basic income

Posted: Marzo 18th, 2012 | Author: | Filed under: comune, critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su basic income

Secondo la ministra del lavoro, in Italia “con un reddito base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro”. Per risponderle, ecco un’intervista a Philippe Van Parijs, fondatore del Basic Income Earth Network, tratta da Per un’altra globalizzazione (Edizioni dell’Asino 2010).
di Giuliano Battiston

Prima di capire le ragioni per cui dovremmo fare nostra l’idea di “versare a tutti i cittadini, incondizionatamente, un reddito di base cumulabile con ogni altro reddito”, valutiamo le obiezioni più comuni, tra cui quella – già avanzata da Marshall in un diverso contesto – che i diritti di cittadinanza debbano accompagnarsi a delle contropartite, a dei doveri; che ci debba essere un legame tra reddito e lavoro; che la concessione del reddito vada condizionata a un contributo produttivo, o alla volontà di darlo. Come lei ricorda ne Il reddito minimo universale, soprattutto nell’Europa continentale è forte il modello “bismarckiano” “conservator-corporativista” della protezione sociale, l’idea che la previdenza sociale sia legata al lavoro e allo statuto di salariato del cittadino. Mentre nel saggio Il basic income e i due dilemmi del Welfare State riconosce che la parziale “disconnessione tra il lavoro e il reddito richiederebbe un radicale ripensamento” culturale, anche in quei pochi partiti di sinistra che ancora oggi riconoscono nel lavoro un tema centrale della loro agenda politica. Come favorire questo ripensamento? E come risponde alle obiezioni menzionate?

L’idea che il diritto a un reddito debba essere legato al lavoro o alla disponibilità a lavorare, che dunque ci sia un’associazione, che deriva da considerazioni di tipo etico, non economico, tra lavoro e reddito, non si limita ai Paesi dal modello “bismarckiano”, ma investe anche il mondo anglosassone, e direi anzi che sia presente in tutte le società del mondo. A questo proposito, è interessante notare una singolare analogia, perché quest’idea si avvicina molto alla relazione etica che per lungo tempo diverse società hanno istituito tra sesso, gratificazione sessuale e riproduzione. In tutte quelle società nelle quali, in ragione di una forte mortalità infantile, era essenziale ottenere un elevato livello procreativo, divenne infatti eticamente obbligatorio legare la gratificazione sessuale almeno al “rischio” della procreazione, così da contribuire eventualmente alla sopravvivenza della comunità. Per lungo tempo, e per ragioni analoghe, si è radicata l’idea che si potesse avere accesso alla gratificazione del consumo, dunque al reddito, solo a condizione di essere disposti a contribuire alla produzione (l’equivalente della riproduzione nel caso della gratificazione sessuale). La connessione tra i due aspetti è evidente. Oggi però ci troviamo a vivere in condizioni tecnologiche ed economiche molto diverse, grazie alle quali non è più necessario che tutte le attività sessuali siano legate alla possibilità della procreazione, e allo stesso modo non è necessario fare del contributo alla produttività, dunque del lavoro, una condizione di accesso al reddito. Intendo dire che è possibile dare vita a un’organizzazione della società che non sia basata su questo tipo di etica del lavoro. Mi rendo conto tuttavia che questo discorso dimostra solo la possibilità di una diversa organizzazione, ma non che sia giusto o preferibile introdurla. Per questo occorre ancora lavorare molto, superando i tanti ostacoli culturali, sia a destra che a sinistra. Mi sembra comunque curioso che in tutti questi anni l’obiezione etica abbia sempre prevalso rispetto all’obiezione tecnica, relativa alla plausibilità di finanziare un meccanismo del genere, e agli interrogativi sulla realizzabilità politica di quest’idea.

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