Posted: Maggio 21st, 2012 | Author: agaragar | Filed under: arts, Révolution | Commenti disabilitati su Intervista a Amos Vogel
L’AVANGUARDIA NON PUO’ ESSERE SCONFITTA: INTERVISTA A AMOS VOGEL
di Cott MaCdonald
MacDonald: Quando conducevi Cinema 16, il modello della “film society” era quello standard per far circolare il cinema alternativo; negli anni ’60 c’è stato un movimento underground o d’avanguardia, o almeno l’illusione che ce ne fosse uno; poi, nei ’70, si è arrivati al sostegno governativo diretto al supporto di sale dedicate al cinema alternativo. Come vedi la scena alternativa odierna?
Vogel: Prima di tutto bisogna considerare il contesto sociale, perché il cinema d’avanguardia può essere preso in considerazione solo all’interno di una visione più ampia. Ai tempi delle proiezioni del Cinema 16 le nostre attività coincidevano, grosso modo, con l’epoca dei Beat, che si è poi sviluppata nei movimenti degli anni ’60. Abbiamo cominciato prima dei Beat, nel 1947-1948, ma il fatto che Pull My Daisy sia stato proiettato per la prima volta all’interno dei programmi di Cinema 16 dimostra che avevamo alle spalle un’atmosfera benevola nei confronti delle forme di sperimentazione che ci interessavano. Quindi, se da una parte proiettando film come quello abbiamo preparato il campo per una situazione che non si è venuta a creare dal nulla, dall’altra c’era un contesto sociale più ampio che ci ha permesso di svilupparci con successo. Ritengo che questa riflessione non valga per l’oggi, o per gli anni recenti. Ci troviamo in un’epoca estremamente conservatrice e retrograda – politicamente, culturalmente, sotto ogni aspetto – con gravi conseguenze per il cinema, in particolare per quello sperimentale, che si caratterizza in maniera più conflittuale di qualunque altro tipo di cinema indipendente.
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Posted: Maggio 19th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: arts, Révolution | Commenti disabilitati su Amos Vogel
AMOS VOGEL: LA CRITICA COME ARTE SOVVERSIVA
di Alessandro Stellino
“L’America contemporanea, un colosso tardo-capitalista che si spaccia per democrazia, posseduto da immense corporazioni e dominato da un affarismo e un consumismo spietati, sta tentando di impadronirsi del mondo per mezzo delle multi-inter-nazionali, della televisione e del cinema hollywoodiano, servendosi dell’esportazione dei “valori” culturali americani per completare la disneyficazione del globo. Il resto del pianeta non dovrebbe avere paura dei dinosauri e degli extraterrestri ma della mercificazione di ogni sfera dell’esistenza umana, della commercializzazione apparentemente inarrestabile della vita e della società, del flagello crescente rappresentato dai parchi a tema, della pervasiva trasformazione del mondo in un centro commerciale. Il nostro destino sembra essere quello dell’omologazione culturale: un livellamento universalizzato verso il basso, un’insidiosa blandizie anestetizzante”.
Non è un giovane turco a scrivere queste parole ma un viennese novantenne scampato per un pelo all’Olocausto e trasferitosi negli Stati Uniti per dare vita alla prima film society americana dedicata alla diffusione del cinema sperimentale.
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Posted: Maggio 16th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: arts, comune, kunst, Révolution | Commenti disabilitati su Perchè gli artisti ? MACAO è la risposta
Written by Franco Berardi Bifo, 15.05.2012
“perché i poeti nel tempo della povertà?” chiede Holderlin nel suo poema “Pane e vino”.
E commentando questo verso, Heidegger dice: “Forse siamo nel momento in cui il mondo va verso la sua mezzanotte”.
In nome del vuoto
Il 5 maggio un gruppo di artisti, architetti, insegnanti e studenti e lavoratori precari della scuola e della comunicazione hanno occupato un edificio chiamato Torre Galfa e l’hanno rinominato Macao. L’edificio è un grattacielo di trentacinque piani, abbandonato da quindici anni.
Dieci giorni dopo l’occupazione, mentre il corpo gigantesco del precariato cognitivo milanese cominciava a stiracchiare le sue membra e a sintonizzarsi con la torre, sono entrati in azione gli esecutori del piano di sterminio finanziario. Il proprietario, noto alle cronache giudiziarie come corrotto e corruttore, ha deciso che quel posto è suo e deve rimanere com’è: vuoto. Tutto deve essere vuoto nella città, perché il capitalismo finanziario ha bisogno di distruggere ogni segno di vita. Le risorse materiali e intellettuali vengono progressivamente inghiottite, annullate, perché i predatori possano espandere la loro insensata ricchezza.
Per la prima volta, occupando la Torre, il movimento è uscito dalla sfera dell’underground e si è proiettato verso l’alto. Non è un movimento di talpe, ma di sperimentatori. Le talpe ora debbono venire fuori, debbono occupare ogni spazio, e contenderlo all’organizzazione di morte che si chiama Banca Centrale Europea.
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Posted: Maggio 16th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: arts, Révolution | Commenti disabilitati su ONE BIG UNION
Su “One Big Union” di Valerio Evangelisti
di Daniele Barbieri
E’ «una specie di fantasma», un «uomo ombra» che «acquista vita concreta solo quando si finge qualcun altro» Robert William Coates, detto Bob. Ne è consapevole e – verso la fine della sua “carriera” – alla domanda «Ma tu chi sei?» risponde la verità: «Non sono nessuno».
Una vita da spia, da infiltrato, da provocatore con occasionali ruoli di picchiatore e sparatore o di capo delle squadracce anti-rossi. Inizia a 14 anni (nel 1877) facendosi reclutare per dare una lezione ai sovversivi della Comune di Saint Louis, «una massa di miserabili», e finisce – da assassino e torturatore – nel 1919. Eppure il Coates, quasi inventato da Valerio Evangelisti, è figlio di un operaio irlandese immigrato negli Usa. Si vende ai padroni certo, tradendo quelli come lui (“la sua classe” avrebbero detto socialisti e anarchici) ma quel che più colpisce è la sua convinzione di essere dalla parte del giusto, un «soldato dell’esercito del bene»: gli operai sono fannulloni anzi «sfaticati di professione, senzadio, sovversivi, accattoni nati» (come scrive la sorella di Coates, giornalista filo-padroni); se si vietasse il lavoro minorile sarebbe una tragedia nazionale; bisogna «attenersi all’ordine cristiano del mondo, al rispetto della proprietà privata» se occorre ingannando e violando le leggi; per la «feccia», la «mandria umana» (cinesi, slavi, negracci, ungheresi, scandinavi, tedeschi e «dagos» cioè italiani, una razza dannata) ci vogliono «legnate» o peggio; se in acciaieria «muore in media un operaio al mese e moltissimi restano feriti» (o si ammalano) è una ineluttabile fatalità; e se i padroni vogliono licenziare, abbassare i salari, fare trattenute per le parrocchie, pagare in buoni da spendere solamente nei loro spacci, vietare le rappresentanze dei lavoratori… sono nel loro pieno diritto. Verità ripetute da «autorità, Chiese, i giornali più diffusi, gli intellettuali illustri, i politici migliori» spiega Coates a Sam Dreyer, una specie di gorilla che risponde: «Tanto meglio, picchierò con più convinzione».
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Posted: Aprile 9th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, arts, au-delà | Commenti disabilitati su sovrapposizioni
di Carmelo Bene e Gilles Deleuze
Traduzione di Jean-Paul Manganaro
Il volume contiene 48 tavole in bianco e nero fuori testo con fotografie, in buona parte inedite, scattate durante le prove per la prima del Riccardo III
“È come se ci fossero due operazioni opposte. Da un lato si eleva a ‘maggiore’: di un pensiero si fa una dottrina, di un modo di vivere si fa una cultura, di un avvenimento si fa Storia. Si pretende così riconoscere e ammirare, ma, in effetti, si normalizza. Succede lo stesso per i contadini delle Puglie, secondo Carmelo Bene: si può dar loro teatro, cinema e persino televisione. Non si tratta di rimpiangere il vecchio buon tempo, ma d’essere sgomenti di fronte all’operazione che subiscono, l’innesto, il trapianto fatto alle loro spalle per normalizzarli. Sono divenuti maggiori. Allora, operazione per operazione, chirurgia contro chirurgia, si può concepire l’inverso: in che modo ‘minorare’ (termine usato dai matematici), in che modo imporre un trattamento minore o di minorazione, per sprigionare dei divenire contro la Storia, delle vite contro la cultura, dei pensieri contro la dottrina, delle grazie o delle disgrazie contro il dogma?” (dal testo di Gilles Deleuze).
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Posted: Marzo 24th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: arts, epistemes & società | 168 Comments »
1) L’immagine surrealista e il cinema
a cura di Renzo Principe
Il cinema “critico-espressivo” e l’immagine surreale *
Il rapporto tra cinema e surrealismo richiederebbe una analisi strutturale dettagliata dei film che sono classificati sotto il titolo di cinema surrealista [1] . Esso comprende un arco di tempo breve che va dal 1927 al 1932, anno in cui è stato prodotto Las Hurdes di Buñuel e Pierre Unik e che chiude il periodo storico del surrealismo cinematografico. Tuttavia, mi sono limitato a riportare solo ciò che era indispensabile per capire quali elementi teorici uniscono il cinema alla “poetica surrealista”. Per un ulteriore approfondimento rinvio alla bibliografia dell’analisi strutturale di questi film che è sconfinata come lo è del resto quella sul surrealismo in generale.
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2) Misticismo e dialettica
di Renzo Principe
Misticismo, surrealismo e pratica comunicativa
Come prima approssimazione, potremmo dire che in ogni misticismo c’è l’esperienza della perdita, cioè un sentimento positivo della mancanza che porta al bisogno di superare tale condizione alienante, attraverso una illuminazione immediata.
Nonostante B. Russel sia un esponente del Positivismo logico, per il nostro discorso è emblematico il modo in cui egli mette a fuoco il rapporto tra atteggiamento mistico e logica. Dal loro confronto egli ricava non una condanna del pensiero intuitivo, ma una alta considerazione dell’immediatezza, anello di congiunzione tra teoria e prassi, tra ragione e sensibilità. Secondo Russel, proprio nell’esperienza dell’illuminazione immediata risiede la credenza in una Realtà superiore[1].
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Posted: Marzo 11th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: arts, au-delà | Commenti disabilitati su Moebius
http://www.youtube.com/watch?v=QyF2bad0f2o
Elegante e azzardato come «un fiore che attira le api»
di Thomas Martinelli
Con un nome d’arte dal fascino intrigante, quello di Moebius, Jean Giraud lascia un segno indelebile nel fumetto internazionale, sia di genere (il western Blueberry, firmato con lo pseudonimo Gir), sia fantascientifico d’autore appunto come Moebius. Ma rinchiuderlo in due soli filoni sarebbe sbagliato e ingrato per chi ha fecondato in ogni direzione l’immaginario disegnato dell’ultimo quarto del XX secolo. Illustratore fine, autore di pietre miliari del fumetto internazionale, influenza discreta nel cinema di fantascienza (Alien e Blade runner di Ridley Scott, Il quinto elemento di Luc Besson), l’artista d’oltralpe il cui alter ego richiama i paradossi grafico-geometrici di Escher, è giustamente ritenuto uno dei principali artefici del rinnovamento del fumetto europeo e mondiale degli anni ’70. Elegante e sofisticato, spettacolare, azzardato, luccicante come acciaio e d’impatto rock duro, punk, metallico, il suo segno s’insinua nell’immaginario post-sessantottino soprattutto sulle pagine raffinate di Métàl Hurlant, la cui prima sconcertante, mostruosa, aliena copertina è disegnata appunto da Moebius. Pseudonimo con il quale per più di 30 anni ha siglato le sue opere più fantastiche e surreali quali Arzach, Il garage ermetico, la saga dell”Incal, mentre per la parte più realistica e concreta, rappresentata soprattutto dal popolarissimo western Blueberry, riservava l’altro pseudonimo di Gir, alias Jean Giraud.
Conversando con me a Napoli una decina di anni fa con aria divertita e trasognata al limite della distrazione, Jean Giraud rideva leggero come le figure di linea chiara che da tempo amava disegnare firmandosi come Moebius. E come aveva fatto anche in precedenti interviste, rispondeva in modo casuale e enigmatico, lasciando come nelle sue storie la possibilità a qualsiasi sviluppo. Di fronte alla domanda se era giunto a un punto d’arrivo o se la ricerca continuava, così rispose: «Non sto cercando nulla. Cerco di aprire le cose che vengono e sono difatti abbastanza passivo. È la stessa cosa per gli incontri e gli amori: sono piuttosto come un fiore che attira le api. Non so, ma veramente non cerco niente. Cerco solo di fare del mio meglio».
Fecondatore dell’immaginario collettivo, a volte poteva dare la sensazione di non controllare tutto ciò che produceva, ma è un aspetto che lui stesso rivendicava: «Senza dubbio, è questo il gioco ed è ciò che lo rende abbastanza puro. C’è solo un’emissione naturale, come una radiazione o un raggio di sole. Il sole non cerca di irradiare alcunché, lo fa semplicemente, e non solo in direzione della Terra ma illumina dappertutto. Non c’è alcun merito in questo, ma è una funzione naturale». Non è detto che a un’intervista successiva avrebbe detto esattamente così, e in questo l’apice della sua opera gli corrispondeva.
Posted: Febbraio 6th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: arts | Commenti disabilitati su Mi ribello, quindi siamo
di Albert Camus
Che cos’è un uomo in rivolta? È innanzitutto un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia: è anche un uomo che dice sì. Osserviamo nel dettaglio il movimento di rivolta. Un funzionario che ha ricevuto ordini per tutta la vita giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Insorge e dice no. Che cosa significa questo no?
Significa, per esempio: «Le cose hanno durato abbastanza», «esistono limiti che non possono essere superati», «fin qui, sì, al di là, no», o ancora: «andate troppo in là». Insomma, questo no afferma l’esistenza di una frontiera. Sotto un’altra forma ancora la stessa idea si ritrova nella sensazione dell’uomo in rivolta che l’altro ‘esageri’, «che non ci siano ragioni per», alla fine «ch’egli oltrepassi il suo diritto», fondando, per concludere, la frontiera il diritto. Non esiste rivolta senza la sensazione di avere in se stessi in qualche modo e da qualche parte ragione. È per questo che il funzionario in rivolta dice ad un tempo sì e no. Perché afferma, assieme alla frontiera, tutto ciò che custodisce e preserva al di qua della frontiera. Afferma che in lui c’è qualcosa di cui vale la pena prendersi cura.
Insieme alla repulsione verso l’intruso, esiste in ogni rivolta un’adesione intera e istantanea dell’uomo a una certa parte dell’esperienza umana. Ma qual è questa parte?
Si potrebbe affermare che il no del funzionario in rivolta rappresenta soltanto gli atti che rifiuta di compiere. Ma si noterà che questo no significa tanto «esistono cose che io non posso fare» quanto «esistono cose che voi non potete fare». Si vede già che l’affermazione della rivolta si estende a qualche cosa che trascende l’individuo, che lo trae dalla sua supposta solitudine, e che fonda un valore. Ci si limiterà, al momento, a identificare questo valore con ciò che, nell’uomo, rimane irriducibile.
Precisiamo almeno che si tratta proprio di un valore. Per quanto confusamente, esiste una presa di coscienza consecutiva al moto di rivolta. Questa presa di coscienza consiste nella percezione improvvisa di un valore con cui l’uomo può identificarsi totalmente. Perché, fin qui, quest’identificazione non era realmente sentita. Tutti gli ordini e le esazioni anteriori al moto di rivolta, il funzionario li subiva. Spesso, anzi, aveva ricevuto senza reagire ordini più rivoltanti di quello che fa scattare il suo moto.
Ma portava pazienza, incerto ancora del proprio diritto. Con la perdita della pazienza, con l’impazienza, comincia un movimento che può estendersi a tutto ciò che in precedenza veniva accettato. Questo movimento è quasi sempre retroattivo. Il funzionario, nell’istante in cui non riconosce la riflessione umiliante del suo superiore, rifiuta insieme lo stato di funzionario per intero. Il moto di rivolta lo porta più in là di quanto egli non vada con un semplice rifiuto.
Prende le distanze dal proprio passato, trascende la propria storia. Precedentemente invischiato in un compromesso, si getta d’un tratto nel Tutto o Niente; ciò che dapprima era la parte irriducibile dell’uomo diventa l’uomo intero. Nel moto della propria rivolta, l’uomo prende coscienza di un valore in cui crede di potersi riassumere. Ma come si vede, prende coscienza, contemporaneamente, di un ‘tutto’ ancora piuttosto oscuro e di un ‘niente’ che significa esattamente la possibilità di sacrificio dell’uomo a questo tutto. L’uomo in rivolta vuole essere tutto- vale a dire questo valore di cui ad un tratto ha preso coscienza e che vuole venga riconosciuto e accettato nella sua persona – o niente, vale a dire essere decaduto ad opera della forza che lo domina. Al limite, accetterà di morire.
Mette sulla bilancia la morte e quanto chiamerà, per esempio, la sua libertà. Dunque, si tratta davvero di un valore, e uno studio dettagliato della nozione di rivolta dovrebbe ricavare, da questa semplice osservazione, l’idea che la rivolta, contrariamente all’opinione corrente, e benché nasca da ciò che l’uomo ha di più strettamente individuale, mette in questione il concetto stesso di individuo. Perché se l’individuo, in casi estremi, accetta di morire e nel moto della propria rivolta muore, dimostra con ciò ch’egli si sacrifica a favore di una verità che oltrepassa il suo destino individuale, che va più in là della sua personale esistenza. Se preferisce l’eventualità della morte alla negazione di questa parte dell’uomo che egli protegge, è perché valuta quest’ultima più generale di se stesso.
La parte che l’uomo in rivolta protegge, egli ha la sensazione di averla in comune con tutti gli uomini. È da ciò che essa trae all’improvviso la sua trascendenza. È per tutte le esistenze a un tempo che insorge il funzionario quando giudica che, da un dato ordine, viene negata qualche cosa in lui che non gli appartiene in modo esclusivo, ma che è un luogo comune in cui tutti gli uomini, anche colui che l’insulta e l’opprime, hanno già pronta una forma di solidarietà. Esiste una complicità che unisce la vittima al carnefice.
La rivolta non nasce solamente e necessariamente nell’oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell’oppressione. Esiste in questo caso un’identificazione con l’altro individuo. Non si tratta di un’identificazione psicologica, sotterfugio per mezzo del quale l’individuo sentirebbe nella sua immaginazione che è a lui che s’indirizza l’offesa (perché, al contrario, si arriva a non sopportare di veder infliggere ad altri delle offese che noi stessi abbiamo subito senza rivolta). Esiste solamente un’identificazione di destini e un prender partito. L’individuo, dunque, non è in se stesso quel valore che vuole difendere. Occorrono tutti gli uomini per costituirlo. È nella rivolta che l’uomo si supera nell’altro, e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica. Nell’esperienza assurda, la tragedia è individuale. A partire dal movimento di rivolta, essa ha coscienza d’esser collettiva.
Il testo di Camus, inedito in Italia, è ora pubblicato per la prima volta nel n. 42 de «La società degli individui», quadrimestrale di filosofia e teoria sociale, edito da Franco Angeli e presente nelle principali librerie.
Posted: Dicembre 31st, 2011 | Author: agaragar | Filed under: arts | Commenti disabilitati su Bansky