Christoph Türcke

Posted: Marzo 15th, 2012 | Author: | Filed under: crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Christoph Türcke

1) I banali traumi dello status quo

di Benedetto Vecchi

Pubblicato il saggio del filosofo tedesco Christoph Türcke. Gli shock
emotivi non producono la crisi, ma le condizioni per la difesa dell’ordine
costituito. Un’importante analisi del capitalismo che ne fotografa però solo
l’ambivalenza. Ci sono dei libri che difficilmente cadono nel dimenticatoio.
Possono anche non avere successo di pubblico, né di critica, ma le tesi che
esprimono reggono all’usura determinata dall’imperante just in time
dell’industria culturale. La società eccitata di Christoph Türcke è uno di
questi libri (Bollati Boringhieri, pp. 352, euro 43). Uscito nel 2002 in
Germania, ha dovuto attendere dieci anni prima che fosse pubblicato da
Bollati Boringhieri, che ha ritardato la sua uscita per la difficoltà del
testo, al punto che il suo traduttore, Tommaso Cavallo, ha voluto spiegare
le scelte fatte per termini del tedesco antico, del latino medievale. I
problemi non nascono solo dai raffinati e talvolta arcaici lemmi scelti da
Türcke, ma perché La società eccitata non nasconde mai l’ambizione di volere
essere un’analisi puntale del capitalismo contemporaneo e, al tempo stesso,
una resa dei conti con il marxismo tedesco occidentale del secondo
dopoguerra, così fortemente condizionato dalla Scuola di Francoforte, dal
principio speranza di Ernst Bloch o dalla messianica ricezione tedesca di
Walter Benjamin.

Obiettivi dunque complementari, ma distinti, che provocano non pochi
problemi nella lettura, che si presenta sin da subito impegnativa. Ma per un
libro, la fatica della lettura, come la concentrazione per destrutturare le
cattive astrazioni che popolano l’universo informativo sono fattori
indispensabili per riprendere contatto con la realtà che la seconda natura
della tecnologia tende a occultare. La concentrazione e la fatica aumentano
dunque il valore analitico di questo saggio. Ha dunque fatto bene l’editore
a perseguirne la pubblicazione, nonostante le difficoltà di traduzione e il
fatto di essere un libro che non comparirà mai nelle classifiche dei libri
di più venduti della settimana.

L’inganno dell’opinione pubblica

La tesi presentata da La società eccitata può essere così sintetizzata. Il
capitalismo è una organizzazione sociale incardinata su due elementi tra
loro contraddittori. Da una parte usa l’industria culturale e
l’intrattenimento per costruire un consenso passivo dei singoli allo status
quo; allo stesso tempo, deve garantire la sua riproduzione allargata
attraverso la produzione di reiterati shock emotivi che svelano sì la
violenza del sistema di sfruttamento vigente, ma lo «naturalizzano». Nel
primo caso, produce, attraverso i mass media e l’industria culturale,
un’opinione pubblica che non mette mai metterne in discussione la
legittimità del potere costituito.

L’opinione pubblica è giustamente interpretata come l’antitesi dell’agire
politico, cioè di quella azione collettiva tesa a trasformare l’ordine
sociale esistente. In questo, l’analisi di Türcke è fortemente debitrice nei
confronti della dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer e allo
stesso tempo critica nei confronti di Jürgen Habermas, il filosofo tedesco
che ha invece individuato nell’opinione pubblica lo sfondo in cui collocare
una politica della trasformazione.

Per quanto riguarda gli shock emotivi, il riferimento ovviamente è alla
diffusione e alla centralità delle immagini tesi a provocare spaesamento,
insicurezza, sentimenti dai quali sfuggire o cercare zone franche che
offrano riparo e sicurezza, attraverso una eccitazione dei corpi. La società
eccitata è dunque il trionfo dello spettacolo, operando così una messa
all’angolo della parola scritta. Aspetti certo non nuovi, ma che l’autore ha
il grande pregio di contestualizzate all’interno della densa e pur sempre
breve storia della modernità, intesa come un progressivo divenire del
visuale il fattore centrale dell’industria del divertimento. Anche qui,
Turcke non nasconde i suoi debiti teorici. C’è ovviamente Guy Debord, ma
anche il Walter Benjamin della riproducibilità dell’opera d’arte e dei
passages parigini. L’aspetto interessante della sua riflessione non è però
nel suo ricollegarsi a un filo rosso del pensiero critico da tempo lasciato
cadere, bensì nel fatto che lo shock emotivo permanente del capitalismo
contemporaneo è solo apparentemente un fattore destabilizzante dei fattori
regolatori del legame sociale, bensì il fatto che lo shock è sempre stato un
elemento teso a produrre un ordine sociale che si riproduce appunto
attraverso traumi, shock, senza i quali è destinato a inaridirsi e a
implodere.

Eccitati e precari

Per fare questo Türcke ricostruisce la genealogia del concetto di
sensazione, che ha da quando gli umani hanno assunto la posizione ha sempre
avuto una importanza cruciale nel regolare le relazioni sociali. La
sensazione troduce un trauma attraverso il quale i singoli scoprono la loro
vulnerabilità e i problemi che li angosciano.

Ma proprio questa «scoperta» – togliendo a questo termine ogni connotazione
positiva – consente il superamento della loro precaria condizione. Lo shock,
tuttavia, anche se viene esperito individualmente è sempre un fatto sociale.
Da qui, la affermazione di Türcke che la sensazione è un sentimento che
nasce dal vivere in società. La religione, come i riti di iniziazione, ma
anche la scrittura, la pittura, la fotografia e il cinema sono tutte
«istituzioni» che producono gli shock emotivi necessari all’«individuo
sociale» per superare una condizione di minorità. La modernità ha dunque
elevato alla massima potenza la produzione di shock emotivi per rendere
accettabile la violenza del sistema di sfruttamento capitalistica.

Violenza del lavoro salariato

Questa ultima affermazione non tragga d’inganno. Turcke non è un
apocalittico, né un nostalgico di una immaginaria età dell’oro. Semmai è
interessato a comprendere il perché di questa produzione massificata di
shock emotivi. Ed è per questo motivo che si inoltra in quel continente
rimosso dalle mappe del sapere che è la critica dell’economia politica. Il
confronto che stabilisce con l’opera marxiana parte dalla consapevolezza che
l’autore del capitale si è misurato in gioventù con la religione, l’oppio
del popolo che consente di gestire la fragilità della natura umana,
producendo anche qui traumi e shock emotivi. Ma ciò che interessa in questo
libro è la riflessione che l’autore fa sulla gestione che la «società
borghese» degli shock emotivi, che vengono prodotti affinchè la violenza del
lavoro salariato sia resa accettabile. Affascinanti sono a questo proposito
le pagine che Türcke dedica alla fotografia, al cinema. Alla Rete. La
crescita esponenziale delle immagini e delle informazioni è funzionale a
rendere accettabile ciò che il corpo – senza distinzioni tra mente e carne –
tenederebbe a rifiutare.

E qui si colloca l’interesse del libro. In un movimento forse poco
dialettico, Türcke sostiene che il capitalismo contemporaneo rende manifesti
temi, nodi teorici attinenti alla natura umana. L’uomo, e le donne, va da
sé, hanno necessità degli shock emotivi per sopravvivere in un mondo ostile
e nemico. L’industria culturale e quella dell’intrattenimento hanno dunque
questa ambivalenza. Producono shock funzionali alla riproduzione dell’ordine
esistente, ma nel fare queste aprono il campo alla trasformazione.
Christopher Türcke non nega che questo sia il nodo politico che finora non è
stato sciolto. Quello che non sempre convince del suo procedere analitico è
il movimento circolare che propone.

La modernità nella sua riflessione non esaurisce la storia umana, ma le
contraddizioni che apre costringono a fare i conti con la natura umana, cioè
con quell’individuo sociale preesitente al capitalismo e che sopravviverà
anche alla sua fine. I grandi temi della filosofia tornano ad abitarte la
pagine de La società eccitata. Il capitalismo è una parentesi, al termine
della quale non è dato sapere come saranno affrontati e risolti alcuni
fattori riguardanti il vivere in società. Il rapporto con l’altro,
ovviamente, ma anche il pensare di costruire una società di liberi ed
eguali. Christopher Türcke conosce bene le discussioni su quel cielo diviso
sotto il quale più generazioni hanno visssuto. E sa che tanto ad Ovest che a
Est, il fallimento è una parola che illustra bene i problemi del presente.
La proposta che enuncia non rassicura. L’autore propone certo di assumere la
critica dell’economia politica come bussola. È però consapevole che indica
la direzione ma nulla dice su come vivere nei territori che si attraversano.
Propone di usare la «sensazione» e lo shock emotivo come uno strumento di
sovversione del reale se «depurato» dell’elemento rassicurante. Ma così
facendo, come in un gioco dell’oca, si torna al punto di partenza, cioè a
come attivare quel movimento che abolisce lo stato di cose presenti.
Un libro dunque da leggere, meditare. Lasciando alla critica roditrice dei
topi le illusioni su un semplice e innocente nuovo inizio di quel movimento,
come se nulla sia accaduto nel lungo Novecento alle nostre spalle.

2)
“Nei media d’oggi una magia nera che nevrotizza e uccide lo
spirito”

di Marco Dotti

L’elevata e continua pressione delle notizie sulla vita ha trasformato la
percezione del sensazionale, fino a elevare il caso-limite a norma

Quando Reginald Aubrey Fessenden si mise dinanzi a un microfono, nella
stazione radio di Brand Rock, nel Massachusetts, e, violino alla mano, si
abbandonò alle note di O, Holy Night, pochi si resero conto di quanto stava
accadendo. Era la sera di Natale del 1906, e quella trasmessa da Fessenden
fu la prima emissione radiofonica della storia. Al violino, l’intraprendente
inventore, figlio di un pastore protestante, alternò la lettura di alcuni
passi dal Vangelo di Luca (2,14). Quel «gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini di buona volontà» inaugurò un nuovo corso nella
storia della comunicazione umana. Sarebbe persino banale ricordare, come
provocatoriamente fa nella prima parte del suo lavoro Christoph Türcke, che
evanghélion significa «notizia» se non fosse per ribadire che la scelta di
Fessenden non era priva di coerenza interna in ciò che Türcke chiama assioma
della logica delle notizie, la cui analisi occupa i primi capitoli de La
società eccitata. Una coerenza involontaria, o meglio inconsapevole, quella
di Fessenden (fare notizia leggendo «la» notizia, il Vangelo) che rinveniamo
anche nel termine inglese per notizia, «news», Ed è su questa coerenza che
insiste – tra le altre cose – Türcke. Gli eredi di Fessenden, quelli che
Türcke chiama i moderni «divulgatori di notizie» sono spesso costretti a
decidere nello spazio di pochi istanti su ciò che conta o non conta e sulle
notizie che intendono diffondere, senza badare troppo ai criteri – spesso
totalmente autoreferenziali – della loro scelta.

Non hanno pertanto «molte occasioni per preoccuparsi del sostrato teologico
del loro agire». A dispetto, o forse proprio in ragione di questa
dimenticanza, l’esito di ogni impresa giornalistica, di ogni riunione di
redazione, di ogni lavoro editoriale sembra convergere su un punto: la
notizia deve imporsi. E per imporsi deve essere nuova. Se da sempre, fin dai
tempi della Bibbia – che potremmo leggere come una colossale impresa
giornalistica – e dell’Epopea di Gilgames, le notizie sono state
«fabbricate», per esse valeva entro certi termini ciò che Adorno, tra le
pagine della sua Negative Dialektik, poteva ancora chiamare «il primato
dell’oggetto». Primario era l’evento ritenuto degno di essere comunicato,
non il comunicare stesso. Oggi la mediazione precede l’evento, lo crea e i
modernissimi «divulgatori di notizie» sembrano angeli vuoti, portatori di un
messaggio zero che per essere percepito come rilevante deve essere
sottoposto a un processo di eccitazione infinita e di estetizzazione
spettacolare potenzialmente senza limiti.

La società della sensazione è capace di inflazionare l’istante su cui è
ripiegata, proprio grazie a modelli che catturino e attraggano su di sé,
quasi magneticamente, la percezione. Per continuare a sopravvivere, per non
cadere nel baratro di un fallimento al cui rischio è per sua natura esposto,
un’impresa la cui materia prima sia costituita da notizie da lavorare
mensilmente, settimanalmente, quotidianamente e, oggi, persino istante dopo
istante deve continuamente sperare che news degne di essere comunicate non
manchino. L’inversione tra mezzo e fine, tra mediazione e evento, ha origine
da questo paradosso, purtroppo vitale per l’impresa giornalistica:
comunicare eventi rilevanti, ma in mancanza di meglio rendere rilevanti gli
eventi. Siamo allora dinanzi, scrive Türcke, all’inversione di un assioma e
la logica della notizia, «nuova e rilevante», genera il suo contrario: dal
«comunicare, perché una cosa è importante», al «è importante, perché è
comunicato».

Gonfiare le banalità, rendere isterici gli eventi, nevrotizzare i lettori,
produrre continui corto-circuiti emotivi e cognitivi, ma soprattutto
«semplificare realtà complesse, deviare l’attenzione pubblica da una
determinata vicenda a un’altra: tutto questo inerisce alla stampa come la
sudorazione alla pelle». Si può limitare la sudorazione, ci si può detergere
o lavare di continuo, ma non la si può evitare. Per questa semplice ragione,
prosegue l’autore, non appena ci si imbatta nell’assioma della logica
dell’informazione, ci si imbatte anche nel suo contrario. Di più: «solo
grazie al suo contrario, l’assioma si è conservato, rivestendosene come di
una seconda pelle e confondendo l’una con l’altra al punto da renderle
indistinguibili».

Questo processo, certo ma in nuce sino a che la stampa (intesa in senso
lato) era in procinto di diventare quel mezzo onnipervarsivo che oggi
conosciamo, si rivela adesso nella sua assoluta, nevrotizzante potenza
magica. Non è un caso che proprio il Karl Kraus a più riprese evocato nelle
pagine di questo libro, scrivesse – era il 1921 – che la fine del mondo,
quando avverrà, avverrà a opera di una ««schwarze Magie», una magia nera in
grado di eccitare gli spiriti, uccidendoli. Magia nera che nel linguaggio di
Kraus altro non era se non la stampa. Avendo sotto gli occhi il disastro
della Prima Guerra Mondiale, Kraus si chiedeva: «La stampa è un messaggero?
No, è l’evento. Un discorso? No, la vita. Abbiamo messo l’uomo a cui spetta
di annunciare l’incendio, al di sopra dell’incendio stesso, al di sopra del
fatto, al di sopra della nostra stessa fantasia». Oggi, commenta Türcke,
l’elevata pressione delle notizie sulla vita stessa ha trasformato la
percezione del sensazionale, nella percezione in assoluto, fino a
trasformare il caso limite nella norma di una società perennemente eccitata
passata dalla Totale Mobil- machung, la mobilitazione generale tenuta a
battesimo dalla stampa nelle settimane precedenti il primo conflitto
mondiale, alla mobilitazione infinita iniziata con la Prima guerra del Golfo
e un giornalismo che non ha nemmeno più bisogno di sapersi embedded, per
muoversi al palo, come un cane timoroso, anche quando è senza catene.


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