Posted: Novembre 27th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Per farla finita con Shylock. Dalla scuola del privatus alla scuola del comune
di GIROLAMO DE MICHELE
Shylock – My meaning in saying he is a good man is to have you understand me that he is sufficient.
William Shakespeare, Merchant of Venice, act I, sc. 3
In un’epoca di parallela crisi dello Stato sociale e dei dispositivi di governance, la coppia pubblico-privato ha quasi insensibilmente assunto un significato dipendente dal valore evocativo e simbolico dei due termini dell’endiade, più che dal reale rapporto tra le cose che le due parole designano. L’enfasi posta sul “privato”, amplificata dal campo semantico che comprende pratiche designate da termini quali “privatizzazione” e “privacy“, ha l’effetto di rimandare ipso facto a un’immagine mentale correlata al termine “pubblico”, che evoca l’elefantiasi dell’apparato statale, la burocratizzazione dei processi decisionali, l’inefficienza delle procedure, i costi elevati, l’oppressione fiscale: non a caso si è parlato, in anni recenti, di passaggio dal Welfare al Wolfare State. L’egemonia culturale esercitata per un trentennio dalle destre, a partire dalla new right thatcheriana e reaganiana, ha prodotto la fede nella ovvietà e naturalezza di un frame che, anche se declinato in termini di opposizione o di difesa dei beni e servizi da parte dei sostenitori del “pubblico”, evoca comunque in prima battuta la famiglia di metafore correlate al campo del “privato”; questo campo viene poi ribattuto dalla metafora del detentore della decisione nei due campi semantici. Seguendo l’intuizione di George Lakoff, per cui il messaggio politico si esemplifica nella metafora di un modello della figura paterna che in definitiva rimane impigliato nella coscienza neuronale,[1] è plausibile che la forza dei sostenitori del modello privato, nell’uso del frame pubblico/privato, sia nell’immagine del padre severo ma efficiente, che si rimbocca le maniche e prende le decisioni essenziali, contrapposto a quello del padre impiccione e moralista, che si immischia di ogni cosa e finisce con lo scontentare tutti i membri della famiglia.
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Posted: Novembre 6th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, epistemes & società, lacanism | 1 Comment »
di Eleonora de Conciliis
1. In un fortunato volume di qualche anno fa (L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina 2010, anch’esso da me recensito sul portale di Kainos) Massimo Recalcati ha chiamato ‘uomo senza inconscio’ il tipo psichico emergente dal tardo capitalismo, caratterizzato da una nuova incapacità di accesso al simbolico, che si traduce in una nuova incapacità di capire il senso della Legge, di qualsiasi legge, e anche di qualsiasi alterità (in primis quella paterna, incapace dunque di soggettivarsi attraverso l’interdizione simbolica, simbolicamente castrante, del Nome-del-Padre): un individuo cinico e narcisista, ma anche molto conformista, che tende a sostituire il desiderio con un godimento schiacciato sul consumo di oggetti, in quello che Recalcati definisce totalitarismo dell’oggetto.
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Posted: Settembre 22nd, 2012 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, BCE, crisi sistemica, epistemes & società, Révolution | Commenti disabilitati su David Graber
La democrazia viene da Occupy
intervista di François Peverali
Le politiche dell’austerità servono a consolidare il potere costituito senza tuttavia risolvere la crisi del capitalismo. Un’intervista con l’antropologo statunitense autore di un saggio sul «Debito»
L’antropologo David Graeber ricorda con piacere il suo viaggio in Germania, per presentare l’edizione tedesca del suo libro sul Debito (tradotto in Italia dal Saggiatore con il titolo Debito. I primi 5000 anni, pp. 581, euro 23. Il volume è stato analizzato nel numero del settimale «Alias» allegato al «manifesto» del 31 marzo 2012): un’analisi critica del nesso di sudditanza tra debitori e creditori attraverso 5.000 anni di storia, e dei punti di rottura della sottomissione quando i debiti diventano insostenibili. In Germania, il libro ha trovato recensioni entusiaste perfino in un giornale conservatore come la Frankfurter Allgemeine Zeitung, e resta ai primi posti nelle classiche dele vendite come i bestseller. Forse proprio perché la Germania è il paese che più ha ideologizzato, in chiave rigorista, la sacralità dei vincoli del debito, c’è tanto interesse per chi mette in dubbio questa costruzione.
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SCAFFALI
L’anarchia di un antropologo
David Graeber è un docente di antropologia al Goldsmith College di Londa, che lo ha accolto dopo che la prestigiosa Yale non gli ha rinnovato il contratto nel 2005. Un mancato rinnovo che, il diretto interessato, ha imputato per le sue dichiarazioni sulla militanza anarchica e per la critica al capitalismo statunitense da lui svolta all’interno del suo settore disciplinare, l’antropologia. Autore di «Direct Action and Radical Social Theory», ha partecipato alle iniziative del movimento no-global. Recentemente è stato indicato come uno dei teorici più influenti nell’esperienza Occupy Wall Street. In Italia sono stati pubblicati, oltre a «Debito. I primi 500 anni» (Il saggiatore), «La rivoluzione che viene. Come ripartire dopo la fine del capitalismo» (Manni editore), «Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello stato, democrazia diretta» (Eleuthera) e «Frammenti di antropologia anarchica» (Eleuthera). Il suo anarchismo non gli ha impedito di vedere nell’opera di Karl Marx uno degli strumenti più importanti per individuare «vie di fuga» dal capitalismo.
Posted: Settembre 15th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, philosophia | Commenti disabilitati su Damasio
Antonio Damasio, Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente
di Giovanni Coppolino Billè
Gli interrogativi basilari del campo delle neuroscienze, a cui Damasio tenta di rispondere con le sue ipotesi in questo nuovo libro, sono sostanzialmente due: come fa il cervello a costruire una mente? E come fa il cervello a dotare quella mente di coscienza?
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Posted: Settembre 2nd, 2012 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica, epistemes & società, vita quotidiana | 7 Comments »
QUAL È IL POTERE DELLE CLASSI MEDIE?
Tra sottomissione e ribellione
di DOMINIQUE PINSOLLE *
Corteggiate dal potere a Parigi come a Pechino, a Mosca o a Washington, le classi medie dominano al centro di tutte le strategie politiche. In periodi di crisi, oscillano tra solidarietà con le classi popolari e alleanza con l’alta borghesia. Questo gruppo particolare, dalle frontiere incerte, ha visto la sua immagine cambiare radicalmente nell’immaginario sociale, il piccolo proprietario dai ristretti orizzonti ha ceduto il passo al giovane laureato appassionato di Internet. Dall’Unità popolare cilena dell’inizio degli anni ’70 alle mobilitazioni contro Vladimir Putin, dalle lotte anticoloniali alle rivolte arabe, a quali alleanze hanno fatto ricorso le classi medie per proporre progetti progressisti? E cosa comportano le trasformazioni di queste frange intermedie quando favoriscono una rapida ascesa, come in Cina o, al contrario, un declassamento brutale, come in Spagna?
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Posted: Luglio 18th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, post-filosofia, Révolution | Commenti disabilitati su pourparler
GILLES DELEUZE – L’opera del filosofo francese è stata sempre percorsa dalla volontà di una diffusione che andasse oltre l’ambito accademico a cui era ricondotta da critici e esegeti. Un percorso di lettura a partire da alcune monografie recentemente pubblicate.
Lo stile popolare del divenire
di Fabrizio Denunzio
Dall’«Uccello filosofia» all’«Abecedario», il tentativo di tradurre per i molti un complesso itinerario filosofico Il cinema, la letteratura, l’arte sono gli ambiti disciplinari scelti per misurare la distanza dal pensiero dominante
All’epoca, quando fu formulata, la tesi fece scalpore. Gli intellettuali comunisti più intransigenti non tardarono a riconoscervi tracce d’idealismo e d’ingenuità. Molto sinteticamente, veniva avanzata l’ipotesi che i mezzi di comunicazione di massa permettessero l’ampliamento organico del pubblico e che, in sostanza, la cultura che promuovevano non si riferisse più alla lettura, ma ad altre forme di apprendimento legate in massima parte alle immagini e ai suoni, oggi diremmo all’audiovisivo. Eravamo nel 1958, il testo era Cultura e rivoluzione industriale e l’autore Raymond Williams. Dalla sua tesi il fondatore dei cultural studies traeva una conseguenza molto significativa: la crescita quantitativa del pubblico e la promozione di modalità cognitive diverse da quelle tradizionali, creavano nuovi problemi destinati a influire significativamente sulla strutturazione della cultura.
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Posted: Maggio 11th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, post-filosofia | Commenti disabilitati su La società dei simulacri
di Mario Perniola
La società dei simulacri nel tempo del governo dei peggiori
Ho aspettato trent’anni per ripubblicare questo libro, nonostante le ripetute sollecitazioni di lettori e di editori. Infatti solo ora i fenomeni sociali descritti allora, al loro sorgere, il potere delle organizzazioni criminali e la decadenza del sapere, hanno raggiunto il loro momento culminante.
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Posted: Marzo 24th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: arts, epistemes & società | 168 Comments »
1) L’immagine surrealista e il cinema
a cura di Renzo Principe
Il cinema “critico-espressivo” e l’immagine surreale *
Il rapporto tra cinema e surrealismo richiederebbe una analisi strutturale dettagliata dei film che sono classificati sotto il titolo di cinema surrealista [1] . Esso comprende un arco di tempo breve che va dal 1927 al 1932, anno in cui è stato prodotto Las Hurdes di Buñuel e Pierre Unik e che chiude il periodo storico del surrealismo cinematografico. Tuttavia, mi sono limitato a riportare solo ciò che era indispensabile per capire quali elementi teorici uniscono il cinema alla “poetica surrealista”. Per un ulteriore approfondimento rinvio alla bibliografia dell’analisi strutturale di questi film che è sconfinata come lo è del resto quella sul surrealismo in generale.
[…]
2) Misticismo e dialettica
di Renzo Principe
Misticismo, surrealismo e pratica comunicativa
Come prima approssimazione, potremmo dire che in ogni misticismo c’è l’esperienza della perdita, cioè un sentimento positivo della mancanza che porta al bisogno di superare tale condizione alienante, attraverso una illuminazione immediata.
Nonostante B. Russel sia un esponente del Positivismo logico, per il nostro discorso è emblematico il modo in cui egli mette a fuoco il rapporto tra atteggiamento mistico e logica. Dal loro confronto egli ricava non una condanna del pensiero intuitivo, ma una alta considerazione dell’immediatezza, anello di congiunzione tra teoria e prassi, tra ragione e sensibilità. Secondo Russel, proprio nell’esperienza dell’illuminazione immediata risiede la credenza in una Realtà superiore[1].
[…]
Posted: Febbraio 24th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: epistemes & società, Marx oltre Marx, post-filosofia | Commenti disabilitati su Il sacro dilemma dell’inoperoso
di Toni Negri
La pubblicazione di «Opus dei» del filosofo italiano per Bollati Boringhieri
è la conclusione di un percorso teorico inziato con «Homo Sacer». La posta
in gioco è sempre stata teoretica, cioè l’essere, e ha comportato un corpo a
corpo con «l’ideologia europea». Ma ad ogni tappa sono stati affrontati temi
centrali in una auspicabile politica della trasformazione. Un nichilismo
radicalizzato dove non c’è spazio per la storia.
Con questo Opus dei (Bollati Boringhieri, pp. 155, euro 15) sembra
concludersi il cammino che il filosofo italiano Giorgio Agamben ha
intrapreso con Homo Sacer. Un bel tratto di strada, dai primi anni Novanta
del Novecento, un ventennio. Un’archeologia dell’ontologia condotta (con un
rigore che neppure il gioco bizzarro e fuorviante dei numeretti messi a
fingere un ordine per diversi stadi della ricerca è riuscito a rendere
opaco) – fino ad una riapertura del problema del Sein (l’essere). Uno scavo
quale neppure a Martin Heidegger (a dire dell’autore che qui si rivendica
giovane allievo del filosofo tedesco) era riuscito – perché qui l’ontologia
è liberata da ogni vestigia di «operatività», da ogni illusione che essa
possa legarsi alla volontà ed al comando. Che cosa ne resta? «Il problema
della filosofia che viene è quello di pensare un’ontologia al di là
dell’operatività e del comando, e un’etica e una politica del tutto liberate
dai concetti di dovere e volontà».
La dimostrazione che l’ontologia criticata da Heidegger sia ancora, al
fondo, una teoria dell’operatività e della volontà, è idea indubbiamente
vera. Già Schürmann l’aveva sviluppata quando aveva criticato il Sein come
l’idea stessa di «arché», e dunque come indistinzione di inizio e di
comando. Seguire lo sviluppo e l’organizzazione successiva di
quest’ontologia dell’operatività, che dai neoplatonici ai padri della
Chiesa, dai filosofi latini a Kant, da Tommaso a Heidegger pone un’idea
dell’essere completamente assimilata a quella della volontà/comando, è
compito da Agamben qui assolto con grande maestria.
In debito con la religione Aristotele, prima di tutti. Nella sua teoria
della virtù come abito, egli avrebbe potuto strappare l’essere ad ogni
pulsione aporetica verso la virtù e così liberarsi di ogni operatività
valorifica: non ce la fa, pur essendo colui che, alle origini della
metafisica, aveva concepito la virtù come rapporto con la privazione e come
determinazione ontologica inoperosa. Ma di qui in avanti – secondo Agamben –
le cosa vanno di male in peggio. Nel cristianesimo (ancora una volta
l’immersione nel rapporto fra neoplatonismo e patristica sollecita Agamben
nel suo procedere) azione e volontà cominciano a farla da padroni. Lasciamo
ai medievisti il giudizio sulla correttezza dell’analisi agambeniana: a noi
basta seguirne il filo che mostra una indubbia coerenza. Ora, l’aporia
aristotelica che si definiva nell’alternativa di collegare (o non collegare)
l’abito e la virtù, l’essere ed il dovere, la passività e l’attività, nella
Scolastica viene meno. L’abito critico è piuttosto ordinato costitutivamente
all’azione e la virtù non consiste più nell’essere ma nell’operare – ed è
solo attraverso l’azione che l’uomo si assimila a Dio. Così in Tommaso: «È
questa ordinazione costitutiva dell’abito all’azione che la teoria delle
virtù sviluppa e spinge all’estremo». D’ora in poi la storia della
metafisica, scarnificata dall’archeologia critica, mostra una bella
continuità e rivela una sorta di ansia perversa (secondo Agamben) di
svolgere ed approfondire quel principio operativo dell’etica e quel concetto
di virtù come obbligo e dovere che la teologia medioevale le aveva concesso
in eredità. Il «debito infinito» in cui consiste, secondo i filosofi della
Seconda Scolastica, il dovere religioso, viene così definitivamente
impiantandosi nelle metafisiche della modernità. Con Kant fa la prima
comparsa l’idea di un compito e di un dovere infiniti, irraggiungibili ma
non per ciò meno doverosi. In un passo esemplare Agamben riassume: «Qui si
vede con chiarezza che l’idea di un “dover-essere” non è soltanto etica né
soltanto ontologica: essa lega, piuttosto, aporeticamente essere e prassi
nella struttura musicale di una fuga in cui l’agire eccede l’essere non
soltanto perché gli detta sempre nuovi precetti, ma anche ed innanzitutto
perché l’essere stesso non ha altro contenuto che un puro debito». Nelle
pagine successive Agamben insiste polemicamente sull’interiorizzarsi
dell’idea della legge morale, sul suo approfondirsi della forma
dell’autocostrizione e persino del piacere masochista nella legge. «La
sostituzione del “nome glorioso di ontologia” con quello di “filosofia
trascendentale” significa, appunto, che un’ontologia del dover-essere ha
preso ormai il posto dell’ontologia dell’essere».
Una trattazione ed una conclusione del tutto heideggeriane, si direbbe. E
però, lo si avverte da subito, questo riferimento delude Agamben. «Anche
Heidegger sviluppa un’ontologia che è più solidale di quanto si creda con il
paradigma dell’operatività che intende criticare». Restiamo stupiti da
questa affermazione. Non era dunque andato abbastanza avanti Heidegger nella
sua distruzione dell’ontologia della modernità? Non aveva già abbastanza
scarnificato il Sein – l’essere – di quanto di umano gli si poteva
attribuire? No – insiste Agamben – c’è un punto nel
quale Heidegger cede alla tentazione di un’ontologia operativa: sono la
teoria della tecnica, la critica del Gesell che scoprono questa
irresolutezza. «Non si comprende l’essenza metafisica della tecnica, se la
si intende solo nella forma della produzione. Essa è, altrettanto e
innanzitutto governo e oikonomia, che, nel loro esito estremo, possono anche
mettere provvisoriamente fra parentesi la produzione causale in nome di
forme più raffinate e diffuse di gestione degli uomini e delle cose».
Auschwitz insegna! Già nel Regno e la gloria, con un po’ di attenzione, si
sarebbe potuta leggere questa conclusione.
Il distacco da Heidegger Qui mi nasce un sospetto. E cioè che questo libro,
Opus Dei, benché riassuma e sviluppi, come già detto, le analisi di Il Regno
e la gloria, in realtà non sia solo il completamento di quel filone
archeologico di pensiero e di lavoro agambeniani. Questo libro segna
piuttosto il definitivo distacco di Agamben da Heidegger: la scelta
ontologica sovrasta la qualità archeologica dell’analisi e lo scontro si
innalza a livello fondamentale. Heidegger è qui accusato d’esser
riuscito solo ad una provvisoria soluzione delle aporie dell’essere e del
dover-essere (ovvero dell’operatività): indeterminazione più che
separazione, più che scelta di un altro terreno ontologico. Debbo ammettere
di aver provato una certa soddisfazione rilevandolo. Ma essa fu breve. Qual
è infatti il Sein ulteriormente imperscrutabile che Agamben ora, pur contro
Heidegger,ci propone? Già una volta, nel 1990, prima di avventurarsi nella
lunga vicenda dell’Homo Sacer, in La Comunità che viene, Agamben si era
allontanato da Heidegger: aveva allora ceduto ad una sollecitazione
benjaminiana, quasi marxista, nel promuovere una sfida sul senso umanistico
dell’essere. Ora, non è certo in questo senso che Agamben procede. Si
muove, al contrario, contro ogni umanesimo, contro ogni possibilità di
azione, contro ogni speranza di rivoluzione.
Ma come ci è arrivato, Agamben, a questo nihilismo radicalizzato, agitandosi
nel quale si compiace di aver superato (o portato a termine) il progetto di
Heidegger? Ci arriva attraverso un lungo percorso che si articola su due
direzioni: una di critica propriamente politico-giuridica, l’altra
archeologica (uno scavo teologico-politico). Carl Schmitt è al centro di
questo cammino: ne guida le due direzioni, quella che porta alla
qualificazione del potere come eccezione, e dunque come forza e destino,
strumentazione assoluta e senza qualità di ogni tecnica, e sadismo della
finalità; d’altro lato quella che porta alla qualificazione della potenza
come illusione teologica, ovvero impotenza, e cioè affidamento impossibile
all’effettualità, quindi: incitamento all’inoperatività, quindi denuncia
della frustrazione necessaria del volere, del masochismo del dovere. Le due
cose vanno assieme. È quasi impossibile, recuperata l’attualità
dei concetti schmittiani dello «Stato di eccezione» e del
«teologico-politico» comprendere se essi rappresentino il più grande
pericolo o invece se si tratti semplicemente di una apertura alla loro
verità. La metafisica e la diagnostica politica si arrendono
all’indistinzione. Ma ciò sarebbe
forse irrilevante se in questa indistinzione non fosse annegata ogni
possibile resistenza. Ritorniamo alle due linee identificate: tutto il
percorso che segue Homo Sacer si svolge su questo doppio binario. La seconda
linea è sommarizzata da Il Regno e la gloria.
La virtù efficace Insistiamo: anche questa seconda linea è mossa dalla
Teologia politica di Carl Schmitt e dal confronto con l’ontologia di
Heidegger. Diciamo questo per evitare che si confonda l’archeologia
di Agamben con quella di Foucault. In Agamben manca la storia, quella storia
che in Foucault non è solo archeologia della modernità ma genealogia attiva
del presente, del suo darsi come del suo disfarsi, del suo essere come del
suo divenire. La storia, per Agamben, non esiste. Meglio, è al massimo
storia del diritto, che è appunto il solo luogo dove il filosofo può farsi
grammatico ed analista delle grammatiche del comando. Ma certamente anche il
luogo dove biopolitica e genealogia possono presentarsi solo in maniera
lineare – come destino, appunto.
Perché qui neppure l’ombra della soggettività, della produzione, appare – ed
anzi sembra che anche quest’ultima sia totalmente sommessa al blocco del
fare, della tecnica, dell’operare e, soprattutto, della resistenza.
Non stupiscono allora, in Opus Dei, le esemplificazioni giuridiche che
Agamben presenta a definitiva prova delle sue tesi. L’assolutizzazione del
dovere nel diritto sarebbe stata introdotta da Pufendorf più che da Hobbes
(e questo processo si conclude con Jean Domat). Può darsi.
Una lontana storia seicentesca, dunque, che marcia in contemporanea con la
nascita e lo sviluppo della Seconda Scolastica (quanto le deve lo stesso
Heidegger!) e della definitiva stabilizzazione di una metafisica
dell’operosità, della virtù efficace. Ma soprattutto importante,
perché è Kant che riprende questo motivo e, dopo Kant, Kelsen lo assolutizza
nella figura fondamentale del dovere giuridico, del Sollen. Si ricordi: non
è tanto la conclusione kelseniana che pur afferma la relazione fra diritto e
comando come doverosa, ad essere qui importante; l’importanza sta nel fatto
che essa riprende – mille miglia lontano dalla sua prima affermazione,
eppure vivente in tutta l’«ideologia europea» – quel nesso interno alla
liturgia che va dall’operatività economica all’essere divino, scendendo
omogeneamente attraverso le deduzioni giuridiche, fino alla necessità
fondante del Sollen: tutto ciò non rappresenta altro che il comando
imperscrutabile della divinità. Così, di Kelsen, si è fatto l’uguale di
Schmitt e le due linee aperte da Homo Sacer, si ricompongono: da un lato la
critica dell’eccezione e dall’altro la critica del Sollen, filtrata nella
oekonomia cristiana, in definitiva si unificano. Ma se questa riduzione può
essere – a grandissime linee e su un terreno che ormai non è più né
giuridico né politico – accettata; se è vero che la pratica di governo
fondata sul diritto di eccezione e sulla pretesa dell’efficacia economica,
hanno sostituito ogni forma costituzionale di governo; se, come
ricordava Benjamin tanto tempo fa, «ciò che è ormai effettivo è lo stato di
eccezione nel quale viviamo e che non sapremmo più distinguere dalla
regola»: bene, ciò detto, che cosa secondo Agamben può liberarci?
Giungiamo così al termine di un cammino complesso. Occorre liberarci dal
concetto e dalla potenza di volontà: così Agamben comincia a rispondere alla
questione. Dobbiamo liberarci dalla volontà che si vuole istituzione, che si
vuole efficacia ed attualità. Le ragioni le conosciamo. Nella filosofia
greca dell’età classica il concetto di volontà non ha significato
ontologico; questa deturpazione ontologica viene introdotta dal
cristianesimo, forzando elementi embrionalmente presenti in Aristotele; così
il dovere è introdotto nell’etica per dare fondamento al comando; così
l’idea di una volontà è elaborata per spiegare il passaggio dalla potenza
all’atto. In tal modo tutta la filosofia occidentale è posta dentro un
terreno di insolubili aporie che trionfa nella modernità piena, con il
ridefinirsi del mondo come prodotto di tecnologia e di industria (che cosa è
più evidente del realizzarsi, del divenire efficace del potere nella realtà,
nell’attualità – che cosa più di questo orizzonte?). Di nuovo si impone la
questione: come uscirne? Come riconquistare un essere senza effettualità?
Che bell’enigma ci ha regalato Agamben! Ci sarebbe forse una via che Agamben
a questo punto potrebbe ancora percorrere.
È quella dello spinozismo, cioè una via nella quale la potenza si organizza
immediatamente come dispositivo di azione, dove violenza e piacere si
determinano nelle istituzioni della moltitudine e la capacità costituente
diviene sforzo di costruire, nella storia, libertà, giustizia e
comune. Agamben percepisce questa via d’uscita, perfettamente atea. La
coglie infatti nell’insultante rifiuto dell’ateismo di Spinoza che, in un
momento critico della modernità, Pufendorf e Leibniz dichiarano. Ma l’essere
che Agamben ci presenta è, per ora, talmente nero e piatto, l’immanenza così
indistinta, l’ateismo così poco materialista, il nihilismo talmente triste
che Spinoza davvero non può stare al gioco – pur considerando, egli,
superstizione ogni ideologia dello stato che non fosse prodotto della
moltitudine e, fondamento intransitivo di libertà, il corpo (i corpi della
moltitudine). Né Spinoza, d’altra parte, sta ad attendere che le
forme di vita dell’Occidente siano giunte alla loro consumazione storica
(rifiutando nel frattempo di agire perché la volontà non morderebbe
l’effettualità). Sa invece dare risposta alla domanda sull’agire, sulla
speranza, sul futuro. Il positivo che avanza Che cosa sono i Lumi? È questa
la domanda che attraversa, con la filosofia di Spinoza, quelle di
Machiavelli e di Marx – e che, nell’attualità, è stata ripresa da Foucault.
Contro il nazismo ontologico di Heidegger. In fondo, l’unico luogo del lungo
tragitto percorso da Agamben, nel quale la soglia ontologica di potenza
potrebbe essere raggiunta, è quando, spostando l’accento dalle forme
linguistiche dell’essere storico, la forma di vita si stacca non dal diritto
in astratto ma da quel diritto storicamente dato (cioè dal diritto di
proprietà), non dal comando in generale ma da quel comando che è della
produzione capitalistica e del suo Stato. Lavorare alla dissoluzione del
diritto di proprietà e della legge del capitalismo è l’unico nihilismo
operativo che gli uomini virtuosi proclamano e agiscono. Ma anche questa
ipotesi Agamben scarta, recentemente, in Altissima povertà.
Come finirà questa storia? C’è una questione che, a fronte di un discorso
come quello di Agamben, nuovamente si apre: potrà forse la forma – ovvero
l’azione o l’istituzione – salvarsi dalla distruzione di ogni contenuto
doveroso? Chi, a questo proposito, insiste su toni e negazioni anarchiche è
tanto irritante quanto chi pensa che la continuità dell’istituzione o
l’annullamento di ogni azione negativa rappresentino la condizione di un
radicale passaggio in avanti. Probabile è invece, contro questi estremismi,
che come in altre epoche rivoluzionarie anarchismo e comunismo, in forme
nuove, sempre di più, nelle lotte che attraversano il nostro secolo, stiano
riavvicinandosi. In ogni caso, la sola cosa certa è, spinozianamente, che
«l’uomo guidato da ragione è più libero nello Stato, dove vive secondo un
decreto comune, che nella solitudine dove obbedisce soltanto a se stesso».
il manifesto
Posted: Febbraio 18th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, epistemes & società | Commenti disabilitati su Agamben
Se la feroce religione del denaro divora il futuro
«Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire
come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà».
La Repubblica, 16 febbraio 2012
Per capire che cosa significa la parola “futuro”, bisogna prima capire che
cosa significa un´altra parola, che non siamo più abituati a usare se non
nella sfera religiosa: la parola “fede”. Senza fede o fiducia, non è
possibile futuro, c´è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa.
Già, ma che cos´è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza
delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava
appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli
apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza
di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri
cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza,
guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente
davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco di
credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da
mesi di capire: pistis, ” fede” è semplicemente il credito di cui godiamo
presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le
crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è
sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste
ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco
il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un futuro esiste nella
misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre
speranze.
Ma la nostra, si sa, è un´epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola
Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza
convinzione. Quindi un´epoca senza futuro e senza speranze – o di futuri
vuoti e di false speranze. Ma, in quest´epoca troppo vecchia per credere
veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne
è del nostro credito, che ne è del nostro futuro?
Perché, a ben guardare, c´è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno
del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis,
tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca – la trapeza tes
pisteos – è il suo tempio. Il denaro non è che un credito e su molte
banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non – chissà perché, forse
questo avrebbe dovuto insospettirci – sull´euro), c´è ancora scritto che la
banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito. La
cosiddetta “crisi” che stiamo attraversando – ma ciò che si chiama “crisi”,
questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il
capitalismo del nostro tempo – è cominciata con una serie sconsiderata di
operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine
di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole,
che il capitalismo finanziario – e le banche che ne sono l´organo principale
– funziona giocando sul credito – cioè sulla fede – degli uomini.
Ma ciò significa, anche, che l´ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale
il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che
sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla
lettera. La Banca – coi suoi grigi funzionari ed esperti – ha preso il posto
della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce
la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se
stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di
lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo
il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso
(persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro
sovranità). In questo modo, governando il credito, governa non solo il
mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più
corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è
perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto
il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica
resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene
che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi
tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle
varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è di smettere di
guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece
lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e
soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse,
ritrovare la propria libertà. L´archeologia – non la futurologia – è la sola
via di accesso al presente.
Giorgio Agamben