lo rende abbastanza puro. C’è solo un’emissione naturale, come una radiazione o un raggio di sole. Il sole non cerca di irradiare alcunché, lo fa semplicemente, e non solo in direzione della Terra ma illumina dappertutto. Non c’è alcun merito in questo, ma è una funzione naturale». Non è detto che a un’intervista successiva avrebbe detto esattamente così, e in questo l’apice della sua opera gli corrispondeva.
Posted: Marzo 10th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: comune, postcapitalismo cognitivo | 9 Comments »
DA GENTILUOMINI A MERCENARI
di Dario Banfi e Sergio Bologna*
Alle origini del lavoro indipendente, delle professioni e del precariato. Un racconto su quello è diventato, oggi, il lavoro e, domani, di cosa sarà. Una lettura irrinunciabile per capire di cosa parliamo quando parliamo di “riforma del lavoro”, “riforme delle professioni” o lavoro subordinato e autonomo.
L’ideologia del professionalismo e la sua crisi
Non è proprio un libriccino il testo che l’International Labour Office ha dedicato alla figura che l’immaginario collettivo associa di più al professionista di successo: il consulente di direzione. Pubblicato alla metà degli Anni Settanta e più volte aggiornato nei decenni successivi, è un’opera collettiva alla quale hanno dato il loro contributo personaggi che in seguito sarebbero diventati delle star, come Roland Berger e altri. Ad un certo momento nel testo spunta la domanda: “la consulenza è una professione?”
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Posted: Marzo 8th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: donnewomenfemmes, postgender, Révolution | Commenti disabilitati su tiqqun
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Introduzione a
ECOGRAFIA DI UNA POTENZIALITA’
di Tiqqun
Anarcheologia e potenzialità
” Tiqqun” è un termine dell’ebraico cabbalistico di Isaac Luria ( 1534-1572), detto “Ha-Ari” o “Il sacro
leone”, e significa “riparazione”.
Di Tiqqun sono stati tradotti in Italia gli Elementi per una teoria della Jeune-Fille ( Bollati Boringhieri,
2003), La comunità terribile (Derive & approdi, 2003) e Teoria del Bloom ( Bollati Boringhieri, 2004), testi
molto letti da noi anche all’interno dei gruppi femministi e lgbtq. I materiali contenuti ne La comunità
terribile sono tutti tratti dal secondo numero del quaderno di “ Tiqqun” ( Parigi, ottobre 2001 ): fra queste
traduzioni brilla negativamente, per la sua assenza, come un buco nero, un saggio per me fondamentale da
leggere in Italia, che è Échographie d’une puissance ( da me un po’ impropriamente tradotto “Ecografia di
una potenzialità”, come a scuola ci dicevano “ Quella ragazza, o quel ragazzo, ha delle potenzialità” ).
Questo è il testo che ora presentiamo qui, liberamente fruibile da chiunque voglia leggerlo.
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Posted: Marzo 8th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: donnewomenfemmes, postgender | Commenti disabilitati su L’Anti-Edipo: la privatizzazione delle donne e la democrazia
Ogni volta che in questo paese il livello della conflittualità sociale cresce, fino a limiti che le istituzioni ritengono ingovernabili, non più incanalabili secondo un’ortopedia social-democratica del dissenso, la “questione femminile” viene strumentalmente agitata come una bandiera. Si tirano fuori da un cassetto chiuso a chiave “le donne”, si dà una sommaria spolverata alla categoria e improvvisamente ci si ricorda di loro, tentando di piegarle a svariati usi.
Come testa di turco per far cadere i governi ad esempio: la recente esperienza di Se Non Ora Quando è un caso eclatante e deprimente della strumentalizzazione di questioni che il femminismo radicale ha sempre preso sul serio ( la mercificazione dei corpi e della loro immagine, per esempio), volgarizzate e distorte, infine trasformate in un bolo inoffensivo e più digeribile per un’opinione pubblica ormai consumata dal suo quotidiano consumare i media. Istanze ormai rese irriconoscibili e prive di alcun riferimento pratico e teorico al femminismo radicale. Non a caso spuntava, nei cortei orchestrati da donne embedded della buona borghesia illuminata (giornaliste, intellettuali, scrittrici, registe, attrici e cantanti), l’odiosa distinzione, da sempre bersaglio delle femministe, tra donne per bene e donne per male, puttane – le presunte odalische del Gran Sultano di Arcore – e sante del XXI secolo (le lavoriste indefesse che si sono “fatte da sole”). Può esserci un tradimento più grande e imperdonabile delle istanze femministe? No.
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Posted: Marzo 5th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica | Commenti disabilitati su NO TAV!
Tav, l’accelerazione della democrazia che può far deragliare Mario Monti
per Senza Soste, nique la police
1. Treno e accelerazione dell’esperienza.
Qualche giorno fa su La provincia di Varese un lettore scriveva alla redazione per esprimere il proprio parere sulla Tav. Scriveva che i manifestanti notav gli sembravano quegli abitanti delle zone rurali inglesi che si opponevano alla realizzazione della prima ferrovia inglese che partiva da Manchester. Ricordava il lettore che nonostante le proteste, anzi le rivolte, degli abitanti di un territorio allora notoriamente ribelle il progresso alla fine fece il suo corso. Certo, bisognerebbe far notare al nostro lettore come, nella zona di Manchester, il progresso avesse una certa dimestichezza con l’uso dei fucili di Sua maestà britannica. Pochi anni prima infatti in quelle zone era avvenuto il massacro di Peterloo, 15 manifestanti uccisi dall’esercito inglese ad un raduno di 60.000 persone, durante una manifestazione che chiedeva una reale rappresentanza democratica in parlamento. L’opposizione alla ferrovia di Manchester dell’epoca godeva quindi di una fresca memoria popolare sull’efficacia della repressione. E sono fattori che contano quando il progresso si impone.
Ma c’è un elemento decisivo nell’imporsi di una rete ferroviaria matura prima in Inghilterra poi, quasi contemporaneamente, nel resto del continente. Nonostante le rivolte nelle campagne, che in Inghilterra si nutrivano della memoria viva delle storiche sommosse per il pane e contro le enclosures, la ferrovia offriva un’accelerazione positiva dei rapporti sociali non solo l’imposizione di quelli economici. Che questa accelerazione dell’esperienza, economica come relazionale, fosse poi considerata un bene comune da tutelare lo vediamo, a parte gli Usa, dalla sostanziale nazionalizzazione delle ferrovie che subirono infine tutti i paesi capitalistici.
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