Il pensiero politico contemporaneo manca del senso del tragico, e si sforza di interpretare la realtà in base a categorie discorsive che non riescono ad agire sugli automatismi tecnici, linguistici, finanziari, e psichici che sempre più spesso conducono al suicidio: il suicidio collettivo della devastazione ambientale, e il suicidio individuale che inghiotte un numero crescente di vite umane. Occorre invece comprendere la tragedia e parlare il suo linguaggio, se si vuole entrare in sintonia con la mutazione profonda che sta attraversando la società. E se si vuole cercare, ammesso che esista, una via d’uscita dall’abisso cui il capitalismo ha destinato la storia dell’umanità.
Nella teoria economica dominante, il concetto d’impresa è sinonimo di libera iniziativa privata, è l’esprit del capitalismo. Il termine stesso deriva da “intrapresa”, ovvero l’iniziativa del fare, legato all’attività individuale.
Nella Teoria dell’Equilibrio Economico Generale (Walras, 1974), l’attività d’impresa non a caso coincide con l’attività individuale. Il processo economico viene descritto come un’unica attività di scambio tra agenti economici (individui) che si scambiano le merci che possiedono, o perché proprie dotazioni iniziali, o perché accumulate nel passato al fine di ottenerne un guadagno (utile). Non esistono classi (aggregati) sociali né organizzazioni. Il sistema economico è così definito da un numero finito di agenti economici, il cui comportamento è caratterizzato da razionalità strumentale, “path-independency”, preferenze diverse e struttura informativa più o meno completa e perfetta. Ogni agente economico è in grado di individuare una funzione obiettivo, che si diversifica sulla base non solo delle preferenze ma anche delle dotazioni di partenza, retaggio del tempo passato. Preferenze e dotazioni, tuttavia, non costituiscono un vincolo alle potenzialità individuali. La storia passata non conta più di tanto e tutto il problema economico è racchiuso nel presente oppure, meglio, nell’attualizzazione delle attese future. Nella diversità, dunque, gli individui hanno pari opportunità e potenzialità, seguono cioè la stessa legge di comportamento senza alcuna discriminazione: sono individui liberi e potenzialmente uguali.
Secondo la ministra del lavoro, in Italia “con un reddito base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro”. Per risponderle, ecco un’intervista a Philippe Van Parijs, fondatore del Basic Income Earth Network, tratta da Per un’altra globalizzazione (Edizioni dell’Asino 2010).
di Giuliano Battiston
Prima di capire le ragioni per cui dovremmo fare nostra l’idea di “versare a tutti i cittadini, incondizionatamente, un reddito di base cumulabile con ogni altro reddito”, valutiamo le obiezioni più comuni, tra cui quella – già avanzata da Marshall in un diverso contesto – che i diritti di cittadinanza debbano accompagnarsi a delle contropartite, a dei doveri; che ci debba essere un legame tra reddito e lavoro; che la concessione del reddito vada condizionata a un contributo produttivo, o alla volontà di darlo. Come lei ricorda ne Il reddito minimo universale, soprattutto nell’Europa continentale è forte il modello “bismarckiano” “conservator-corporativista” della protezione sociale, l’idea che la previdenza sociale sia legata al lavoro e allo statuto di salariato del cittadino. Mentre nel saggio Il basic income e i due dilemmi del Welfare State riconosce che la parziale “disconnessione tra il lavoro e il reddito richiederebbe un radicale ripensamento” culturale, anche in quei pochi partiti di sinistra che ancora oggi riconoscono nel lavoro un tema centrale della loro agenda politica. Come favorire questo ripensamento? E come risponde alle obiezioni menzionate?
L’idea che il diritto a un reddito debba essere legato al lavoro o alla disponibilità a lavorare, che dunque ci sia un’associazione, che deriva da considerazioni di tipo etico, non economico, tra lavoro e reddito, non si limita ai Paesi dal modello “bismarckiano”, ma investe anche il mondo anglosassone, e direi anzi che sia presente in tutte le società del mondo. A questo proposito, è interessante notare una singolare analogia, perché quest’idea si avvicina molto alla relazione etica che per lungo tempo diverse società hanno istituito tra sesso, gratificazione sessuale e riproduzione. In tutte quelle società nelle quali, in ragione di una forte mortalità infantile, era essenziale ottenere un elevato livello procreativo, divenne infatti eticamente obbligatorio legare la gratificazione sessuale almeno al “rischio” della procreazione, così da contribuire eventualmente alla sopravvivenza della comunità. Per lungo tempo, e per ragioni analoghe, si è radicata l’idea che si potesse avere accesso alla gratificazione del consumo, dunque al reddito, solo a condizione di essere disposti a contribuire alla produzione (l’equivalente della riproduzione nel caso della gratificazione sessuale). La connessione tra i due aspetti è evidente. Oggi però ci troviamo a vivere in condizioni tecnologiche ed economiche molto diverse, grazie alle quali non è più necessario che tutte le attività sessuali siano legate alla possibilità della procreazione, e allo stesso modo non è necessario fare del contributo alla produttività, dunque del lavoro, una condizione di accesso al reddito. Intendo dire che è possibile dare vita a un’organizzazione della società che non sia basata su questo tipo di etica del lavoro. Mi rendo conto tuttavia che questo discorso dimostra solo la possibilità di una diversa organizzazione, ma non che sia giusto o preferibile introdurla. Per questo occorre ancora lavorare molto, superando i tanti ostacoli culturali, sia a destra che a sinistra. Mi sembra comunque curioso che in tutti questi anni l’obiezione etica abbia sempre prevalso rispetto all’obiezione tecnica, relativa alla plausibilità di finanziare un meccanismo del genere, e agli interrogativi sulla realizzabilità politica di quest’idea.
The crises within cognitive capitalism and cognitive labor are mirrored in the reproduction and exacerbation of global divisions of labor and the emergence of new forms of exploitation as part of a regime of flexible capital accumulation. While drastic austerity measures and heightened control mechanisms lead to a radical transformation of the welfare state on the one hand, new networks of communication, struggle and alternative forms of knowledge emerge on the other.
This issue of transversal attempts to review some of the general assumptions of a theory of cognitive capitalism and to unsettle the very notions of knowledge and its production, discussing the conditions of its capture, its “re-invention” and its capacity for creating worlds. The individual essays follow the lines of a (post-)colonial historicity and a feminist and geopolitical critique of capitalist valorization, thereby questioning the materiality of knowledge and its production in relation to resources and bodies, as well as how art and knowledge production are interwoven with political struggles.
http://eipcp.net/transversal/0112
Contents
Lina Dokuzović: The Resource Crisis and the Global Repercussions of Knowledge Economies
Silvia Federici: African Roots of US University Struggles. From the Occupy Movement to the Anti-Student-Debt Campaign
Encarnación Gutiérrez Rodríguez: AFFECTIVE Value. On Coloniality, Feminization and Migration
Therese Kaufmann: Materiality of Knowledge
Christian Kravagna: The Trees of Knowledge: Anthropology, Art, and Politics. Melville J. Herskovits and Zora Neale Hurston – Harlem ca. 1930
Brigitta Kuster: The Imperceptibility of Memory
Sandro Mezzadra: How Many Histories of Labor? Towards a Theory of Postcolonial Capitalism
Walter Mignolo: Geopolitics of Sensing and Knowing. On (De)Coloniality, Border Thinking, and Epistemic Disobedience
Raimund Minichbauer: Fragmented Collectives. On the Politics of “Collective Intelligence” in Electronic Networks
eipcp – european institute for progressive cultural policies
a-1060 vienna, gumpendorfer strasse 63b
a-4040 linz, harruckerstrasse 7
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Pubblicato il saggio del filosofo tedesco Christoph Türcke. Gli shock
emotivi non producono la crisi, ma le condizioni per la difesa dell’ordine
costituito. Un’importante analisi del capitalismo che ne fotografa però solo
l’ambivalenza. Ci sono dei libri che difficilmente cadono nel dimenticatoio.
Possono anche non avere successo di pubblico, né di critica, ma le tesi che
esprimono reggono all’usura determinata dall’imperante just in time
dell’industria culturale. La società eccitata di Christoph Türcke è uno di
questi libri (Bollati Boringhieri, pp. 352, euro 43). Uscito nel 2002 in
Germania, ha dovuto attendere dieci anni prima che fosse pubblicato da
Bollati Boringhieri, che ha ritardato la sua uscita per la difficoltà del
testo, al punto che il suo traduttore, Tommaso Cavallo, ha voluto spiegare
le scelte fatte per termini del tedesco antico, del latino medievale. I
problemi non nascono solo dai raffinati e talvolta arcaici lemmi scelti da
Türcke, ma perché La società eccitata non nasconde mai l’ambizione di volere
essere un’analisi puntale del capitalismo contemporaneo e, al tempo stesso,
una resa dei conti con il marxismo tedesco occidentale del secondo
dopoguerra, così fortemente condizionato dalla Scuola di Francoforte, dal
principio speranza di Ernst Bloch o dalla messianica ricezione tedesca di
Walter Benjamin.
Obiettivi dunque complementari, ma distinti, che provocano non pochi
problemi nella lettura, che si presenta sin da subito impegnativa. Ma per un
libro, la fatica della lettura, come la concentrazione per destrutturare le
cattive astrazioni che popolano l’universo informativo sono fattori
indispensabili per riprendere contatto con la realtà che la seconda natura
della tecnologia tende a occultare. La concentrazione e la fatica aumentano
dunque il valore analitico di questo saggio. Ha dunque fatto bene l’editore
a perseguirne la pubblicazione, nonostante le difficoltà di traduzione e il
fatto di essere un libro che non comparirà mai nelle classifiche dei libri
di più venduti della settimana.
L’inganno dell’opinione pubblica
La tesi presentata da La società eccitata può essere così sintetizzata. Il
capitalismo è una organizzazione sociale incardinata su due elementi tra
loro contraddittori. Da una parte usa l’industria culturale e
l’intrattenimento per costruire un consenso passivo dei singoli allo status
quo; allo stesso tempo, deve garantire la sua riproduzione allargata
attraverso la produzione di reiterati shock emotivi che svelano sì la
violenza del sistema di sfruttamento vigente, ma lo «naturalizzano». Nel
primo caso, produce, attraverso i mass media e l’industria culturale,
un’opinione pubblica che non mette mai metterne in discussione la
legittimità del potere costituito.
L’opinione pubblica è giustamente interpretata come l’antitesi dell’agire
politico, cioè di quella azione collettiva tesa a trasformare l’ordine
sociale esistente. In questo, l’analisi di Türcke è fortemente debitrice nei
confronti della dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer e allo
stesso tempo critica nei confronti di Jürgen Habermas, il filosofo tedesco
che ha invece individuato nell’opinione pubblica lo sfondo in cui collocare
una politica della trasformazione.
Per quanto riguarda gli shock emotivi, il riferimento ovviamente è alla
diffusione e alla centralità delle immagini tesi a provocare spaesamento,
insicurezza, sentimenti dai quali sfuggire o cercare zone franche che
offrano riparo e sicurezza, attraverso una eccitazione dei corpi. La società
eccitata è dunque il trionfo dello spettacolo, operando così una messa
all’angolo della parola scritta. Aspetti certo non nuovi, ma che l’autore ha
il grande pregio di contestualizzate all’interno della densa e pur sempre
breve storia della modernità, intesa come un progressivo divenire del
visuale il fattore centrale dell’industria del divertimento. Anche qui,
Turcke non nasconde i suoi debiti teorici. C’è ovviamente Guy Debord, ma
anche il Walter Benjamin della riproducibilità dell’opera d’arte e dei
passages parigini. L’aspetto interessante della sua riflessione non è però
nel suo ricollegarsi a un filo rosso del pensiero critico da tempo lasciato
cadere, bensì nel fatto che lo shock emotivo permanente del capitalismo
contemporaneo è solo apparentemente un fattore destabilizzante dei fattori
regolatori del legame sociale, bensì il fatto che lo shock è sempre stato un
elemento teso a produrre un ordine sociale che si riproduce appunto
attraverso traumi, shock, senza i quali è destinato a inaridirsi e a
implodere.
Eccitati e precari
Per fare questo Türcke ricostruisce la genealogia del concetto di
sensazione, che ha da quando gli umani hanno assunto la posizione ha sempre
avuto una importanza cruciale nel regolare le relazioni sociali. La
sensazione troduce un trauma attraverso il quale i singoli scoprono la loro
vulnerabilità e i problemi che li angosciano.
Ma proprio questa «scoperta» – togliendo a questo termine ogni connotazione
positiva – consente il superamento della loro precaria condizione. Lo shock,
tuttavia, anche se viene esperito individualmente è sempre un fatto sociale.
Da qui, la affermazione di Türcke che la sensazione è un sentimento che
nasce dal vivere in società. La religione, come i riti di iniziazione, ma
anche la scrittura, la pittura, la fotografia e il cinema sono tutte
«istituzioni» che producono gli shock emotivi necessari all’«individuo
sociale» per superare una condizione di minorità. La modernità ha dunque
elevato alla massima potenza la produzione di shock emotivi per rendere
accettabile la violenza del sistema di sfruttamento capitalistica.
Violenza del lavoro salariato
Questa ultima affermazione non tragga d’inganno. Turcke non è un
apocalittico, né un nostalgico di una immaginaria età dell’oro. Semmai è
interessato a comprendere il perché di questa produzione massificata di
shock emotivi. Ed è per questo motivo che si inoltra in quel continente
rimosso dalle mappe del sapere che è la critica dell’economia politica. Il
confronto che stabilisce con l’opera marxiana parte dalla consapevolezza che
l’autore del capitale si è misurato in gioventù con la religione, l’oppio
del popolo che consente di gestire la fragilità della natura umana,
producendo anche qui traumi e shock emotivi. Ma ciò che interessa in questo
libro è la riflessione che l’autore fa sulla gestione che la «società
borghese» degli shock emotivi, che vengono prodotti affinchè la violenza del
lavoro salariato sia resa accettabile. Affascinanti sono a questo proposito
le pagine che Türcke dedica alla fotografia, al cinema. Alla Rete. La
crescita esponenziale delle immagini e delle informazioni è funzionale a
rendere accettabile ciò che il corpo – senza distinzioni tra mente e carne –
tenederebbe a rifiutare.
E qui si colloca l’interesse del libro. In un movimento forse poco
dialettico, Türcke sostiene che il capitalismo contemporaneo rende manifesti
temi, nodi teorici attinenti alla natura umana. L’uomo, e le donne, va da
sé, hanno necessità degli shock emotivi per sopravvivere in un mondo ostile
e nemico. L’industria culturale e quella dell’intrattenimento hanno dunque
questa ambivalenza. Producono shock funzionali alla riproduzione dell’ordine
esistente, ma nel fare queste aprono il campo alla trasformazione.
Christopher Türcke non nega che questo sia il nodo politico che finora non è
stato sciolto. Quello che non sempre convince del suo procedere analitico è
il movimento circolare che propone.
La modernità nella sua riflessione non esaurisce la storia umana, ma le
contraddizioni che apre costringono a fare i conti con la natura umana, cioè
con quell’individuo sociale preesitente al capitalismo e che sopravviverà
anche alla sua fine. I grandi temi della filosofia tornano ad abitarte la
pagine de La società eccitata. Il capitalismo è una parentesi, al termine
della quale non è dato sapere come saranno affrontati e risolti alcuni
fattori riguardanti il vivere in società. Il rapporto con l’altro,
ovviamente, ma anche il pensare di costruire una società di liberi ed
eguali. Christopher Türcke conosce bene le discussioni su quel cielo diviso
sotto il quale più generazioni hanno visssuto. E sa che tanto ad Ovest che a
Est, il fallimento è una parola che illustra bene i problemi del presente.
La proposta che enuncia non rassicura. L’autore propone certo di assumere la
critica dell’economia politica come bussola. È però consapevole che indica
la direzione ma nulla dice su come vivere nei territori che si attraversano.
Propone di usare la «sensazione» e lo shock emotivo come uno strumento di
sovversione del reale se «depurato» dell’elemento rassicurante. Ma così
facendo, come in un gioco dell’oca, si torna al punto di partenza, cioè a
come attivare quel movimento che abolisce lo stato di cose presenti.
Un libro dunque da leggere, meditare. Lasciando alla critica roditrice dei
topi le illusioni su un semplice e innocente nuovo inizio di quel movimento,
come se nulla sia accaduto nel lungo Novecento alle nostre spalle.
2)
“Nei media d’oggi una magia nera che nevrotizza e uccide lo
spirito”
di Marco Dotti
L’elevata e continua pressione delle notizie sulla vita ha trasformato la
percezione del sensazionale, fino a elevare il caso-limite a norma
Quando Reginald Aubrey Fessenden si mise dinanzi a un microfono, nella
stazione radio di Brand Rock, nel Massachusetts, e, violino alla mano, si
abbandonò alle note di O, Holy Night, pochi si resero conto di quanto stava
accadendo. Era la sera di Natale del 1906, e quella trasmessa da Fessenden
fu la prima emissione radiofonica della storia. Al violino, l’intraprendente
inventore, figlio di un pastore protestante, alternò la lettura di alcuni
passi dal Vangelo di Luca (2,14). Quel «gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini di buona volontà» inaugurò un nuovo corso nella
storia della comunicazione umana. Sarebbe persino banale ricordare, come
provocatoriamente fa nella prima parte del suo lavoro Christoph Türcke, che
evanghélion significa «notizia» se non fosse per ribadire che la scelta di
Fessenden non era priva di coerenza interna in ciò che Türcke chiama assioma
della logica delle notizie, la cui analisi occupa i primi capitoli de La
società eccitata. Una coerenza involontaria, o meglio inconsapevole, quella
di Fessenden (fare notizia leggendo «la» notizia, il Vangelo) che rinveniamo
anche nel termine inglese per notizia, «news», Ed è su questa coerenza che
insiste – tra le altre cose – Türcke. Gli eredi di Fessenden, quelli che
Türcke chiama i moderni «divulgatori di notizie» sono spesso costretti a
decidere nello spazio di pochi istanti su ciò che conta o non conta e sulle
notizie che intendono diffondere, senza badare troppo ai criteri – spesso
totalmente autoreferenziali – della loro scelta.
Non hanno pertanto «molte occasioni per preoccuparsi del sostrato teologico
del loro agire». A dispetto, o forse proprio in ragione di questa
dimenticanza, l’esito di ogni impresa giornalistica, di ogni riunione di
redazione, di ogni lavoro editoriale sembra convergere su un punto: la
notizia deve imporsi. E per imporsi deve essere nuova. Se da sempre, fin dai
tempi della Bibbia – che potremmo leggere come una colossale impresa
giornalistica – e dell’Epopea di Gilgames, le notizie sono state
«fabbricate», per esse valeva entro certi termini ciò che Adorno, tra le
pagine della sua Negative Dialektik, poteva ancora chiamare «il primato
dell’oggetto». Primario era l’evento ritenuto degno di essere comunicato,
non il comunicare stesso. Oggi la mediazione precede l’evento, lo crea e i
modernissimi «divulgatori di notizie» sembrano angeli vuoti, portatori di un
messaggio zero che per essere percepito come rilevante deve essere
sottoposto a un processo di eccitazione infinita e di estetizzazione
spettacolare potenzialmente senza limiti.
La società della sensazione è capace di inflazionare l’istante su cui è
ripiegata, proprio grazie a modelli che catturino e attraggano su di sé,
quasi magneticamente, la percezione. Per continuare a sopravvivere, per non
cadere nel baratro di un fallimento al cui rischio è per sua natura esposto,
un’impresa la cui materia prima sia costituita da notizie da lavorare
mensilmente, settimanalmente, quotidianamente e, oggi, persino istante dopo
istante deve continuamente sperare che news degne di essere comunicate non
manchino. L’inversione tra mezzo e fine, tra mediazione e evento, ha origine
da questo paradosso, purtroppo vitale per l’impresa giornalistica:
comunicare eventi rilevanti, ma in mancanza di meglio rendere rilevanti gli
eventi. Siamo allora dinanzi, scrive Türcke, all’inversione di un assioma e
la logica della notizia, «nuova e rilevante», genera il suo contrario: dal
«comunicare, perché una cosa è importante», al «è importante, perché è
comunicato».
Gonfiare le banalità, rendere isterici gli eventi, nevrotizzare i lettori,
produrre continui corto-circuiti emotivi e cognitivi, ma soprattutto
«semplificare realtà complesse, deviare l’attenzione pubblica da una
determinata vicenda a un’altra: tutto questo inerisce alla stampa come la
sudorazione alla pelle». Si può limitare la sudorazione, ci si può detergere
o lavare di continuo, ma non la si può evitare. Per questa semplice ragione,
prosegue l’autore, non appena ci si imbatta nell’assioma della logica
dell’informazione, ci si imbatte anche nel suo contrario. Di più: «solo
grazie al suo contrario, l’assioma si è conservato, rivestendosene come di
una seconda pelle e confondendo l’una con l’altra al punto da renderle
indistinguibili».
Questo processo, certo ma in nuce sino a che la stampa (intesa in senso
lato) era in procinto di diventare quel mezzo onnipervarsivo che oggi
conosciamo, si rivela adesso nella sua assoluta, nevrotizzante potenza
magica. Non è un caso che proprio il Karl Kraus a più riprese evocato nelle
pagine di questo libro, scrivesse – era il 1921 – che la fine del mondo,
quando avverrà, avverrà a opera di una ««schwarze Magie», una magia nera in
grado di eccitare gli spiriti, uccidendoli. Magia nera che nel linguaggio di
Kraus altro non era se non la stampa. Avendo sotto gli occhi il disastro
della Prima Guerra Mondiale, Kraus si chiedeva: «La stampa è un messaggero?
No, è l’evento. Un discorso? No, la vita. Abbiamo messo l’uomo a cui spetta
di annunciare l’incendio, al di sopra dell’incendio stesso, al di sopra del
fatto, al di sopra della nostra stessa fantasia». Oggi, commenta Türcke,
l’elevata pressione delle notizie sulla vita stessa ha trasformato la
percezione del sensazionale, nella percezione in assoluto, fino a
trasformare il caso limite nella norma di una società perennemente eccitata
passata dalla Totale Mobil- machung, la mobilitazione generale tenuta a
battesimo dalla stampa nelle settimane precedenti il primo conflitto
mondiale, alla mobilitazione infinita iniziata con la Prima guerra del Golfo
e un giornalismo che non ha nemmeno più bisogno di sapersi embedded, per
muoversi al palo, come un cane timoroso, anche quando è senza catene.
DA GENTILUOMINI A MERCENARI
di Dario Banfi e Sergio Bologna*
Alle origini del lavoro indipendente, delle professioni e del precariato. Un racconto su quello è diventato, oggi, il lavoro e, domani, di cosa sarà. Una lettura irrinunciabile per capire di cosa parliamo quando parliamo di “riforma del lavoro”, “riforme delle professioni” o lavoro subordinato e autonomo.
L’ideologia del professionalismo e la sua crisi
Non è proprio un libriccino il testo che l’International Labour Office ha dedicato alla figura che l’immaginario collettivo associa di più al professionista di successo: il consulente di direzione. Pubblicato alla metà degli Anni Settanta e più volte aggiornato nei decenni successivi, è un’opera collettiva alla quale hanno dato il loro contributo personaggi che in seguito sarebbero diventati delle star, come Roland Berger e altri. Ad un certo momento nel testo spunta la domanda: “la consulenza è una professione?”
Come ha fatto Bill Gates a diventare l’uomo più ricco d’America? La sua ricchezza non ha nulla a che fare con la produzione di software di qualità a prezzi inferiori a quelli della concorrenza o con uno “sfruttamento” più efficace dei suoi dipendenti (la Microsoft paga uno stipendio relativamente alto ai lavoratori intellettuali).
Il software della Microsoft continua a essere comprato da milioni di persone perché è riuscito a imporsi come uno standard quasi universale, monopolizzando in pratica il settore, quasi una personificazione di quello che Marx chiamava “intelletto generale”, riferendosi al sapere collettivo in tutte le sue forme, dalla scienza al know how pratico. Bill Gates ha di fatto privatizzato parte dell’intelletto generale ed è diventato ricco intascando i profitti.
La successione delle crisi finanziarie ha portato a emergere una figura soggettiva che ormai occupa tutto lo spazio pubblico: quella dell’uomo indebitato. Il fenomeno del debito non si riduce alle sue manifestazioni economiche. Esso costituisce la chiave di volta dei rapporti sociali in regime neoliberista, poiché opera una duplice espropriazione: quella di un potere politico già debole, concesso dalla democrazia rappresentativa, e quella di una parte crescente della ricchezza che le lotte passate avevano strappato all’accumulazione capitalista; esproprio, soprattutto, dell’avvenire, vale a dire del tempo come portatore di scelte, di possibilità.
La relazione creditore-debitore intensifica in modo trasversale i meccanismi di sfruttamento e di dominio propri del capitalismo. Perché il debito non fa alcuna distinzione fra lavoratore e disoccupato, consumatore e produttore, attivi e inattivi, pensionati e beneficiari del reddito di solidarietà attiva. Esso impone un medesimo rapporto di potere a tutti: perfino le persone troppo impoverite per avere accesso al credito personale partecipano al pagamento degli interessi legati al debito pubblico. La società intera è indebitata, cosa che non impedisce, ma esacerba, le ineguaglianze – che è tempo siano definite «differenze di classe».
Come senza ambiguità lo svela l’attuale crisi, una delle sfide più grandi del neoliberismo è quella della proprietà: la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forze fra proprietari e non proprietari di titoli del capitale. Somme enormi sono trasferite dai debitori (la maggioranza della popolazione) ai creditori (banche, fondi pensione, imprese, economie famigliari più ricche): attraverso il meccanismo dell’accumulo degli interessi l’importo totale del debito dei Paesi in via di sviluppo è passato da 70 miliardi di dollari nel 1970 a 3.545 miliardi nel 2009. nel frattempo questi Paesi avevano pertanto rimborsato l’equivalente di centodieci volte ciò che essi dovevano inizialmente(1).
Il debito secerne d’altronde una morale che gli è peculiare, al tempo stesso differente da e complementare a quella del lavoro. La coppia fatica-ricompensa dell’ideologia del lavoro vede sé stessa superata dalla morale della promessa (quella di onorare il proprio debito) e della colpa (quella di averlo contratto). Come lo sottolinea il filosofo tedesco Friedrich Nietsche nella sua lingua, il concetto di Schuld (colpa) – concetto fondamentale della morale – rimanda al concetto molto materiale di Schulden (debiti) (2). La campagna della stampa tedesca contro i «parassiti greci» testimonia della violenza propria alla logica che l’economia del debito instilla. I media, gli uomini politici, gli economisti sembra non abbiano che un messaggio da trasmettere ad Atene: «Siete colpevoli»,. «siete responsabili». Insomma, i greci si abbronzano al sole mentre i protestanti tedeschi sgobbano per il bene dell’Europa e dell’umanità sotto un tetro cielo. Questa presentazione della realtà non diverge da quella che fa dei disoccupati gli assistiti o dello Stato assistenziale una «mamma» statale.
Il potere del debito si presenta come quello che non si esercita né con la repressione né con l’ideologia. «Libero», il debitore tuttavia non ha altre possibilità se non di inserire i sui atti, le sue scelte, nel quadro definito dal rimborso del debito che ha contratto. Non siete liberi se non nella misura in cui il vostro modo di vivere (consumi, impiego, spese sociali, imposte, ecc.) vi permette di fare fronte ai vostri impegni. Negli Stati Uniti, per esempio, l’80% degli studenti che terminano un master di diritto accumulano un debito medio di 77.000 dollari se hanno frequentato una scuola privata e di 50.000 dollari se si tratta di un’università pubblica. Uno studente testimoniava recentemente negli USA sul sito del movimento Occupy Wall Street: «Il mio prestito come studente si eleva a circa 75.000 dollari. Presto non potrò più pagare. Mio padre, che aveva accettato di garantire per me, sarà obbligato ad assumersi il mio debito. Presto sarà lui che non potrà più pagare. Ho rovinato la mia famiglia cercando di innalzarmi al disopra della mia classe [sociale] (3)».
Il meccanismo vale tanto per gli individui quanto per le popolazioni. Poco prima di morire, l’ex ministro delle Finanze irlandese Brian Lenihan dichiarava: «Dalla mia nomina, nel maggio 2008, in poi ho ricordato l’ultima definizione del potere fatta da Michel Foucault: “Azione che mantiene come «soggetto libero» colui sul quale essa si esercita (4)». Il potere del debito vi lascia libero, ma vi incita – molto perentoriamente! – ad agire con l’unico obiettivo di onorare i vostri debiti (anche se l’utilizzo che l’Europa e il FMI fanno del debito tende a indebolire i debitori attraverso l’imposizione di politiche economiche che favoriscono la recessione).
Ma la relazione creditore-debitore non riguarda unicamente la popolazione attuale. Poiché il suo riassorbimento non passa attraverso l’accrescimento della fiscalità sugli alti redditi e sulle imprese – vale a dire attraverso l’inversione del rapporto di forze fra classi che ha portato al suo apparire (5) –, le modalità della sua gestione coinvolgono le generazioni future. Portando i governati a promettere di onorare i loro debiti, il capitalismo mette le mani sull’avvenire. Così può prevedere, calcolare, misurare, stabilire equivalenze fra i comportamenti attuali e quelli a venire, in breve, gettare un ponte fra il presente e il futuro. In questo modo il sistema capitalistico riduce ciò che sarà a ciò che è, il futuro e le sue possibilità ai rapporti di potere attuali. La strana sensazione di vivere in una società senza tempo, senza possibile, senza rottura immaginabile – gli «indignati» denunciano altro? – trova nel debito una delle sue principali spiegazioni.
Il rapporto fra tempo e debito, prestito di denaro e appropriazione del tempo da parte di colui che presta è noto da secoli. Se nel Medioevo la distinzione fra usura e interesse non era ben stabilita – poiché la prima era considerata solamente come un eccesso del secondo (ah! La saggezza degli antichi!) –, al contrario si vedeva molto bene a che cosa portava il «furto» di colui che presta denaro e in che cosa consisteva la sua colpa: egli vendeva tempo, qualcosa che non gli apparteneva e il cui unico proprietario era Dio. Riassumendo la logica medievale, lo storico Jacques Le Goff domanda: «Che cosa vende [l’usuraio], in effetti, se non il tempo che scorre fra il momento in cui egli presta e quello in cui è rimborsato con interessi? Ora, il tempo non appartiene che a Dio. Ladro di tempo, l’usuraio è un ladro del patrimonio di Dio (6)». Per Karl Marx l’importanza storica del prestito a usura deriva dal fatto che, contrariamente alla ricchezza consumatrice, esso rappresenta un processo generatore assimilabile a (e precursore di) quello del capitale, vale a dire del denaro che genera denaro.
Un manoscritto del XIII secolo sintetizza questo ultimo punto e il tipo del tempo di cui chi presta denaro si appropria: «Gli usurai peccano contro natura volendo far generare denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo o un mulo da un mulo. Per di più gli usurai sono ladri perché vendono il tempo che non appartiene loro, e vendere un bene di proprietà altrui, nonostante se ne sia in possesso, è furto. Inoltre, poiché essi non vendono altro che l’attesa del denaro, vale a dire il tempo, vendono i giorni e le notti. Ma il giorno è il tempo della luce, e la notte il tempo del riposo. Di conseguenza essi vendono la luce e il riposo. Quindi non è giusto che essi abbiano la luce e il riposo eterni (7)».
La finanza bada a che le sole scelte e le sole decisioni possibili siano quelle della tautologia del denaro che genera il denaro, della produzione per la produzione. Mentre nelle società industriali sussisteva ancora un tempo «aperto» – sotto forma di progresso o sotto quella di rivoluzione – oggi l’avvenire e i suoi possibili, schiacciati sotto le somme esorbitanti mobilitate dalla finanza e destinate a riprodurre i rapporti di potere capitalista, sembrano bloccati; perché il debito neutralizza il tempo, il tempo come creatore di nuove possibilità, ovvero la materia prima di qualsiasi cambiamento politico, sociale o estetico.
(1) Cf. Damien Millet et Eric Toussaint (sous la dir. de), La Dette ou la vie, Comité pour l’annulation de la dette du tiers-monde – Editions Aden, Bruxelles, 2011.
(2) Friedrich Nietzsche, La Généalogie de la morale, Gallimard, Paris, 1966.
(3) Cité par Tim Mak dans « Unpaid student loans top $1 trillion », 19 octobre 2011, www.politico.com
(4) Michel Foucault, « Le sujet et le pouvoir », dans Dits et écrits, tome IV, Gallimard, Paris, 2001.
(5) Lire Laurent Cordonnier, « Un pays peut-il faire faillite ? », Le Monde diplomatique, mars 2010.
(6) Jacques Le Goff, La Bourse et la Vie. Economie et religion au Moyen Age, Hachette, Paris, 1986, p. 42.
C’è qualcosa che rende simile l’economia alla religione, e cioè che, anche per l’economia, il suo meglio è che essa susciti eretici. Che nella scienza economica ci sia bisogno di eresia ce lo spiegano gli americani che da tempo guardano con inquietudine a quanto sta accadendo in Europa, in particolare a quella famigerata dottrina secondo cui occorre fare tutto il possibile per raggiungere il pareggio di bilancio.