Lo sciopero nelle fabbriche neoliberali del sapere

Posted: Novembre 23rd, 2015 | Author: | Filed under: 99%, digital conflict, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, Révolution, riots | Commenti disabilitati su Lo sciopero nelle fabbriche neoliberali del sapere

di Paolo Do

Squat the ranking!
le proteste studentesche nella “fabbrica della qualità” in Cina. Considerazioni sul rapporto formazione lavoro nella superpotenza cinese a partire dagli scioperi degli stagisti nell’ultimo decennio.

rivolta2

Nel 2006, in un college privato cinese, un nuovo tipo di protesta studentesca è scoppiata facendo spazio alla figura sociale che potremmo chiamare “studente-consumatore”. Allo Shengda College, gli studenti hanno prima occupato l’auditorium del campus e poi costretto lo stesso preside alle dimissioni. La rabbia è scoppiata non appena scoperto che il college per cui hanno pagato fior fior di soldi di tasse è stato declassato (KAHN, 2006). A questo istituto, infatti, è stato imposto di firmare le lauree emesse con il proprio pressoché anonimo nome, anziché il rispettabile e ben conosciuto dell’Università Zhengzhou che, grazie al riconosciuto prestigio e indubbia reputazione, ha permesso al piccolo college privato di emettere titoli di studio.

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Verso una storia della critica del valore

Posted: Maggio 5th, 2014 | Author: | Filed under: comunismo, crisi sistemica, critica dell'economia politica, postoperaismo, riots | Commenti disabilitati su Verso una storia della critica del valore

di Anselm Jappe

Pasqua

Nel 1991, cadde il Muro di Berlino e l’Unione Sovietica era sul punto di esalare l’ultimo respiro. L’euforia della vittoria si spandeva fra coloro che erano sempre stati, o almeno da qualche tempo, convinti che il libero mercato e la democrazia occidentale fosse l’ultima parola nella storia. Fra la sinistra radicale, inclusi coloro che non avevano mai nutrito alcuna illusione circa “il socialismo attualmente esistente”, c’era molta costernazione. Era davvero impossibile superare il capitalismo? Era necessario limitarsi d’ora in poi a fare solo occasionali modeste riforme? In tale contesto, la comparsa di un libro scritto in tedesco, intitolato “Il crollo della modernizzazione: dalla caduta del socialismo da caserma alla crisi economica mondiale” (Kurz 1991) poteva non sembrare bizzarro. Non di meno, questo libro, pubblicato da una grande casa editrice, ebbe un sostanziale impatto su una recentemente “riunita” Germania.

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Filosofia del filo spinato

Posted: Ottobre 6th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, bio, epistemes & società, Révolution, riots, sud, U$A, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Filosofia del filo spinato

Nell’epoca delle telecamere per la videosorveglianza, delle tecniche biometriche di identificazione, dei dissuasori per arredo urbano, il filo spinato potrebbe sembrare obsoleto. Eppure è tuttora molto utilizzato in tutto il mondo, anche se in Occidente è limitato a impieghi molto circoscritti, poiché lo si associa ai campi di concentramento. Passare in rassegna tutti i suoi usi, e i suoi sostituti, è un esercizio che può insegnare molto.

di Olivier Razac *

filo spinato

Inventato nel 1874 dall’agricoltore statunitense Joseph Glidden per recintare le proprietà delle Grandi Pianure, il filo spinato diventò subito uno strumento politico di importanza primaria. In meno di un secolo e mezzo, è servito di volta in volta a recintare le terre degli indiani d’America e a rinchiudere intere popolazioni al tempo della guerra di indipendenza di Cuba (1895-1898) o della seconda guerra dei boeri in Sudafrica (1899-1902); ha circondato le trincee nella prima guerra mondiale, e di filo spinato era l’incandescente recinzione dei campi di concentramento e sterminio nazisti.

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les langages des *banlieus*

Posted: Giugno 3rd, 2013 | Author: | Filed under: 99%, au-delà, comune, crisi sistemica, epistemes & società, Révolution, riots | Commenti disabilitati su les langages des *banlieus*

par Birgit Mennel / Stefan Nowotny

Traduit par Maximilian Raguet & Clément et Jérome Segal

il-rituale-del-serpente

93

91, 92, 93, 94. – Ces nombres désignaient, avant la création d’un État algérien indépendant, les départements français d’Alger, d’Oran, de Constantine et des Territoires du Sud, qui furent progressivement colonisés à partir de 1830 et qui, contrairement aux autres colonies, étaient considérés comme faisant partie intégrante du territoire français. En 1968, une réforme administrative distribua ces numéros, « libres » depuis 1962, à différents départements de la région parisienne : le numéro 91 désigne depuis le département de l’Essonne situé plutôt dans le sud de l’agglomération parisienne et faisant partie de la « grande couronne » parisienne qui forme une ceinture de communes définissant les limites de l’espace métropolitain. Les numéros 92, 93 et 94 devinrent eux la « petite couronne » qui est le cercle de « banlieues » accolé à la ville. Les numéros 92, 93 et 94 sont aujourd’hui les Hauts-de-Seine (92), qui s’étendent du nord au sud de l’ouest de la capitale, la Seine-Saint-Denis (93) au nord et au Nord-est, ainsi que le Val-de-Marne (94) au Sud et au Sud-est.

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Fai la cosa giusta. 11 tesi sul conflitto che viene e sul mondo da inventare

Posted: Gennaio 6th, 2012 | Author: | Filed under: comune, Révolution, riots | Commenti disabilitati su Fai la cosa giusta. 11 tesi sul conflitto che viene e sul mondo da inventare

LUM – libera università metropolitana

1. «Il mondo è tutto ciò che accade». Partiamo da Oakland.

Il 2 novembre è iniziata una nuova epoca per il movimento #occupy e, più in generale, per gli indignados. All’occupazione delle strade e delle piazze ‒ sul modello spagnolo e di Zuccotti Park ‒ si è accompagnato uno sciopero generale di potenza straordinaria. Bloccato il porto, fermi gli uffici pubblici. Fermi i trasporti su gomma e la produzione. A braccia conserte anche la polizia. E poi decine di migliaia in piazza, a presidiare la città, a consolidare la paralisi del porto.

Guardiamo ad Oakland come si guarda ad un prototipo. Lacunoso, indubbiamente, in parte immaturo, eppure in grado di mettere in forma, in modo temporaneo, il conflitto che serve, quello in grado di fare i conti con la nuova composizione del lavoro e con la violenza della finanza. Non è sufficiente il sindacato, infatti, ad organizzare un lavoro frammentato e fortemente precarizzato, da sempre immerso nei flussi comunicativi o costretto a prestazioni di tipo neo-servile. Se lo sfruttamento contemporaneo si disloca anche e soprattutto sul terreno dell’accumulazione finanziaria, la lotta di classe deve investire per intero la riproduzione sociale, la vita, la cooperazione extra-lavorativa. Ma non basta neanche il movimento #occupy. La sua forza esibisce la crisi della democrazia liberale di fronte all’arroganza della dittatura finanziaria, ma ancora non ci mostra il modo utile per «far male ai padroni». È necessario prendere la parola e cominciare a «dire la verità al potere», ma bisogna individuare il potere nelle maglie dello sfruttamento metropolitano, nel furto di plusvalore.

In questo senso Oakland è un prototipo, in questo senso riscopriamo, senza timidezza, la nostra ispirazione repubblicana.

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#OWS: la ballerina e il toro: breve storia di un’epifania

Posted: Gennaio 5th, 2012 | Author: | Filed under: comune, crisi sistemica, riots | 1 Comment »

Tutto parte da questa immagine diffusa il 18 luglio 2011 dal magazine radicale Adbusters: il toro, il simbolo di wall street, la ballerina simbolo del virtuosismo, della grazia, di chi vive nella più violenta crisi del capitalismo dal 1929, e resta in equilibrio, domandola senza redini, con la pressione di un solo piede che calza, appunto, una ballerina. La bestia oscilla, scalcia. La ballerina, imperturbabile, resta sul dorso. Un incanto perfetto, mentre la bestia sembra cedere sotto la gentile, ma inflessibile, pressione del piede calzato. Dietro i lacrimogeni, emergono le maschere antigas degli attivisti.

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Toni Negri: note sul 15 ottobre

Posted: Ottobre 29th, 2011 | Author: | Filed under: comune, crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo, riots | Commenti disabilitati su Toni Negri: note sul 15 ottobre

Ero e sono fuori, in queste settimane, in Spagna ed in Portogallo. Non ho seguito direttamente quello che è avvenuto a Roma. Ma sono stato sorpreso, direi sbalordito, nel leggerne cronache e commenti.

1) La divisione tra gli “indignati” e gli altri, i “cattivi”, è stata fatta prima di tutto da La Repubblica, l’organo di quel partito dell’ordine e dell’armonia che ben conosciamo (per non dire degli altri media). Non sembra che il comitato organizzatore della manifestazione si sia indignato molto per ciò. C’era forse un peccato originale alla base di questo oltraggio: chi aveva organizzato la “manifestazione degli indignati” non aveva molto a che fare con le pratiche teoriche e politiche che dalla Spagna si sono estese globalmente, talora in maniera massiccia, altre volte minoritaria: il rifiuto della rappresentanza politica e sindacale, il rigetto delle costituzioni liberali e socialdemocratiche, l’appello al potere costituente. In Italia, invece, un gruppo politico al limite della rappresentanza parlamentare si è appropriato il nome degli Indignados … E ora reclamano: “Lasciateci fare politica”.

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Reading the Riots

Posted: Settembre 6th, 2011 | Author: | Filed under: riots | Commenti disabilitati su Reading the Riots

una ricerca sociale sulle rivolte inglesi

di Benedetto Vecchi

«Reading the Riots». È questo il titolo di una ricerca sulle rivolte
inglesi di questa estate avviata dal quotidiano inglese «The Guardian» e
dalla London School of Economics. La ricerca, finanziata dalla «Joseph
Rowntree Foundation», dalla «Open Society Foundation», coordinata dallo
studioso Tim Newburn e che sarà pubblicata nei prossimi mesi, si compone
di tre parti. La prima è composta da interviste ai partecipanti degli
scontri con la polizia e ai residenti dei quartieri coinvolti nelle
rivolte. La seconda, composta da un «data base» dei profili –
acculturazione, lavoro, ovviamente età e provenienza «etnica» – delle
oltre 2000 persone fermate dalla polizia durante gli scontri (molti di
loro sono stati accusati di saccheggio, devastazione). La terza parte è
un’analisi dei 2500 sms inviati nei giorni dei riots che avevano come
oggetto commenti e inviti a scendere nelle strade.

Presentando il progetto di ricerca, il sito de «The Guardian» ha
ricordato che inchieste analoghe sono state già compiute nel passato,
anche se «Reading The Riots» si propone, a differenza del passato, di
indagare le cause delle rivolte. Non quindi una fotografia, bensì il
tentativo di «decrittare» un fenomeno tanto intenso e tuttavia
circoscritto nel tempo.

Nei giorni successive alle rivolte, infatti, le uniche personalità
politiche che hanno preso la parola hanno spesso liquidato ciò che era
accaduto in molte città inglesi come «atti criminali». Poche le voci che
hanno invece ricordato come molti dei quartieri coinvolti avevano tassi
di disoccupazione molto più alti che in altri quartieri. Oppure che gli
incidente sono avvenute in zone della città fortemente colpite dalla
politiche di rigore messe in campo dalle amministrazioni cittadine o dal
governo conservatore. O che alcuni delle zone londinesi stavano subendo
politiche di espulsione degli abitanti a causa dei dei lavori per le
Olimpiadi ospitate dal Regno Unito nel 2012. Va detto che il compito di
ricordare il background sociale delle rivolte è stato spesso assolto
dalle inchieste giornalistiche pubblicate nei giorni «caldi», che davano
spesso la parola a gruppi, associazioni locali o gruppi politici
minoritari, concordi nel ricordare l’urgenza politica di affrontare una
non più rinviabile «questione sociale».

La ricerca sui riots potrebbe dunque offrire un quadro molto più
analitico di quanto è accaduto e di come sono profondamente cambiati i
quartieri inglesi. Mutamento che sicuramente non trovano spiegazione
nella stigmatizzazione dei saccheggi, né nella descrizione di una
generazione ostaggio di una logica del consumo fine a se stessa.

Nei giorni delle rivolta, ad esempio, un decano della London School of
Economics, Zygmunt Bauman, ha pubblicato un commento sulle rivolte,
individuando nella coazione ossessiva al consumo solo l’effetto
collaterale di una trasformazione che lo studioso di origine polacca non
ha avuto timore a definire antropologica. In altri termini, il consumo
era solo espressione di stili di vita, relazioni sociali «figlie» di un
ventennio di politiche sociali e economiche che hanno demolito il
welfare state, ritenuto da Bauman uno dei punti più alti di civiltà
raggiunti dal capitalismo.

È all’interno di una realtà segnata da precarietà, dismissione della
presenza dello stato e di centralità del mercato che ha preso forma la
mutazione antropologica a cui allude lo studioso di origine polacca.
Mutazione antropologica che, ad esempio, un’altra studiosa inglese, Nina
Power, che, in un commento scritto durante le rivolte, vedeva
manifestarsi non tanto nei saccheggi, ma in quella assenza di futuro a
cui sembrano essere condannati i giovani inglesi.


Sassen

Posted: Agosto 18th, 2011 | Author: | Filed under: crisi sistemica, riots | 1 Comment »

Saskia Sassen: «Con i riots la storia volta pagina»

Data di pubblicazione: 17.08.2011

di Benedetto Vecchi

Il nuovo ruolo dei conflitti di strada e di piazza nel processo di trasferimento della ricchezza dai poveri ai ricchi, peculiare della fase attuale del capitalismo. Il manifesto, 17 agosto 2011

Causati anche dall’esproprio di ricchezza verso banche e enti sovranazionali, i riots inglesi segnano il limite delle democrazie liberali, qualcosa di simile al passaggio storico dal Medioevo alla modernità: che cosa resterà in piedi?

Non si sottrae alle domande. Precisa più volte il suo pensiero. Anche se vive divisa tra New York e Londra, legge attentamente i giornali per capire cosa sta accadendo nella vecchia Europa, dove ha avuto la sua educazione sentimentale alle scienze sociali, prima di spostarsi in America Latina e successivamente negli Stati Uniti. Saskia Sassen è nota per il suo libro sulle Città globali (Utet), anche se i suoi ultimi libri su Territori, autorità, diritti (Bruno Mondatori) e Sociologia della globalizzazione (Einaudi) ne hanno fatto una delle più acute studiose su come stia cambiando i rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giuridico sotto l’incalzare di una globalizzazione economica che sta mettendo in discussione anche la sovranità nazionale. Per Saskia Sassen, il capitalismo non può che essere globale. E per questo ha bisogno di istituzioni politiche e organismi internazionali che garantiscono la libera circolazione dei capitali e le condizioni del suo regime di accumulazione della ricchezza. Per questo ha sempre guardato con sospetto le posizioni di chi considerava finito lo stato-nazione. Come ha più volte sottolineato, lo stato-nazione non scompare, ma cambia le sue forme istituzionali affinché la globalizzazione prosegua, industriata, il suo corso. E allo stesso tempo ha sempre sottolineato come le disuguaglianze sociali siano immanenti al capitalismo contemporaneo. Ma l’intervista prende avvio dalle rivolte inglesi, a cui ha dedicato un articolo, scritto con Richard Sennet, e apparso sul New York Times. Articolo nel quale, fatto abbastanza inusuale per gli Stati Uniti, i due studiosi pongono la centralità della «questione sociale» per comprendere cosa stia accadendo nel Regno Unito, ma anche negli Stati Uniti e nel resto d’Europa.

La rivolta come reazione violenta alla disoccupazione; oppure come effetto del perverso fascino che esercitano le merci. Sono le due spiegazioni dominanti sulle sommosse che hanno investito Londra e altre città inglese. Qual è, invece, il suo punto di vista?

In ogni sommossa c’è uno specifico insieme di elementi che consentono allo scontento generale di convergere e prendere forma nelle azioni di strada. In Gran Bretagna ci sono tre grandi componenti che hanno provocato la rivolta a Londra, Birmingham, Liverpool, Manchester e altra città del Regno unito.

La prima componente è la strada, cioè lo spazio privilegiato da chi non ha accesso ai consolidati e codificati strumenti politici per la propria azione politica. Nelle rivolte inglesi è emersa una forte ostilità verso la polizia, incendi, distruzione della proprietà privata. Ad essere colpiti sono stati negozi o edifici gestiti, abitati da persone che vivono la stessa condizione sociale dei rivoltosi.

Il secondo elemento che ha funzionato come detonatore è la situazione economica, che vede la perdita del lavoro, di reddito, la riduzione dei servizi sociali per una parte rilevante della popolazione. Per me questo aspetto ha influito molto di più nello scatenare la rivolta più che l’uccisione di un giovane uomo di colore da parte della polizia. La disoccupazione giovanile è, nel Regno Unito, al 19 per cento. Una percentuale che raddoppia in alcune aree urbane, come quella del quartiere dove viveva il giovane ucciso.

Il terzo fattore sono i social media, che possono diventare uno strumento davvero efficace per far crescere una mobilitazione. E in Inghilterra c’è stata una successione davvero interessante nell’uso dei social media. Inizialmente Twitter e Facebook sono stati usati per informare su ciò che stava accadendo e per invitare la popolazione a scendere nelle strade. Ma la seconda notte, la parte del leone l’hanno fatta gli smartphone Blackberry, perché usano un servizio di messaggistica che non può essere intercettato dalle forze di polizia. La grande capacità dei social media di funzionare come strumento di coordinamento della rivolta è data dal fatto che la successione degli scontri appare come scandita da un preciso piano. I focolai della rivolta sono stati più di trenta, quasi che tutto sia stato pianificato e coordinato, appunto, con i social media.

Uno solo di questi fattori non spiegherebbe quattro notti di scontri, incendi, saccheggi. Presi insieme, ogni fattore ha alimentato l’altro. Inoltre, sono convinta che se usciamo da una espressione asettica come disagio sociale il disagio sociale ci troviamo di fronte a storie dove il dolore, la collera delle proprio condizioni di vita non cancellano la speranza per un futuro diverso. Queste sommosse rendono evidente una questione sociale che non può essere affrontata, come ha fatto David Cameron, come un fatto criminale.

Londra è una delle città globali da lei studiata. Una metropoli che vede una stratificazione sociale molto articolata. Città globale vuol dire povertà, precarietà nei rapporti di lavoro. Inoltre la crisi economica sta provando un impoverimento che non risparmia nessuno dei gruppi e classi sociali della popolazione, eccetto solo per quei top professional che non sanno bene cosa significa la parola crisi. Non potremmo dire che le rivolte inglese sono figlie del neoliberismo?

In tutte le città globali la povertà è una costante. Inoltre, ho spesso scritto che le dinamiche economiche, sociali e politiche insite nella globalizzazione hanno come esito una crescita di lavori sottopagati e dei cosiddetti working poors, i lavoratori poveri. Ci troviamo di fronte a una situazione dove il passaggio dalla disoccupazione a lavori sottopagati e dequalificati è continuo. Uno degli aspetti, invece, meno indagati delle global cities, e su cui sto lavorando all’interno del progetto di ricerca The Global Street, Beyond the Piazza, è il ruolo sempre più rilevante assunto dalla cosiddetta cultura di strada nel condizionare le forme di azione politica tanto a Nord che a Sud del pianeta.

I conflitti di strada sono parte integrante della storia moderna, ma erano sempre complementari alle forme politiche consolidate. Recentemente, invece, hanno assunto un ruolo più rilevante, perché l’occupazione dello spazio è espressione del potere dei movimenti sociali. Le sollevazioni dei popoli arabi, le proteste nella maggiori città cinesi, le manifestazioni in America Latina, le mobilitazioni dei poveri in altri paesi, le lotte urbane negli Stati Uniti contro la gentrification o le rivolte americane contro la brutalità della polizia sono tutti esempi di come la strada sia il veicolo del cambiamento sociale e politico.. Ma se questo appartiene al recente passato, possiamo citare anche le recenti mobilitazioni a Tel Aviv. In Europa parlate degli indignados, riferendovi alla Spagna. Ma tanto a Madrid che Tel Aviv abbiamo assistito a vere e proprie occupazioni delle piazze che sono durate giorni, settimane, sperimentando forme di organizzazioni e di decisione politica distanti da quelle dominanti nelle società. Quello che voglio sottolineare è che ci troviamo di fronte a forme di protesta che coinvolgono una composizione sociale eterogenea, dove ci sono disoccupati, ma anche lavoratori manuali di imprese che hanno conosciuto processi di downsizing e delocalizzazione, colletti bianchi, ceto medio impoverito. E sono forme di protesta che nascono e si consolidano al di fuori degli attori politici tradizionali (partiti, sindacati). Gli indignados di Madrid chiedono certo lavoro, servizi sociali, ma anche una profonda trasformazione del rapporto tra governo e governati. La piazza, la strada non sono dunque solo il luogo dove si avanzano rivendicazioni, ma anche lo spazio per rendere manifesto il potere dei movimenti sociali.

La crisi del neoliberismo ha caratteristiche drammatiche. Alcuni paesi hanno dichiarato bancarotta, altri sono arrivati sul punto di fallire (la Grecia); altri sono diventati sorvegliati speciali della Banca centrale europea che di fatto ha sospeso la loro sovranità nazionale. E le proposte per uscire alla crisi è un insieme di misure di politica economica e sociale che potremmo definire di liberismo radicale. Lei che ne pensa?

Nel mio lavoro di ricercatrice ho difficoltà ad usare il concetto di crisi per spiegare cosa sta accadendo in molti paesi, dagli Stati Uniti all’Europa. Ci troviamo in una situazione inedita, sotto molto aspetti. Ci sono certo paesi in forte difficoltà economica; altri però hanno tassi di crescita e di sviluppo impressionanti. Detto più semplicemente, stiamo assistendo a un imponente spostamento della ricchezza da una parte della società verso un’altra. E questo coinvolge le risorse finanziarie dello stato, del piccolo risparmio, delle piccole attività imprenditoriali. Una sorta di concentrazione della ricchezza nelle mani di una esigua e tuttavia ricchissima minoranza. E tutto ciò senza che tale concentrazione della ricchezza possa essere recuperata attraverso il sistema della tassazione. È questo il dramma che stanno vivendo alcuni paesi.

Non ci troviamo cioè di fronte a una realtà oscura, difficile da comprendere o al risultato di una cospirazione o di un fenomeno che per interpretare serve la cabala. La tragedia che ci troviamo a fronteggiare è che questa situazione è l’esito non di un evento naturale, ma di un processo politico dove il potere esecutivo, anche quando composto da persone oneste e integerrime, ha favorito, con leggi e decisioni, la concentrazione e l’espropriazione della ricchezza da parte di una minoranza. La Citibank negli Stati Uniti è stata salvata dal fallimento dal governo con 7 miliardi di dollari. Soldi provenienti dal prelievo fiscale, che negli Usa è molto generoso verso i ricchi. Dunque è stata salvato con i soldi della working class e del ceto medio. Se ci spostiamo in Europa, la premier tedesca Angela Merkel ha deciso di spostare una parte delle finanza statale per salvare alcune banche. In altri termini è lo stato, o alcuni organismi sopranazionali, che hanno favorito questo spostamento della ricchezza nelle mani di banche, imprese finanziarie. L’Unione europea è sì intervenuta per salvare la Grecia, ma solo perché il suo fallimento avrebbe messo in ginocchio banche e imprese finanziarie, che hanno fatto profitti attraverso il meccanismo del cosiddetto «debito sovrano». Non so se per queste imprese sia corretto parlare di crisi. Godono, tutto sommato, buona salute, visto che il potere esecutivo corre sempre in loro soccorso. Il risultato è l’impoverimento di buona parte della popolazione, che vede tagliati i servizi sociali e le pensioni.

Tutto ciò mostra i profondi limiti delle democrazie liberali. Siamo cioè di fronte a un profondo cambiamento nei rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. E tra questi e l’economia. Qualcosa di simile, nella sua profondità, è accaduto nel passaggio dal Medioevo alla modernità, quando si formarono gli stati nazionali e furono gettate le basi dello stato moderno. Quello che serve è una adeguata prospettiva storica per analizzare la realtà contemporanea. Nel libro Territori, autorità, diritti sottolineo le analogie tra quel passaggio d’epoca e la situazione attuale. Oggi, come allora, è la forma stato che viene investita da un terremoto. Capire cosa resterà in piedi, e cosa diverrà macerie serve anche a intervenire politicamente affinché tale espropriazione di ricchezza possa essere fermata.

SASKIA SASSEN
Quando le città divennero globali
I rapporti tra potere ed economia

Nata in Olanda, Saskia Sassen ha vissuto la sua adolescenza in Argentina. Gli studi, però, li ha svolti tra la Francia, l’Italia, gli Stati Uniti. Tra le sue pubblicazioni vanno ricordati: “Fuori controllo” (Il Saggiatore), “Le città globali” (Utet), “Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa” (Feltrinelli) , “Le città nell’economia globale” (Il Mulino), “Globalizzati e scontenti” (Il Saggiatore), Territorio, autorità, diritti” (Bruno Mondatori) e “Una sociologia della globalizzazione” (Einaudi). Attualmente è docente alla Columbia University di New York.


il comune in rivolta

Posted: Agosto 14th, 2011 | Author: | Filed under: riots | 9 Comments »

di JUDITH REVEL e TONI NEGRI

Non ci voleva molta immaginazione per « strologare » rivolte urbane nella forma delle jacqueries, una volta che l’analisi della crisi economica attuale fosse stata ricondotta alle sue cause ed ai suoi effetti sociali. In Commonwealth, fin dal 2009, era stato infatti previsto. Quello che non ci saremmo mai attesi, all’incontrario, è che in Italia, nel movimento, questa previsione fosse rifiutata. Sembrava infatti, ci fu detto, antica; si disse invece: ora è il momento di ricostruire fronti larghi contro la crisi, di stabilire nei movimenti forme di organizzazione-comunicazione-riconoscimento che tocchino la rappresentanza politica.

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