Posted: Gennaio 29th, 2017 | Author: agaragar | Filed under: philosophia | 78 Comments »
di ANTONIO GNOLI
Gli anni parigini con Italo Calvino, le lezioni di Heidegger e la Roma degli anni Sessanta. Parla lo studioso che ha saputo spaziare tra estetica e biopolitica
Giorgio Agamben: “Credo nel legame tra filosofia e poesia. Ho sempre amato la verità e la parola”
Giorgio Agamben ha scritto un bellissimo libro. I suoi libri sono sempre densi e tersi (e imprevedibili come quello dedicato recentemente a Pulcinella, edizioni Nottetempo). Hanno lo sguardo rivolto al passato remoto. È il solo modo per intensificare il presente. Prendete il suo ultimo lavoro Che cos’è la filosofia? (edito da Quodlibet), cosa nasconde una domanda apparentemente ovvia? “È mia convinzione” – dice Agamben – “che la filosofia non sia una disciplina, di cui sia possibile definire l’oggetto e i confini (come provò a fare Deleuze) o, come avviene nelle università, pretendere di tracciare la storia lineare e magari progressiva. La filosofia non è una sostanza, ma un’intensità che può di colpo animare qualunque ambito: l’arte, la religione, l’economia, la poesia, il desiderio, l’amore, persino la noia. Assomiglia più a qualcosa come il vento o le nuvole o una tempesta: come queste, si produce all’improvviso, scuote, trasforma e perfino distrugge il luogo in cui si è prodotta, ma altrettanto imprevedibilmente passa e scompare”.
Offri un’immagine volatile della filosofia.
“Ho l’abitudine di dividere l’ambito dell’esperienza in due grandi categorie: le sostanze da una parte e, dall’altra, l’intensità. Di una sostanza si possono disegnare i confini, definire i temi e l’oggetto, tracciare la cartografia; l’intensità invece non ha un luogo proprio”.
Può verificarsi ovunque?
“La filosofia, il pensiero è, in questo senso, un’intensità che può tendere, animare e percorrere ogni ambito. Essa condivide questo carattere tensivo con la politica. Anche la politica è un’intensità, anche la politica, contrariamente a quello che ritengono i politologi, non ha un luogo proprio: com’è evidente non soltanto nella storia recente, di colpo la religione, l’economia, perfino l’estetica possono acquisire una decisiva intensità politica, diventare occasione di inimicizia e di guerra. Va da sé che le intensità sono più interessanti delle sostanze. Se le sostanze e le discipline – come la vita, del resto – rimangono inerti, se non raggiungono una certa intensità, esse decadono a pratiche burocratiche”.
Un antidoto allo scadere nella pratica burocratica può essere la poesia. Tu hai spesso ribadito il legame tra filosofia e poesia. Che lo stesso Heidegger pose al centro della sua riflessione. In cosa consiste questo legame?
“Ho sempre pensato che filosofia e poesia non siano due sostanze separate, ma due intensità che tendono l’unico campo del linguaggio in due direzioni opposte: il puro senso e il puro suono. Non c’è poesia senza pensiero, così come non c’è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia. Se si dividono drasticamente i due campi, io stesso non saprei da che parte mettermi”.
Nella tua biografia intellettuale c’è una laurea in giurisprudenza, ma con una tesi piuttosto insolita dedicata a Simone Weil. Come è nata questa scelta?
“Scoprii Simone Weil a Parigi nel 1963 o ’64, comprando per caso la prima edizione dei Cahiers nella libreria Tschann a Montparnasse. Ne rimasi così abbagliato che appena tornato a Roma li feci leggere a Elsa Morante che ne fu conquistata. E immediatamente decisi che avrei dedicato al pensiero politico della Weil la mia tesi di laurea in filosofia del diritto. Allora in Italia il suo pensiero era quasi sconosciuto e io ne sapevo molto più dei relatori con cui dovevo laurearmi”.
Cosa ti colpì del suo pensiero?
“In modo particolare la critica delle nozioni di persona e di diritto che la Weil svolge in La personne et le sacré.
Fu a partire da questa critica che lessi il saggio di Marcel Mauss sulla nozione di persona e mi apparve chiaro il nesso che congiunge intimamente la persona giuridica e la maschera teatrale e poi teologica dell’individuo moderno. Forse la critica del diritto che non ho mai abbandonato a partire dal primo volume di Homo sacer, ha nel saggio della Weil la sua prima radice”.
Un’altra radice nella costruzione del tuo pensiero è stata Walter Benjamin.
“Ci sono nella vita degli eventi e degli incontri che sono troppo grandi per poter avvenire una volta per tutte. Essi, per così dire, non cessano di accompagnarci. L’incontro con Benjamin – come quello con Heidegger a Le Thor – sono di questo tipo. Come i teologi dicono che Dio continua a creare il mondo in ogni istante, così questi incontri sono sempre in corso. Il debito che ho con Benjamin è incalcolabile”.
Debito è una parola intensiva.
“Basti qui accennare solo a un problema di metodo. È lui che mi ha insegnato a estrarre a forza dal suo contesto storico apparentemente remoto un determinato fenomeno per restituirgli vita e farlo agire nel presente. Senza di questo, le mie incursioni in campi così diversi come la teologia e il diritto, la politica e la letteratura, non sarebbero state possibili. Quando si frequenta così intensamente un autore, si producono dei fenomeni che sembrano quasi magici, ma che sono solo il frutto di quell’intimità. Così mi è capitato per il ritrovamento di manoscritti di Benjamin, prima a Roma in casa di un suo amico di gioventù e poi nella Biblioteca Nazionale di Parigi (i manoscritti del libro su Baudelaire a cui Benjamin lavorava negli ultimi anni della sua vita)”.
Negli ultimi anni si è accentuato il tuo richiamo alla “biopolitica”. È un concetto che deve molto a Michel Foucault?
“Certamente. Ma altrettanto importante per me è stato il problema del metodo in Foucault, cioè l’archeologia. Sono convinto che la sola via di accesso al presente sia oggi l’indagine del passato, l’archeologia. A condizione di precisare, come fa Foucault, che le ricerche archeologiche non sono che l’ombra che l’interrogazione del presente proietta sul passato. Nel mio caso quest’ombra è spesso più lunga di quella che inseguiva Foucault e investe dei campi, come la teologia e il diritto, che Foucault ha poco frequentato. I risultati delle mie ricerche potranno certamente essere contestati, ma spero almeno che le indagini puramente archeologiche che ho svolto in Stato di eccezione, Il regno e la gloria o nel libro sul giuramento aiutino a capire il tempo in cui viviamo”.
Un altro pensatore che ha aiutato a capire il tempo in cui viviamo fu Guy Debord con il suo libro “La società dello spettacolo”, un testo che ancora oggi ci aiuta a comprendere il nostro presente.
“Lo lessi l’anno stesso della sua pubblicazione, il 1967. Con Guy diventammo amici molti anni dopo, alla fine degli anni Ottanta. Ma ricordo, sia al momento della prima lettura come nelle nostre conversazioni, il respiro di sollievo vedendo come la sua mente fosse assolutamente libera dai pregiudizi ideologici che avevano compromesso le sorti dei movimenti. Nel Sessantotto e negli anni successivi gli amici dei movimenti che frequentavo si proclamavano senza dubbi né vergogna e con un’assoluta abdicazione della facoltà di pensare, “maoisti” “trotskisti” e via dicendo. Io e Guy eravamo arrivati alla stessa lucidità, lui a partire dalla tradizione delle avanguardie artistiche da cui proveniva, io dalla poesia e dalla filosofia”.
Di sé Debord disse: “Non sono un filosofo, sono uno stratega”, secondo te cosa intendeva?
“Malgrado quell’affermazione che citi, non penso che ci fosse in lui alcun conflitto fra il filosofo e lo stratega. La filosofia implica sempre un problema di strategia perché, anche se cerca l’eterno, può farlo solo attraverso un confronto con il suo tempo”.
Negli anni in cui hai vissuto a Parigi vedevi spesso Italo Calvino. Come fu il rapporto con lui, con le sue geometrie illuminanti?
“Accanto al nome di Calvino, vorrei mettere quello di Claudio Rugafiori che, con Italo, vedevo spesso in quegli anni, perché lavoravamo insieme a un progetto di una rivista che non andò mai in porto. Il tentativo era di definire quelle che chiamavamo tra noi le “categorie italiane”, delle coppie di concetti attraverso le quali cercavamo di definire le strutture portanti della cultura italiana: “architettura/vaghezza”, “tragedia/ commedia”, “rapidità/leggerezza”, quest’ultima la si può ritrovare testualmente nelle Lezioni americane di Italo. Ero affascinato dal modo in cui lavoravano la mente di Italo e quella di Claudio”.
Cosa ti seduceva?
“Il fatto che fossero due forme di pensiero puramente analogico, che percepiva somiglianze e corrispondenze là dove nessun altro avrebbe saputo trovarle. L’analogia è una forma di conoscenza che la nostra cultura ha respinto sempre più ai margini. Quanto all’idea di un Calvino geometrico e scientista credo vada corretta. La sua era piuttosto una straordinaria forma di immaginazione analogica, una sorta di istinto fisiognomico che gli permetteva di ridisegnare ogni volta la geografia del sapere letterario”.
Accennavi all’inizio alla tua amicizia con Elsa Morante. Come fu il rapporto con una donna dal carattere così complesso?
“L’incontro e l’amicizia con Elsa sono stati per me in ogni senso decisivi. Una volta Calvino mi ha detto che era possibile frequentare Elsa solo all’interno di un culto. Era forse vero, ma a condizione di precisare che l’oggetto del culto non era Elsa, ma quegli dèi – da Rimbaud a Simone Weil, da Mozart a Spinoza – che essa riconosceva e amava condividere con gli amici. In questo Elsa era seria, selvaggiamente seria, e credo che abbia trasmesso al ragazzo che ero, un po’ di quella sua intransigente passione per la poesia e per la verità. E da allora che penso che non si possano tracciare confini chiari fra la letteratura e la filosofia “.
So che attraverso la Morante hai conosciuto Pasolini. Tra l’altro partecipasti in un ruolo piccolo ma bello al suo “Vangelo”.
Che ricordo hai di quell’esperienza sul set?
“Del Vangelo ricordo la velocità: Pasolini non faceva quasi mai ripetere una scena e ciascuno parlava e si muoveva come gli pareva. Credo che questo dia al suo cinema quella naturalezza che non pretende mai di essere realistica. La sola lunga pausa durante le riprese fu colpa mia: nell’Ultima Cena mi trovai davanti sul tavolo delle enormi pagnotte lievitate e dovetti ricordare a Pier Paolo che per la pasqua ebraica il pane doveva essere azzimo”.
Hai anche accennato ai tuoi rapporti con Heidegger e ai seminari che seguisti con lui a Le Thor nel 1966 e poi nel 1968. Cosa ti è restato di quegli incontri?
“L’incontro con Heidegger, come quello con Benjamin, non è mai finito. Nella mia memoria è inseparabile dal paesaggio della Provenza, allora ancora non toccato dal turismo. Il seminario aveva luogo la mattina, nel giardino del piccolo albergo che ci ospitava, ma a volte in una capanna durante una delle numerose escursioni nella campagna circostante. Il primo anno eravamo cinque in tutto, oltre al seminario c’erano i pasti in comune e io ne approfittavo per porre a Heidegger le domande che più mi interessavano, se aveva letto Kafka, se conosceva Benjamin. Ma questi sono solo aneddoti”.
Uno degli aspetti principali della tua ricerca è stata la filologia. In che modo l’hai praticata?
“La filologia è stata sempre parte essenziale della mia ricerca. E non solo perché mi è capitato di fare lavori filologici in senso tecnico – penso alla ricostruzione del libro di Benjamin su Baudelaire e all’edizione delle poesie postume di Caproni – ma perché filologia e filosofia, amore per la parola e amore per la verità non possono in alcun modo essere separati. La verità dimora nella lingua e un filosofo che non avesse cura di questa
dimora sarebbe un cattivo filosofo. I filosofi, come i poeti, sono innanzitutto i custodi della lingua e questo è un compito genuinamente politico, soprattutto in un’epoca, com’è la nostra, che cerca con ogni mezzo di confondere e falsificare il significato delle parole”.
Posted: Ottobre 16th, 2016 | Author: agaragar | Filed under: General, philosophia | 84 Comments »
Friedrich Wilhelm Nietzsche
Gli anarchici e Nietzsche (di Spencer Sunshine)
La proposta di coniugare Nietzsche e l’anarchismo deve suonare audace a molte persone. Anche se non si tiene premuta l’antica credenza che la “classe operaia” (qualunque essa sia ai giorni nostri) sia l’unica che possa fare un cambiamento rivoluzionario, non è stato Nietzsche a influenzare i fascisti, e ad affermare da individualista che il più forte governi sui deboli? E non è Nietzsche a definire gli anarchici come dei cani, oltre ad accusarli di risentimento? Questo è stato spesso denunciato dal movimento anarchico del suo tempo.
Senza consultare le opere stesse di Nietzsche -nel tentativo di “provare” o “smentire” questa compatibilità o meno con l’anarchismo-, credo che un modo più proficuo per affrontare questa proposta sia quella di esaminare la documentazione storica di come gli anarchici si siano avvicinati a Nietzsche. La risposta sorprendente è che a molti di loro piaceva molto, compresi gli autori “classici” anarchici; infatti, alcuni di loro avevano anche usato le sue idee per giustificare le convinzioni anarchiche sulla lotta di classe.
L’elenco non è limitato solo a quegli anarchici come Emma Goldman, che ha letto dozzine di opere di Nietzsche e lo “battezzò” come anarchico onorario. Di anarchici pro-nicciani si trovavano anche tra i membri della CNT-FAI nel 1930 come Salvador Seguí, l’anarco-femminista Federica Montseny o l’anarco-sindacalista Rudolf Rocker; e anche il giovane Murray Bookchin, che ha citato la concezione di Nietzsche della “trasvalutazione di valori” come valido sostegno del progetto anarchico spagnolo.
C’erano molte cose che ha attirato gli anarchici a Nietzsche: il suo odio verslo Stato, il suo disgusto per il comportamento insensato dei “branchi” sociali, il suo (quasi patologico) anti-cristianesimo, la sua diffidenza verso l’effetto sia del mercato e dello Stato sulla produzione culturale, il suo desiderio di un “oltreuomo” -che è un essere umano nuovo che non doveva essere né padrone né schiavo-, la lode e l’estasi di sé stesso, come l’artista con il suo prototipo, che potrebbe dire: “Sì” per l’auto-creazione di un mondo nuovo, sulla base del nulla, e il suo invio della “trasvalutazione dei valori” come fonte di cambiamento, al contrario di una concezione marxista della lotta di classe e della dialettica di una storia lineare.
Naturalmente, in questo modo, gli anarchici -convenientemente- dimenticarono la sua misoginia, il suo elitarismo e il suo disprezzo per coloro che hanno lavorato per la giustizia sociale -così come il suo stesso odio per loro!
I fascisti, invece, dimenticarono l’odio di Nietzsche del nazionalismo tedesco, la sua ammirazione per gli ebrei, il suo supporto per i matrimoni misti tra diverse razze, il suo disgusto per il risentimento (di cui Hitler è la personificazione per eccellenza), e il suo disprezzo dello Stato, del mercato e della mentalità gregaria: tutte operazioni da cui il sistema fascista dipendeva.
Il Nietzsche-positivo simil-anarchico, è chiaramente rappresentato da Emma Goldman. Ella ha gestito il giornale Mother Earth per 12 anni, fino a quando il governo degli Stati Uniti l’arrestò per via dei progetti antimilitaristi e contro la grande guerra (1914-1918) e condannata a due anni di carcere. Mother Earth era un terreno comune per gli anarco-comunisti, gli individualisti, i mutualisti, i sindacalisti e tanti artisti d’avanguardia che hanno visto l’anarchismo come estensione del loro credo politico (più o meno avvenne anche dopo la seconda guerra mondiale). La rivista, e la Goldman, promosse fortemente Nietzsche; non solo avevano fatto stampare gli articoli divulgativi e discutevano le sue idee, ma si potevano anche ordinare le opere complete di Nietzsche.
Nella sua autobiografia, Living My Life, la Goldman scrisse il suo primo incontro con le opere di Nietzsche nel 1890.
“La magia del suo linguaggio, la bellezza della sua visione, mi ha portato a delle altezze inimmaginabili. Avrei voluto divorare ogni riga dei suoi scritti …” Lei ha anche scritto che” Nietzsche non era un teorico sociale, ma un poeta, un ribelle e innovatore. La sua aristocrazia non era né di nascita né di borsa, era dello spirito. A questo proposito, Nietzsche era un anarchico, e tutti gli anarchici erano aristocratici.”
Come si legge nel mio libro “I Am Not a Man, I Am Dynamite! Friedrich Nietzsche and the Anarchist Tradition”, la Goldman rese popolare le idee di Nietzsche nelle conferenze e utilizzava molte delle sue concezioni sulla moralità e sullo Stato nei suoi scritti. Tuttavia, ha sempre unito la difesa dell’individuo con una sorta di anarco-comunismo kropotkiano.
La Goldman non era l’unica anarchica a coniugare le idee di Nietzsche con quelle di Kropotkin. I documenti di Alan Antliff indicano come la critica d’arte indiana e anti-imperialista Ananda Coomaraswamy combinasse l’individualismo di Nietzsche e il suo senso di rinnovamento spirituale con l’economia di Kropotkin e il pensiero idealista religioso asiatico. Questa combinazione è stata offerta come base per l’opposizione alla colonizzazione britannica e all’industrializzazione.
Kropotkin stesso, tuttavia, non era un grande appassionato di Nietzsche. Pubblicò poche menzioni su di lui, in quanto non vedeva con congruenza il suo punto di vista (stessa cosa anche per quello di Stirner). Ma Kropotkin morì prima di finire il suo ultimo capitolo sull’Etica, in cui avrebbe dovuto trattare il pensiero di Stirner, Nietzsche, Tolstoj e tanti altri.
Gli anarchici spagnoli e altri politici che gravitavano attorno alla repubblica erano ispirati al pensiero nicciano. Murray Bookchin, in Gli anarchici spagnoli, descrive il prominente membto della CNT-FAI Salvador Seguí come “un ammiratore dell’individualismo nietzscheano, del superuomo a cui “tutto è permesso”.” Bookchin, nella sua Introduzione al libro di Sam Dolgoff, “The Anarchist Collective Workers’Self-management in the Spanish Revolution 1936-1939” (1) del 1973, descrive la ricostruzione della società da parte dei lavoratori come un progetto nicciano
Un altro membro della CNT-FAI influenzato dal pensiero di Nietzsche era Federica Montseny, editore de La Revista Blanca, e che in seguito avrebbe raggiunto l’infamia insieme ad altri quattro anarchici che avevano accettato posizioni di gabinetto del governo spagnolo del Fronte Popolare. Nietzsche e Stirner -così come il drammaturgo Ibsen e l’anarchico-geografo Elisee Reclus- erano i suoi scrittori preferiti, secondo il libro di Richard Kern “Red Years / Black Years: A Political History of Spanish Anarchism, 1911–1937. Kern dice che ella aveva dichiarato che “l’emancipazione delle donne porterebbe ad una realizzazione più rapida della rivoluzione sociale” e che “la rivoluzione contro il sessismo sarebbe dovuto venire da donne intellettuali e militanti”. Secondo questo concetto nicciano di Federica Monteseny, le donne potevano realizzare questa emancipazione attraverso l’arte e la letteratura in modo da rivedere i propri ruoli. ”
Rudolf Rocker era un altro anarchico ammiratore di Nietzsche. Rocker, anarchico di origine tedesca, si era trasferito in Inghilterra nel 1895 ed era diventato un noto sindacalista tra i lavoratori ebrei di lingua yiddish lì. Fu un sostenitore dell’anarco-sindacalismo, e nel 1922 contribuì a formare la AIT (Associazione Internazionale dei lavoratori), l’organismo di coordinamento dei sindacati degli anarco-sindacalisti. Rocker invoca ripetutamente Nietzsche nel libro “Nazionalismo e Cultura”: l’anarchico tedesco lo cita per portare a sostegno le sue affermazioni che il nazionalismo e il potere dello Stato hanno una influenza distruttiva sulla cultura, dal momento che “la cultura è sempre creativa”, ma “il potere non è mai creativo.” Rocker finisce anche il suo libro con una citazione di Nietzsche.
Infine, l’influenza di Nietzsche sull’ambiente Situazionista. I situazionisti sono spesso scambiati per gli anarchici, ma erano in realtà una combinazione di varie avanguardie (tra cui Dada, il Surrealismo e il Lettrismo) con l’influenza hegeliana “occidentale” del marxismo di Georg Lukács, Henri Lefebvre e altri. (Vedere la tesi 91-94 de La Società dello Spettacolo di Guy Debord sull’anarchismo). Secondo Jonathan Purkis, John Moore ha affermato che l’influenza situazionista segna “una seconda ondata del pensiero anarchico”, il primo importante cambiamento teorico dall’anarchismo “classico”.
Uno dei cambiamenti più importanti in questo è stato un interruttore ontologico: mentre Marx aveva visto la natura umana come essere essenzialmente definita dal lavoro (egli pone questo esplicitamente nei suoi manoscritti del 1844), i situazionisti vedevano l’umanità come essenzialmente estetica e creativa. Essi, come Nietzsche, hanno preso l’artista, e non il lavoratore, come modello per il nuovo soggetto rivoluzionario. Coloro che hanno seguito la tradizione Situazionista, come Hakim Bey, vedevano una “parentela” con Nietzsche su questa base. E Fredy Perlman avrebbe apprezzato il consiglio del filosofo autore di “Così parlò Zarathustra” nell’evitare tutte le “persone senza condizioni” e che “guardano con amarezza la vita”, perchè “hanno i piedi pesanti e i cuori pesanti: essi non sanno come ballare.”
Uno, a quanto pare, non ha bisogno di coniugare Nietzsche e l’anarchismo: si sono già uniti, e abbiamo già ereditato il frutto della loro unione.
La cartella contiene:
– Tutte le opere di Nietzsche edite da Adelphi
– La mia vita. Scritti autobiografici 1856-1869
– Lettere a Ewin Rohde
– (a cura di) Pietro Ciaravolo, Nietzsche-Stirner
– Georges Bataille, Su Nietzsche
– Gilles Deleuze, Nietzsche
– Irvin D. Yalom, Le lacrime di Nietzsche
– John Moore e Spencer Sunshine, Non sono un uomo, sono dinamite! Friedrich Nietzsche e la tradizione anarchica
TUTTE LE OPERE
Posted: Giugno 8th, 2015 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, arts, au-delà, bio, epistemes & società, Foucault, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Agamben “inoperoso” ovvero l’equivoco dell’energeia
di Lorenzo Mainini
Con L’uso dei corpi (2014) Giorgio Agamben riconosce una “conclusione” del suo percorso filosofico e apre alla stabilizzazione di quei concetti che hanno segnato da sempre il suo pensiero. Fra tutti l’inoperosità – quella permanenza in se stessi, quell’inattualità, che Agamben pensa come forma della “resistenza” a un potere che invece attualizza, mette in opera e attiva. Alcuni critici, nel discutere l’ultimo lavoro agambeniano, hanno avuto gioco facile nel confermare i rischi già rilevabili in corso d’opera. Negri, ad esempio, osservava che, alla lettura d’Agamben, s’avverte l’impressione di trovarsi al cospetto di “qualcuno che ha colto il problema e non vuole, meglio, non può più risolverlo”1.
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Posted: Maggio 14th, 2015 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, arts, Foucault, Nietzsche, philosophia | Commenti disabilitati su Sloterdijk, Macho, Byung-Chul Han
di Antonio Lucci
La filosofia è morta, viva le scienze della cultura!
Un rapido sguardo ai nomi delle cattedre, ai programmi delle lezioni, alle monografie pubblicate dai docenti afferenti ai dipartimenti di filosofia delle università tedesche è sufficiente a rendere evidente quello che ai più potrà sembrare a prima vista un dato stupefacente: la filosofia intesa come teoria e produzione di teoria sulla realtà, e analisi critica della stessa, in Germania, nei dipartimenti di filosofia, è scomparsa.
Resta al suo posto la storia della filosofia (una filosofia trattata come bene museale, come un oggetto in sé conchiuso, immutato e immutabile, e per questo oggettivamente analizzabile), dunque – nel migliore dei casi – l’analisi storica di un oggetto concettuale cristallizzato in uno spazio e tempo altri, del tutto separati dal presente e dalla sua interpretazione. Accanto ad essa la filosofia analitica, di matrice anglo-sassone. Ma della filosofia come interpretazione critica dell’esistente, analisi e produzione di immagini del mondo, non resta praticamente (fatte salve le dovute, rare ma presenti, eccezioni) traccia.
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Posted: Aprile 9th, 2015 | Author: agaragar | Filed under: philosophia | Commenti disabilitati su L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”
di ROBERTA DE MONTICELLI
Perché la maggior parte della intelligentsia italiana di sinistra continua a considerare Heidegger come il principale crocevia per comprendere la modernità? La compromissione di Heidegger con il nazismo non affonda le radici nel suo pensiero filosofico? Perché il profondo antiliberalismo del pensiero heideggeriano continua ad affascinare i maggiori rappresentanti di ciò che è stato chiamato “Italian Theory”? La pubblicazione dei “Quaderni neri” e le più recenti ricerche a riguardo aiutano a rispondere a questi quesiti.
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Posted: Febbraio 9th, 2015 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, philosophia | Commenti disabilitati su Mircea Eliade tra scienza delle religioni e ideologia “guardista”
di Alfonso M. Di Nola
L’aspra e pesante polemica intorno al fascismo, al filonazismo, all’antisemitismo dello storico delle religioni e romanziere Mircea Eliade e al suo diretto e responsabile coinvolgimento nelle posizioni reazionarie della Guardia di Ferro rumena, è indubbiamente conclusa.
La denunzia dei precedenti ideologici del personaggio – precedenti che appartengono non già a giovanili smarrimenti, ma a consapevoli scelte compiute in piena maturità, intorno ai trenta anni – fu dallo scrivente fatta nel 1977 in un breve saggio pubblicato sulla “Rassegna mensile di Israel” (Mircea Eliade e l’antisemitismo, gennaio-febbraio 1977, pp. 12-15). In quel saggio, avvalendomi di mie personali informazioni e dei risultati di una tesi di laurea con me discussa da Gennaro Evangelista su Ideologia e falsa coscienza di M. Eliade presso l’Università di Siena, mi riferivo ad una precisa fonte rumena pubblicata in Israele (“Toladot. Buletinul Institutului Dr. J. Niemirower”, contenente un Dosarul Mircea Eliade, “dossier su M.E.”).
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Posted: Novembre 24th, 2014 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, bio, Deleuze, epistemes & società, Foucault, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Giorgio Agamben, un vita libera finalmente
di Roberto Ciccarelli 24 novembre 2014
Tra diritto pubblico e biopolitica, l’immanenza. Una lettura di “L’uso dei corpi” di Giorgio Agamben (Neri Pozza, 2014).
In pochi libri oggi c’è un’aria di scoperta. Può accadere leggendo L’uso dei corpi, ultima tappa del ciclo ventennale che Giorgio Agamben ha dedicato alla riflessione sull’Homo Sacer. Insieme a pochi altri, questo libro spiega perché oggi ciò che è da pensare è l’immanenza. Sulle tracce del filosofo francese Gilles Deleuze, che ne ha fornito un’originale ricostruzione, Agamben torna oggi su questi sentieri dove non mancano chiaroscuri e incroci problematici. In più Agamben arriva a spiegare il senso della sua indagine sul diritto pubblico (lo “Stato di eccezione”), sulla biopolitica (da lui declinata come potere “tanatopolitico” della razionalità occidentale).
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Posted: Novembre 19th, 2014 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, bio, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Giorgio Agamben, quando l’inoperosità è sovrana
di Toni Negri
«L’uso dei corpi» del filosofo italiano affronta il problema di una vita felice da conquistare politicamente. Ma dopo aver preso congedo dalle teorie marxiste e anarchiche sul potere, l’esito è uno spaesante sporgersi sul nulla.
È un gran libro metafisico, questo di Giorgio Agamben che esplicitamente conclude la vicenda dell’Homo sacer (L’uso dei corpi, Neri Pozza Editore, pp. 366, euro 18). Proprio perché metafisico è anche un libro politico, che in molte sue pagine ci restituisce l’unico Agamben politico che conosciamo (quando «politica» significa «fare» e non semplicemente strologare sul dominio, alla maniera dei giuristi e degli ideologi), quello de La comunità che viene. Ma in senso inverso, rovesciato. Il problema è sempre quello di una vita felice da conquistare politicamente ma, dopo vent’anni, questa ricerca non conclude né alla costruzione di una comunità possibile né alla definizione di una potenza – a meno di non considerare tale la «potenza destituente», auspicata in conclusione della ricerca. In quella prospettiva, la felicità consisterebbe nella singolare contemplazione di una «forma di vita» che ricomponga zoé e bíos e d’altra parte nella disattivazione della loro separazione, imposta dal dominio.
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Posted: Ottobre 28th, 2014 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, bio, Deleuze, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Linguaggio e immanenza. Kierkegaard e Deleuze sul “divenir-animale”
di FELICE CIMATTI
[dal n. 363/2014 di “aut aut“]
Quanto grande dev’essere la violenza da fare al pensiero per diventare capaci di pensare, la violenza di un movimento infinito che ci priva al tempo stesso del potere di dire Io?[1]
1. “La nostra impresa più difficile”
Immanenza. È una nozione difficile da articolare, perché se per spiegare un concetto si ricorre a un altro concetto, al suo contrario o a uno simile, questo non si può fare per l’immanenza, che è un concetto limite, che assorbe in sé tutti gli altri, e li annulla. L’immanenza non è propriamente il contrario della trascendenza. È questa che ha bisogno dell’immanenza, come suo contrario, per precisare se stessa, per definirsi come l’ambito di ciò che non è immanente, non è mondano, non è terreno. L’immanenza è lo spazio che si apre quando tutti i dualismi sono stati superati, e non rimane che un unico ambito, quello appunto dell’immanenza. Uno spazio che proprio per questa ragione è impensabile e indicibile: “Il piano di immanenza non è un concetto, né pensato né pensabile”.[2] Non si può pensare, ché per pensarlo occorrerebbe essere al suo esterno, ossia nella trascendenza; per la stessa ragione non può dirsi, perché il linguaggio incarna l’essenza stessa di ogni dualismo, della cosa e del segno, del significato e del significante, del contenuto e dell’espressione. È difficile quindi pensare l’immanenza.
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Posted: Ottobre 26th, 2014 | Author: agaragar | Filed under: philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Marx, Blade Runner e la filosofia
di Roberto Sidoli, Daniele Burgio, Lorenzo Leoni
Introduzione dal volume Pitagora, Marx e i filosofi rossi in via di pubblicazione
Aristotele Platone Luca della RobbiaPitagora, il geniale filosofo e matematico, un protocomunista?
Aristotele, un sostenitore accanito della schiavitù e della proprietà privata dei mezzi di produzione?
Locke e Voltaire, due filosofi illuministi, allo stesso tempo sostenitori della legittimità della schiavitù e del traffico di schiavi africani verso le colonie europee in America?
Il sofisticato filosofo Martin Heidegger, un pensatore antisemita e anticomunista, capace a volte di scavalcare “a destra” lo stesso nazismo genocida?
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[cap. 1]