Guy Debord, un art de la guerre

Posted: Dicembre 2nd, 2013 | Author: | Filed under: arts, au-delà, Guy Debord, Révolution, situationism | Commenti disabilitati su Guy Debord, un art de la guerre

À l’occasion de l’acquisition des archives Guy Debord par la Bibliothèque nationale de France en 2011 grâce au mécénat, classées Trésor national, l’Institution organise une exposition consacrée aux situationnistes et à leur figure de proue, retraçant leur ambition subversive. Thierry Paquot, philosophe enseignant à l’Institut d’urbanisme de Paris, intime de Guy Debord, nous guide dans les détours de ce parcours, proposé jusqu’au 13 juillet 2013.

Guy1


CONTRO IL DENARO

Posted: Ottobre 31st, 2013 | Author: | Filed under: comune, crisi sistemica, epistemes & società, Marx oltre Marx, situationism | Commenti disabilitati su CONTRO IL DENARO

di Aldo Meccariello

buddha magro

Anselm Jappe
Contro il denaro

Mimesis, Milano-Udine 2013,
pp.62, € 4,90
ISBN 978-88-5751-161-0

E se il vero azzardo fosse quello di scommettere sulla scomparsa del denaro, che cosa ne sarebbe del capitalismo? E che cosa ne sarebbe di noi che «ci siamo consegnati, piedi e mani legate, al denaro»? Come saranno le nostre vite dopo un crollo su vasta scala delle banche e delle finanze pubbliche? Domande provocatorie, come è provocatorio il titolo di questo agile volumetto, che raccoglie tre lucidi e sferzanti articoli di Anselm Jappe, allievo di Mario Perniola e professore di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Frosinone. Nel primo articolo, Il denaro è diventato obsoleto?, l’Autore descrive un raccapricciante scenario distopico che potrebbe stimolare l’immaginazione di un regista di film catastrofici. Senza il denaro, che è il nostro feticcio, senza «questa divinità che noi stessi abbiamo creato dal quale crediamo di dipendere e al quale siamo pronti a sacrificare tutto pur di placare le sue ire» (p. 11), ci saranno magazzini pieni ma senza clienti, fabbriche in grado di funzionare ma senza operai e maestranze, scuole in cui i professori non si presenteranno più, perché privi di salario da mesi, le campagne senza contadini, uffici senza più impiegati: saremmo di fronte all’incantesimo di un nuovo Medioevo «che separa gli uomini dai loro prodotti» (p. 8). Con il susseguirsi di crisi finanziarie peggiori di quelle del 2008, saremmo dinanzi alla fase terminale del capitalismo che implode insieme a quel mediatore universale che Marx chiamava il denaro. In effetti, questo scenario non è così surreale perché – sostiene Jappe – il denaro si sta rarefacendo sia dal punto di vista materiale (deflazione) sia da quello del valore (inflazione), ma senza di esso «che fa circolare le cose, noi siamo come un corpo senza sangue» (p. 10). Ma «se le banche sprofondano, se falliscono a catena, se cessano di distribuire denaro, noi tutti rischiamo di sprofondare con loro» (p. 12), perché un’economia senza questa interfaccia che è il denaro è, al momento, un salto nell’ignoto che sgomenta.

Anche il lavoro si sta dissolvendo in questa specie di tableau apocalittico: è questo il tema del secondo articolo, ancora più radicale del primo, che ha per titolo Lavoro astratto o lavoro immateriale?.Jappe propone al lettore un excursus critico e stringente delle categorie marxiane di valore, merce, denaro e lavoro astratto per spiazzare i teorici e i corifeidel cosiddetto capitalismo cognitivo che identificano in maniera grossolana «‘il lavoro immateriale’ con ‘il lavoro astratto’ di cui parla Marx» (p. 25). Il lavoratore postfordista non è al di là della logica capitalista, e il fatto che metta in gioco il suo capitale cognitivo non gli impedisce di essere la figura più moderna e aggiornata del marxismo tradizionale. Lo spostamento di focus dal materiale all’immateriale non ha significato un cambiamento o una rottura delle analisi classiche dei rapporti di produzione, anche se l’esplosione del terziario prima e della società dell’informazione poi ha reso sempre meno produttivo, in termini puramente capitalistici, il lavoro. Il paradosso risiede nel fatto che è proprio la società del lavoro ad abolire il lavoro. La sostituzione del lavoro con la tecnologia e la conseguente disoccupazione potrebbero in sé essere un fattore positivo: in una società razionale, le tecnologie permetterebbero a tutti di lavorare molto di meno, e ciò sarebbe un bene. Invece la società capitalista non si interessa all’utilità o meno, ma alla sola produzione del “valore”: chi non ha un lavoro viene tagliato fuori dalla società. Ma quando la crisi del capitalismo raggiungerà il suo apice, almeno la metà della popolazione globale diventerà superflua. Da tale punto di vista il capitalismo – osserva Jappe – vive uno stadio terminale, e «non fa altro che rinviare il redde rationem tramite la finanziarizzazione. Infatti, nessun modello nuovo di accumulazione è più venuto: si sono solo simulati dei profitti» (p. 32). La crescita esplosiva del capitale finanziario aumenta la volatilità dei mercati e la progressiva abolizione del denaro; in tale ottica i mezzi di creazione del profitto divengono meramente finanziari, provocando il collasso delle politiche occupazionali la cui stagnazione o retrocessione porta indirettamente alla precarizzazione o alla crisi del lavoro.

All’apparenza, quelle di Jappe sembrano provocazioni intellettuali e analisi iperboliche, ma ad una riflessione più attenta sono tesi nuove ed originali che però sfuggono all’interno del dibattito della sinistra italiana, rassegnata da sempre all’eternità del capitalismo e delle sue categorie. Il ragionamento dell’Autore continua serrato anche nel terzo saggio che chiude il volumetto, intitolato Credito a morte. La storiella che la finanza sia la sola responsabile della crisi mentre l’economia reale sarebbe buona e sana non regge più perché la crisi che stiamo vivendo non è l’occasione di un miglioramento del capitalismo «come motore di un nuovo regime» di accumulazione e produttore di impiego» (p. 42), ma semplicemente il suo colpo di coda, la sua agonia. È mera illusione pensare che tutta la responsabilità sia attribuibile all’avidità di gruppi di speculatori o di multinazionali ingorde per favorire invece «un ritorno al capitalismo “saggio”, perché “regolato” e sottomesso alla “politica”» (p. 44). La tesi ovvia e spiazzante di Jappe che ilcapitalismo non è eterno e pertanto può crollare per i limiti interni al proprio sviluppo è una tesi che meriterebbe di essere approfondita e discussa in ben altri luoghi istituzionali e in organismi internazionali dove si decide l’assetto economico del mondo. L’intero sistema per ora tiene perché si basa essenzialmente sul credito, ma non può durare. I dati certi con cui fare i conti sono l’esaurimento delle risorse, i cambiamenti irreversibili del clima, l’estinzione delle specie naturali e dei paesaggi, l’avanzare impetuoso delle tecnologie che sostituiscono il lavoro vivo. Perfino gli antagonismi storici (operai e capitale, lavoro e denaro) «rischiano di scomparire insieme, avvinti nella loro agonia» (p. 61). Come uscirne? È la bella domanda che non può trovare risposte a meno che non si ricorra, come suggerisce Jappe, alla contemplazione di un quadro di Paul Klee, Finalmente, l’uscita.


Insospettate insorgenze: dalla comunità politica alla condotta in comune

Posted: Ottobre 13th, 2013 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, kunst, Marx oltre Marx, post-filosofia, Révolution, situationism | 73 Comments »

[gf 29.11.2012]

posthuman

1. Il destino delle comunità politiche, ovvero delle forme comunitarie dell’esistenza politica, per come esso ci è stato consegnato dal XX secolo, è un destino segnato, e come tale senza alcuna speranza. Le ultime forme della lunga storia delle politiche “di comunità” attengono sostanzialmente, nelle loro diverse declinazioni, a quelle che l’antropologo Ernesto De Martino non avrebbe avuto difficoltà ad inserire tra le “comunità del lutto”. Una comprensione adeguata di tale “agire in comunità”, secondo l’espressione di Weber, implica però la genealogia della stessa forma comunitaria dell’esistenza politica: in questo senso, possiamo dire che che la “modernità”, o quantomeno quella modernità politica che attraversa le esplosioni rivoluzionarie dell’800 e del ‘900, si caratterizza per l’esistenza di certe forme di comunità politica. Da questo punto di vista ciò che è moderno può essere distinto da ciò che moderno non è – ed è quindi precedente o successivo – anche in base alle rappresentazioni sceniche e alle posture soggettive e del politico, ovvero, proseguendo lungo questo asse, attraverso certe forme specifiche di “agire in comunità”. Diversamente detto: se è possibile riconoscere la “modernità”, come Foucault ha intuito nei suoi ultimi anni di lavoro, per l’esistenza di alcune e non di altre forme di “condotte”, ovvero di “stili di vita”, occorre anche intravedere in che termini queste condotte abbiano prodotto valori e spazi simbolici per la scena della politica: come Rancière ha chiarito a proposito del “disaccordo” intrinseco al politico, di cui Machiavelli parlava citando alla sua maniera la diatriba tra patrizi e plebei nell’antica Roma e l’indisponibilità dei nobili a comprendere nel campo politico chi “non poteva” avere voce politica, nelle Istorie fiorentine, il problema cruciale della fondazione politica è, per la modernità, quella dello “spazio scenico” e conseguentemente della tracciabilità tra un “noi” e un “loro”. Ed è proprio questa divisione del sociale che verrebbe neutralizzata nelle mitologie, e nelle pratiche, dell’agire in comunità. La politica è dov’è la comunità: oltre è terra di nessuno. Una vera decostruzione di questa terminologia della “comunità politica” è possibile solo nei termini di una decostruzione delle pratiche su cui essa si è fondata e che l’hanno a loro volta perpetuata. In questo senso, occorre tornare a pensare le forme di comunità politica che hanno storicamente costituito la modernità occidentale e che hanno collaborato per definire la scena pubblica della sua “politica” innanzitutto come degli orizzonti simbolici in cui determinate forme di agire individuale – pensiamo alle forme cooperative di metà Ottocento o ai club giacobini – si sono riconosciute e, nel riconoscersi, hanno dato vita e senso ai destini biografici di milioni di individui.

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Che cosa rimane di Guy Debord. Intervista ad Anselm Jappe

Posted: Settembre 9th, 2013 | Author: | Filed under: arts, au-delà, epistemes & società, Marx oltre Marx, Révolution, situationism | 304 Comments »

di RICCARDO ANTONUCCI

Debord1

A margine del convegno dal titolo “I situazionisti: teoria, arte e politica”, tenutosi all’Università di Roma 3 lo scorso 30 maggio, abbiamo intervistato Anselm Jappe, tra i relatori di questa giornata insieme, tra gli altri, a Mario Perniola (1). Si è parlato della recente mostra degli archivi Debord alla Bibliothèque Nationale de France e dell’attualità, o meglio della feconda inattualità, dell’opera del pensatore francese.

Dopo aver partecipato al collettivo tedesco Krisis, Anselm Jappe insegna attualmente estetica all’EHESS di Parigi, e all’Accademie d’Arte di Frosinone e di Tours. Ha studiato a fondo la corrente situazionista, ed è autore di numerosi articoli e volumi, in francese, tedesco e italiano, tra cui spiccano: Crédit à mort (Paris 2011), Contro il denaro (Milano 2012) e i due importanti volumi Guy Debord (Paris 2001, ried. Roma 2013) e L’avant garde inacceptable (Paris 2004).

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Bruciare Debord? A partire da un libro di Anselm Jappe

Posted: Maggio 11th, 2013 | Author: | Filed under: Archivio, au-delà, Révolution, situationism, surrealism | Commenti disabilitati su Bruciare Debord? A partire da un libro di Anselm Jappe

di Alessandro Simoncini

Guy

Persistenze dello spettacolo nel nuovo ordine penitenziale. Una premessa

«Bisogna bruciare Debord?«. Si apre con questa domanda il Guy Debord di Anselm Jappe (Roma, Manifestolibri 2013 → QUI), assai opportunamente ristampato per i tipi della Manifestolibri e pubblicato in prima edizione italiana nel 1992 dalle Edizioni Tracce. Iniziava allora la litania della fine della storia: ogni alternativa alla società del capitale, della merce, del valore e del lavoro comandato doveva cessare di essere concepibile e, nelle intenzioni dei teorici del nuovo ordine, perfino desiderabile. Oltre venti anni dopo, la fine della storia non riesce ancora a finire. Anzi, nella temperie di una crisi acutissima ed ormai permanente – una crisi economica globale che si svolge nel contesto di una transizione geo-politica segnata dalla fine del “secolo americano” -, nuove sfibrate versioni della vecchia litania danno forma ad un discorso-zombie sulla “giustizia dei mercati” che si affatica a fornire una sempre più instabile parvenza di verità alla variante finanziarizzata e neoliberale dell’accumulazione capitalista. Fin dalla sua nascita e per tutti gli anni ’80, ’90 e ‘00, l’espansione finanziaria è stata supportata e riprodotta dalle forme di quell’ordine “spettacolare integrato”che Debord aveva posto al centro della sua radicale indagine nei Commentari sulla società dello spettacolo (1988).

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URBAN 5

Posted: Febbraio 10th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, arts, au-delà, comune, epistemes & società, Révolution, situationism | Commenti disabilitati su URBAN 5

Urban 5

MILLEPIANI/URBAN 5
CARTOGRAFIE DEL DESIDERIO
Per la creazione di una nuova polis

Testi di: Tiziana Villani, Thierry Paquot, Giairo Daghini, Anselm Jappe, Lucien Kroll, Ubaldo Fadini, Paul D. Miller, VOINA, Camilla Pin, Enzo Scandurra, Claudia Mattogno, Giovanni Attili, Carlo Cellamare

Testi di: Tiziana Villani, Thierry Paquot, Giairo Daghini, Anselm Jappe, Lucien Kroll, Ubaldo Fadini, Paul D. Miller, VOINA, Camilla Pin, Enzo Scandurra, Claudia Mattogno, Giovanni Attili, Carlo Cellamare

In che modo è possibile ripensare i modi dell’abitare contemporaneo?
La prima considerazione che intendiamo proporre in questo volume riguarda l’esistente, ciò che conosciamo e che attraversiamo tutti i giorni, il consueto che distrattamente ci accompagna nei diversi momenti in cui si declinano le nostre esistenze.
Lo spazio dell’urbano contemporaneo disegna in modo decisivo la trasformazione dei processi sociali in corso, e per quanto le sue forme possano apparire differenziate, tutte testimoniano una sorta di onda d’urto che si frantuma in direzioni diverse senza potersi poi ricomporre.
I rapporti di lavoro, di vicinanza, di periferizzazione, di riorientamento verde di alcuni spazi, appaiono molto fragili se confrontati con i processi speculativi e di cementificazione.
È possibile immaginare delle nuove agora nel tempo della “gentrificazione” e della marginalizzazione degli spazi urbani?
Lo spazio della condivisione in cui il potere viene sospeso è uno spazio materiale, oltre che simbolico, che nell’oggi deve farsi carico della transitorietà che caratterizza l’abitare umano. Strumento dunque tanto più necessario perché dovrà assumere caratteri rizomatici e indispensabili al fine di restituire luoghi e pensieri alla creazione di nuove situazioni e di nuove istituzioni che ripensino i lavori, i saperi, la cura, le relazioni, le forme della comunicazione.
Gli interventi qui raccolti non si limitano a descrivere, ma si spingono ad interpretare queste domande urgenti spesso partendo da esperienze o territori profondamente diversi.
Il problema del “naturale”, del “verde”, della resilienza, della sostenibilità è assunto in questo numero, nella domanda di nuova articolazione tra il biologico e il tecnologicamente avanzato, che solo nel reciproco intrecciarsi potranno indicare condizioni più soddisfacenti di esistenza. Questi spazi sono “porosi”, ossia territori di interscambio e contaminazione continua, ma non per questo si tratta di spazi dell’abbandono e del degrado; occorre modificare lo sguardo e l’approccio considerando le potenzialità che ogni luogo offre. L’abitare, i movimenti di territorializzazione e di deterritorializzazione chiamano in causa quella specifica attenzione che Gilles Deleuze e Félix Guattari sottolineavano quando affermavano che la prima delle arti è l’architettura, poiché l’uomo nasce con essa, considerazione da coniugare con le Immagini di città di Walter Benjamin, in cui è quasi una compromissione corporea quella che coinvolge il viaggiatore con le città che attraversa. Inoltre, impossibile in proposito non tener presente la lucida analisi di Jean-Pierre Vernant, che intende ripensare l’istituzione delle agora, luogo essenziale della polis: “Lo spazio urbano non gravita più intorno a una cittadella reale che lo domina, ma è incentrato sull’agora che, più che il mercato dove si scambiano i prodotti, è il luogo per eccellenza in cui si discute liberamente tra uguali. Il miracolo greco (che tale non è) è questo: un gruppo umano si propone di spersonalizzare il potere sovrano, di metterlo in una situazione tale che nessuno possa più esercitarlo da solo, a modo suo. E affinché sia impossibile appropriarsene, lo si ‘deposita al centro’ […] Depositare il kratos, il potere di dominio, in questo luogo pensato come centrale, equidistante da ogni membro della città, non significa soltanto spersonalizzarlo, ma anche neutralizzarlo…”. (J.P. Vernant, Senza frontiere. Memoria, mito e politica, Milano, R. Cortina, 2005, p. 128).
Agora di transito dunque, luoghi per una discussione tra eguali, capaci di mettere insieme creazione e saperi, atti alla soddisfazione della prima tra le dimensioni “in comune”: quella dell’abitare.

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TEMPO FUORI SESTO. GUY DEBORD CONTRO LA MODERNITA’

Posted: Novembre 1st, 2012 | Author: | Filed under: au-delà, post-filosofia, Révolution, situationism | 4 Comments »

di Raffaele Alberto Ventura

Nell’eredità del situazionismo c’è qualcosa di paradossale. Da una parte, i concetti elaborati tra il 1952 e il 1968 in seno all’Internazionale Lettrista e poi Situazionista sono pervenuti a una posizione egemonica, costituendosi come sovrastruttura ideologica del sistema del consumismo culturale: parte integrante del cosiddetto «nuovo spirito del capitalismo». Ma d’altra parte proprio nel Sessantotto, e proprio con La Società dello Spettacolo, Guy Debord dava corpo a una riflessione tragica sulla modernità che oggi nutre varie forme di pensiero più o meno reazionario – dalla Nouvelle Droite di Alain de Benoist a certe frange dell’anarco-primitivismo. Per semplicità, diremmo che vi sono due modi di «recuperare» il situazionismo, l’integrato e l’apocalittico. Si potrebbe allora credere che le contraddizioni del post-situazionismo rispecchino le contraddizioni del situazionismo, e magari le trasformazioni del pensiero di Guy Debord. In verità, come mostreremo, non c’è alcuna contraddizione, e ben poche trasformazioni. Apocalittico e integrato sono le due facce di una medesima medaglia.

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