Il nuovo film della serie di Batman, Il cavaliere oscuro – Il ritorno, dimostra che i grandi successi di Hollywood sono indicatori precisi della situazione ideologica delle nostre società. La storia: a Gotham City otto anni dopo gli avvenimenti del Cavaliere oscuro – il secondo episodio della trilogia diretta da Christopher Nolan – regnano la legge e l’ordine. Grazie ai poteri straordinari concessi dalla legge anticrimine voluta da Harvey Dent, il commissario Gordon ha quasi sradicato la malavita organizzata. Si sente colpevole per aver insabbiato i crimini commessi da Dent e vuole confessare pubblicamente.
La stupidità intelligente che cattura l’attenzione
di Marco Dotti
Un breve sentiero di lettura a partire dagli ultimi due libri del filosofo Bernard Stiegler. Il sapere codificato in un sistema di macchine che toglie potere agli umani in nome della telecrazia I dispositivi tecnologici sono l’interfaccia sviluppata per mettere in comunicazione la «bestia e il sovrano».
Amo Scicli e Guccione
Peppe Savà intervista Giorgio Agamben
E’ uno dei più grandi filosofi viventi. Amico di Pasolini e di Heidegger, Giorgio Agamben è stato definito dal Times e da Le Monde una delle dieci teste pensanti più importanti al mondo. Per il secondo anno consecutivo ha trascorso un lungo periodo di vacanza a Scicli, concedendo una intervista a Peppe Savà
Il governo Monti invoca la crisi e lo stato di necessità, e sembra essere la sola via di uscita sia dalla catastrofe finanziaria che dalle forme indecenti che il potere aveva assunto in Italia; la chiamata di Monti era la sola via di uscita o potrebbe piuttosto fornire il pretesto per imporre una seria limitazione alle libertà democratiche?
“Crisi” e “economia” non sono oggi usati come concetti, ma come parole d’ordine, che servono a imporre e a far accettare delle misure e delle restrizioni che la gente non ha alcun motivo di accettare. “Crisi” significa oggi soltanto “devi obbedire!”. Credo che sia evidente per tutti che la cosiddetta “crisi” dura ormai da decenni e non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo nel nostro tempo. Ed è un funzionamento che non ha nulla di razionale.
Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro.
GILLES DELEUZE – L’opera del filosofo francese è stata sempre percorsa dalla volontà di una diffusione che andasse oltre l’ambito accademico a cui era ricondotta da critici e esegeti. Un percorso di lettura a partire da alcune monografie recentemente pubblicate.
Lo stile popolare del divenire
di Fabrizio Denunzio
Dall’«Uccello filosofia» all’«Abecedario», il tentativo di tradurre per i molti un complesso itinerario filosofico Il cinema, la letteratura, l’arte sono gli ambiti disciplinari scelti per misurare la distanza dal pensiero dominante
All’epoca, quando fu formulata, la tesi fece scalpore. Gli intellettuali comunisti più intransigenti non tardarono a riconoscervi tracce d’idealismo e d’ingenuità. Molto sinteticamente, veniva avanzata l’ipotesi che i mezzi di comunicazione di massa permettessero l’ampliamento organico del pubblico e che, in sostanza, la cultura che promuovevano non si riferisse più alla lettura, ma ad altre forme di apprendimento legate in massima parte alle immagini e ai suoni, oggi diremmo all’audiovisivo. Eravamo nel 1958, il testo era Cultura e rivoluzione industriale e l’autore Raymond Williams. Dalla sua tesi il fondatore dei cultural studies traeva una conseguenza molto significativa: la crescita quantitativa del pubblico e la promozione di modalità cognitive diverse da quelle tradizionali, creavano nuovi problemi destinati a influire significativamente sulla strutturazione della cultura.
Il pensiero utopico aiuta a interpretare i periodi di transizione, quando il vecchio non è ancora morto e il futuro si manifesta con difficoltà. Nella crisi attuale può infatti fornire strumenti per elaborare realistiche strategie di resistenza al neoliberismo.
A differenza di quanto avveniva appena un secolo fa, oggi non si scrivono più grandi favole utopiche: le ultime, senza dubbio, sono state quelle di H. G. Welles le quali, però, si presentavano più come racconti d’anticipazione che come utopie in senso stretto.
Perché questo declino? Molto probabilmente perché si è consumata l’aspirazione che dava la forza di credere alla virtù delle utopie, quelle che si situavano all’incrocio dell’immaginario e del reale, in questo punto d’incertezza, ma anche di speranza, in cui sembra si prolunghino l’una nell’altra. È come se questa divisione tra immaginario e reale fosse divenuta insormontabile.
Imagine a scene from a dystopian movie that depicts our society in the near future. Uniformed guards patrol half-empty downtown streets at night, on the prowl for immigrants, criminals and vagrants. Those they find are brutalised. What seems like a fanciful Hollywood image is a reality in today’s Greece. At night, black-shirted vigilantes from the Holocaust-denying ne0-fascist Golden Dawn movement – which won 7 per cent of the vote in the last round of elections, and had the support, it’s said, of 50 per cent of the Athenian police – have been patrolling the street and beating up all the immigrants they can find: Afghans, Pakistanis, Algerians. So this is how Europe is defended in the spring of 2012.
La società dei simulacri nel tempo del governo dei peggiori
Ho aspettato trent’anni per ripubblicare questo libro, nonostante le ripetute sollecitazioni di lettori e di editori. Infatti solo ora i fenomeni sociali descritti allora, al loro sorgere, il potere delle organizzazioni criminali e la decadenza del sapere, hanno raggiunto il loro momento culminante.
Un rapporto complesso e problematico lega l’idea della fine a quella del senso. Forse nessuno meglio di Kant ha colto nello scritto La fine di tutte le cose (1794) tale rapporto. In particolare, colpisce l’idea che non si possa cogliere il senso di checchessia se non pensando alla sua fine: il momento diacronico e storico risulterebbe inseparabile da quello estetico e teleologico. In un’altra opera Kant scrive: “Infine deve pur cadere il sipario. Perché alla lunga diverrebbe una farsa; e se gli attori non se ne stancano perché sono pazzi se ne stanca lo spettatore, che a un atto o all’altro finisce per averne abbastanza se ha ragione di presumere che l’opera, non giungendo mai alla fine, sia eternamente la stessa”.
A leggere oggi Essere e tempo[1], in particolare alcune sue pagine (penso al cap. V della prima parte dedicato alla situazione emotiva che l’uomo si trova a vivere), la sensazione è quella di essere gettati senza troppi complimenti dentro una realtà che conosciamo bene. Nella vita inautentica e deietta analizzata in quelle pagine ritroviamo la nostra forma di vita oggi, dopo che tutti gli sforzi collettivi per cercare di cambiarla sembrano falliti.
Da parte sua Heidegger non aveva dubbi in proposito: la deiezione (Verfallen), scriveva, è una determinazione esistenziale di cui non possiamo liberarci perché qualifica il nostro rapporto quotidiano con il mondo. Heidegger, come sappiamo, sceglie accuratamente le sue parole chiave nel vocabolario greco e latino. Questo sostantivo deriva dal tardo latino deiectionem che noi oggi traduciamo tranquillamente con defecazione, feci, escrementi. Il verbo d’origine è deicere, che in latino significa gettare giù, gettare fuori. Per Heidegger (§38) la deiezione è una sorta di moto vorticoso in cui precipitiamo per scendere al livello delle cose. Così la nostra espressione vita di merda acquista un sapore particolare se ripensata in quest’ottica heideggeriana. Solo che per Heidegger questa vita di merda riguarda un po’ tutti perché per l’Esserci l’effettività dell’esistenza è per l’appunto il suo essere gettato nel mondo a contatto con gli altri e con le cose che Heidegger chiama gli strumenti utilizzabili.