Posted: Gennaio 29th, 2017 | Author: agaragar | Filed under: philosophia | 78 Comments »
di ANTONIO GNOLI
Gli anni parigini con Italo Calvino, le lezioni di Heidegger e la Roma degli anni Sessanta. Parla lo studioso che ha saputo spaziare tra estetica e biopolitica
Giorgio Agamben: “Credo nel legame tra filosofia e poesia. Ho sempre amato la verità e la parola”
Giorgio Agamben ha scritto un bellissimo libro. I suoi libri sono sempre densi e tersi (e imprevedibili come quello dedicato recentemente a Pulcinella, edizioni Nottetempo). Hanno lo sguardo rivolto al passato remoto. È il solo modo per intensificare il presente. Prendete il suo ultimo lavoro Che cos’è la filosofia? (edito da Quodlibet), cosa nasconde una domanda apparentemente ovvia? “È mia convinzione” – dice Agamben – “che la filosofia non sia una disciplina, di cui sia possibile definire l’oggetto e i confini (come provò a fare Deleuze) o, come avviene nelle università, pretendere di tracciare la storia lineare e magari progressiva. La filosofia non è una sostanza, ma un’intensità che può di colpo animare qualunque ambito: l’arte, la religione, l’economia, la poesia, il desiderio, l’amore, persino la noia. Assomiglia più a qualcosa come il vento o le nuvole o una tempesta: come queste, si produce all’improvviso, scuote, trasforma e perfino distrugge il luogo in cui si è prodotta, ma altrettanto imprevedibilmente passa e scompare”.
Offri un’immagine volatile della filosofia.
“Ho l’abitudine di dividere l’ambito dell’esperienza in due grandi categorie: le sostanze da una parte e, dall’altra, l’intensità. Di una sostanza si possono disegnare i confini, definire i temi e l’oggetto, tracciare la cartografia; l’intensità invece non ha un luogo proprio”.
Può verificarsi ovunque?
“La filosofia, il pensiero è, in questo senso, un’intensità che può tendere, animare e percorrere ogni ambito. Essa condivide questo carattere tensivo con la politica. Anche la politica è un’intensità, anche la politica, contrariamente a quello che ritengono i politologi, non ha un luogo proprio: com’è evidente non soltanto nella storia recente, di colpo la religione, l’economia, perfino l’estetica possono acquisire una decisiva intensità politica, diventare occasione di inimicizia e di guerra. Va da sé che le intensità sono più interessanti delle sostanze. Se le sostanze e le discipline – come la vita, del resto – rimangono inerti, se non raggiungono una certa intensità, esse decadono a pratiche burocratiche”.
Un antidoto allo scadere nella pratica burocratica può essere la poesia. Tu hai spesso ribadito il legame tra filosofia e poesia. Che lo stesso Heidegger pose al centro della sua riflessione. In cosa consiste questo legame?
“Ho sempre pensato che filosofia e poesia non siano due sostanze separate, ma due intensità che tendono l’unico campo del linguaggio in due direzioni opposte: il puro senso e il puro suono. Non c’è poesia senza pensiero, così come non c’è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia. Se si dividono drasticamente i due campi, io stesso non saprei da che parte mettermi”.
Nella tua biografia intellettuale c’è una laurea in giurisprudenza, ma con una tesi piuttosto insolita dedicata a Simone Weil. Come è nata questa scelta?
“Scoprii Simone Weil a Parigi nel 1963 o ’64, comprando per caso la prima edizione dei Cahiers nella libreria Tschann a Montparnasse. Ne rimasi così abbagliato che appena tornato a Roma li feci leggere a Elsa Morante che ne fu conquistata. E immediatamente decisi che avrei dedicato al pensiero politico della Weil la mia tesi di laurea in filosofia del diritto. Allora in Italia il suo pensiero era quasi sconosciuto e io ne sapevo molto più dei relatori con cui dovevo laurearmi”.
Cosa ti colpì del suo pensiero?
“In modo particolare la critica delle nozioni di persona e di diritto che la Weil svolge in La personne et le sacré.
Fu a partire da questa critica che lessi il saggio di Marcel Mauss sulla nozione di persona e mi apparve chiaro il nesso che congiunge intimamente la persona giuridica e la maschera teatrale e poi teologica dell’individuo moderno. Forse la critica del diritto che non ho mai abbandonato a partire dal primo volume di Homo sacer, ha nel saggio della Weil la sua prima radice”.
Un’altra radice nella costruzione del tuo pensiero è stata Walter Benjamin.
“Ci sono nella vita degli eventi e degli incontri che sono troppo grandi per poter avvenire una volta per tutte. Essi, per così dire, non cessano di accompagnarci. L’incontro con Benjamin – come quello con Heidegger a Le Thor – sono di questo tipo. Come i teologi dicono che Dio continua a creare il mondo in ogni istante, così questi incontri sono sempre in corso. Il debito che ho con Benjamin è incalcolabile”.
Debito è una parola intensiva.
“Basti qui accennare solo a un problema di metodo. È lui che mi ha insegnato a estrarre a forza dal suo contesto storico apparentemente remoto un determinato fenomeno per restituirgli vita e farlo agire nel presente. Senza di questo, le mie incursioni in campi così diversi come la teologia e il diritto, la politica e la letteratura, non sarebbero state possibili. Quando si frequenta così intensamente un autore, si producono dei fenomeni che sembrano quasi magici, ma che sono solo il frutto di quell’intimità. Così mi è capitato per il ritrovamento di manoscritti di Benjamin, prima a Roma in casa di un suo amico di gioventù e poi nella Biblioteca Nazionale di Parigi (i manoscritti del libro su Baudelaire a cui Benjamin lavorava negli ultimi anni della sua vita)”.
Negli ultimi anni si è accentuato il tuo richiamo alla “biopolitica”. È un concetto che deve molto a Michel Foucault?
“Certamente. Ma altrettanto importante per me è stato il problema del metodo in Foucault, cioè l’archeologia. Sono convinto che la sola via di accesso al presente sia oggi l’indagine del passato, l’archeologia. A condizione di precisare, come fa Foucault, che le ricerche archeologiche non sono che l’ombra che l’interrogazione del presente proietta sul passato. Nel mio caso quest’ombra è spesso più lunga di quella che inseguiva Foucault e investe dei campi, come la teologia e il diritto, che Foucault ha poco frequentato. I risultati delle mie ricerche potranno certamente essere contestati, ma spero almeno che le indagini puramente archeologiche che ho svolto in Stato di eccezione, Il regno e la gloria o nel libro sul giuramento aiutino a capire il tempo in cui viviamo”.
Un altro pensatore che ha aiutato a capire il tempo in cui viviamo fu Guy Debord con il suo libro “La società dello spettacolo”, un testo che ancora oggi ci aiuta a comprendere il nostro presente.
“Lo lessi l’anno stesso della sua pubblicazione, il 1967. Con Guy diventammo amici molti anni dopo, alla fine degli anni Ottanta. Ma ricordo, sia al momento della prima lettura come nelle nostre conversazioni, il respiro di sollievo vedendo come la sua mente fosse assolutamente libera dai pregiudizi ideologici che avevano compromesso le sorti dei movimenti. Nel Sessantotto e negli anni successivi gli amici dei movimenti che frequentavo si proclamavano senza dubbi né vergogna e con un’assoluta abdicazione della facoltà di pensare, “maoisti” “trotskisti” e via dicendo. Io e Guy eravamo arrivati alla stessa lucidità, lui a partire dalla tradizione delle avanguardie artistiche da cui proveniva, io dalla poesia e dalla filosofia”.
Di sé Debord disse: “Non sono un filosofo, sono uno stratega”, secondo te cosa intendeva?
“Malgrado quell’affermazione che citi, non penso che ci fosse in lui alcun conflitto fra il filosofo e lo stratega. La filosofia implica sempre un problema di strategia perché, anche se cerca l’eterno, può farlo solo attraverso un confronto con il suo tempo”.
Negli anni in cui hai vissuto a Parigi vedevi spesso Italo Calvino. Come fu il rapporto con lui, con le sue geometrie illuminanti?
“Accanto al nome di Calvino, vorrei mettere quello di Claudio Rugafiori che, con Italo, vedevo spesso in quegli anni, perché lavoravamo insieme a un progetto di una rivista che non andò mai in porto. Il tentativo era di definire quelle che chiamavamo tra noi le “categorie italiane”, delle coppie di concetti attraverso le quali cercavamo di definire le strutture portanti della cultura italiana: “architettura/vaghezza”, “tragedia/ commedia”, “rapidità/leggerezza”, quest’ultima la si può ritrovare testualmente nelle Lezioni americane di Italo. Ero affascinato dal modo in cui lavoravano la mente di Italo e quella di Claudio”.
Cosa ti seduceva?
“Il fatto che fossero due forme di pensiero puramente analogico, che percepiva somiglianze e corrispondenze là dove nessun altro avrebbe saputo trovarle. L’analogia è una forma di conoscenza che la nostra cultura ha respinto sempre più ai margini. Quanto all’idea di un Calvino geometrico e scientista credo vada corretta. La sua era piuttosto una straordinaria forma di immaginazione analogica, una sorta di istinto fisiognomico che gli permetteva di ridisegnare ogni volta la geografia del sapere letterario”.
Accennavi all’inizio alla tua amicizia con Elsa Morante. Come fu il rapporto con una donna dal carattere così complesso?
“L’incontro e l’amicizia con Elsa sono stati per me in ogni senso decisivi. Una volta Calvino mi ha detto che era possibile frequentare Elsa solo all’interno di un culto. Era forse vero, ma a condizione di precisare che l’oggetto del culto non era Elsa, ma quegli dèi – da Rimbaud a Simone Weil, da Mozart a Spinoza – che essa riconosceva e amava condividere con gli amici. In questo Elsa era seria, selvaggiamente seria, e credo che abbia trasmesso al ragazzo che ero, un po’ di quella sua intransigente passione per la poesia e per la verità. E da allora che penso che non si possano tracciare confini chiari fra la letteratura e la filosofia “.
So che attraverso la Morante hai conosciuto Pasolini. Tra l’altro partecipasti in un ruolo piccolo ma bello al suo “Vangelo”.
Che ricordo hai di quell’esperienza sul set?
“Del Vangelo ricordo la velocità: Pasolini non faceva quasi mai ripetere una scena e ciascuno parlava e si muoveva come gli pareva. Credo che questo dia al suo cinema quella naturalezza che non pretende mai di essere realistica. La sola lunga pausa durante le riprese fu colpa mia: nell’Ultima Cena mi trovai davanti sul tavolo delle enormi pagnotte lievitate e dovetti ricordare a Pier Paolo che per la pasqua ebraica il pane doveva essere azzimo”.
Hai anche accennato ai tuoi rapporti con Heidegger e ai seminari che seguisti con lui a Le Thor nel 1966 e poi nel 1968. Cosa ti è restato di quegli incontri?
“L’incontro con Heidegger, come quello con Benjamin, non è mai finito. Nella mia memoria è inseparabile dal paesaggio della Provenza, allora ancora non toccato dal turismo. Il seminario aveva luogo la mattina, nel giardino del piccolo albergo che ci ospitava, ma a volte in una capanna durante una delle numerose escursioni nella campagna circostante. Il primo anno eravamo cinque in tutto, oltre al seminario c’erano i pasti in comune e io ne approfittavo per porre a Heidegger le domande che più mi interessavano, se aveva letto Kafka, se conosceva Benjamin. Ma questi sono solo aneddoti”.
Uno degli aspetti principali della tua ricerca è stata la filologia. In che modo l’hai praticata?
“La filologia è stata sempre parte essenziale della mia ricerca. E non solo perché mi è capitato di fare lavori filologici in senso tecnico – penso alla ricostruzione del libro di Benjamin su Baudelaire e all’edizione delle poesie postume di Caproni – ma perché filologia e filosofia, amore per la parola e amore per la verità non possono in alcun modo essere separati. La verità dimora nella lingua e un filosofo che non avesse cura di questa
dimora sarebbe un cattivo filosofo. I filosofi, come i poeti, sono innanzitutto i custodi della lingua e questo è un compito genuinamente politico, soprattutto in un’epoca, com’è la nostra, che cerca con ogni mezzo di confondere e falsificare il significato delle parole”.
Posted: Dicembre 29th, 2016 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, Deleuze, post-filosofia | Commenti disabilitati su Deleuze, il movimento reale del molteplice
di Giso Amendola
Tempi presenti. Il saggio «Gilles Deleuze» (DeriveApprodi) di Michael Hardt libera il campo dalla lettura neoliberista del filosofo francese. E svela la politicità dell’opera, considerandola come un nodo nella trama critica dello status quo
All’inizio degli anni Novanta, nel 1993, due anni prima della morte di Gilles Deleuze, Michael Hardt pubblica uno dei primi lavori monografici in lingua inglese dedicati al filosofo di Logica del senso e Differenza e ripetizione: oggi Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia torna disponibile grazie a DeriveApprodi e alla “neonata” collana Operaviva (l’edizione italiana è a cura di Girolamo De Michele, la traduzione è di Cecilia Savi).
Quando esce originariamente il libro di Hardt, la recezione di Deleuze nei paesi anglosassoni sta avvenendo a seguito di quell’ondata di interesse per il pensiero radicale continentale che ci avrebbe fatto parlare poi di una French Theory. Il libro di Michael Hardt ha davanti originariamente questo panorama: il poststrutturalismo è stato sì accolto nel panorama americano, ma è stato letto soprattutto come una sorta di più o meno ironica e disincantata critica del fondamento, un abbandono lineare e senza scosse della tradizione filosofica, senza che questo congedo riesca a sviluppare una reale potenza costruttiva e critica.
L’obiettivo dichiarato di Hardt è quello di ribaltare questa visione del poststrutturalismo: si tratta di rivendicare al poststrutturalismo la capacità di attraversare la modernità cercandone le “filiazioni alternative”, e di affrontare la questione del fondamento evitando di rimanere impigliati nella meditazione perpetua sulla sua eclissi.
Le tappe di un percorso
Oggi le carte in tavola sono cambiate: più che mirare a spegnere la sua forza critica edulacorandola, l’attacco al poststrutturalismo, e a Foucault e Deleuze in particolare, tende esplicitamente ad accusarlo per una sorta di complicità, più o meno consapevole, con lo stesso neoliberalismo. Il desiderio in Deleuze? Cedimento alle passioni “appropriative” del neoliberalismo. L’attenzione alle soggettività, alla pluralità, al divenire e alla trasformazione? Apologia, più o meno mascherata, dell’individualismo, del soggetto-impresa. Davanti a questa nuova, fastidiosa chiacchiera, la ripubblicazione del libro di Hardt è una boccata d’aria salubre, e, insieme, una sfida quasi provocatoria a tutti i discorsi sull’ambiguità politica del poststrutturalismo.
La lettura che Hardt offre di Deleuze, e più precisamente dei suoi primi grandi incontri filosofici con Bergson, Nietzsche e Spinoza, si separa infatti da qualsiasi concessione alle retoriche di un facile “postfondazionismo”: è anzi una rivendicazione fortissima del nesso tra ontologia, etica e politica nel discorso deleuziano. La forza di queste pagine, oggi forse ancor meglio apprezzabile, è mostrare come il poststrutturalismo, per quanto ci si affanni a mostrarlo come un astruso gioco culturale, se non “culturalista”, sia in realtà ben impiantato nel campo della produzione: produzione dell’essere, della soggettività, e infine dell’organizzazione.
Prima stazione del percorso: la questione ontologica. Questione spinosa, a cominciare dallo stesso uso del termine “ontologia”. Perché – ed Hardt ne è perfettamente consapevole – la tradizione filosofica ha operato un vero e proprio sequestro del discorso ontologico. La ripresa dell’ontologia nel Novecento richiama immediatamente la concezione della differenza in Heidegger, tutta nel segno del sottrarsi dell’essere, del ritirarsi del fondamento: non a caso, è ontologia frequentata da tutte le meditazioni sull’eclissi dell’essere, di indole sia tragica che ironica, che popolano il postmoderno.
Di ontologia in Deleuze, invece, si può parlare a buon diritto proprio in quanto la si installa all’interno di tutt’altra tradizione: quella affermativa e positiva che legge la differenza come produzione interna dell’essere, e immanente all’essere stesso. La differenza non “cade” dall’essere, non lo nasconde, non lo cancella, come avviene nell’emanazionismo di marca neoplatonica: la differenza non è destinata ad errare nel mondo delle ombre. Hegel imputava una concezione di questo tipo, dove l’essere fa impallidire ogni differenza, proprio a Spinoza: Deleuze invece ricolloca l’ontologia spinoziana al posto che le pertiene, all’interno di una concezione, che il filosofo francese chiarisce già nei suoi primi scritti su Bergson, secondo la quale la differenza, anzi le differenze, sono movimento dell’essere, non distanza e caduta dall’essere e suo infinito consumarsi.
Ma ancor più che contro la “differenza ontologica” di Heidegger, l’ontologia deleuziana ha come suo nemico principale la dialettica hegeliana. Per Hegel, la differenza non può che essere concepita come determinazione: a sua volta, la determinazione è un movimento di negazione. Ci si determina negando attivamente l’indifferenziato, l’indeterminato, in ultima analisi negando quel nulla che coincide con la purezza astratta dell’essere.
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Oltre Hegel
È, per l’appunto, l’attacco fondamentale di Hegel a Spinoza, poi ripetuto da tutti coloro che vedranno nell’idea dell’essere produttivo sempre una minaccia dell’informe, del caotico, del mancante di differenziazione. La replica di Deleuze è molto decisa: la determinazione come atto di negazione non fa altro che introdurre una dimensione radicalmente esterna al movimento dell’essere. La negazione fa dipendere la determinazione da una causa esterna: l’essere che si determina negandosi è un essere eternamente dipendente, sempre bisognoso di qualcos’altro.
Hardt richiama giustamente l’attenzione sull’importanza che ha il concetto di causa efficiente nell’ontologia deleuziana: la causa necessaria, non contingente, non è mai la causa materiale, cui guardano tutti i materialisti ingenui, che interviene in modo del tutto contingente, e neppure la causa finale, amata dai platonici, che pone l’ordine come fine trascendente: l’unico concetto di causa che può muovere un materialismo fondato sulla potenza produttiva dell’essere, è la causa efficiente, la causa sui degli scolastici.
L’effetto non cade mai al di fuori della causa, e, allo stesso modo, la differenza è sempre produzione interna del movimento dell’essere: l’essere non manca di nulla. Non opposita, sed diversa: non la determinazione per opposizione e negazione, ma l’essere come matrice di produzione di differenze.
Superamento del negativo
Questa opposizione netta all’idea di determinazione per negazione da un lato segna tutta l’ontologia produttiva deleuziana, dall’altro apre alla sua portata etica affermativa. Ci sono nel testo di Hardt alcune pagine bellissime, sulla dialettica servo-padrone, che chiariscono come la scelta deleuziana per il movimento positivo della differenza, contro la determinazione attraverso il negativo, ci porti nel cuore di scelte etico-politiche fondamentali.
Cosa significa, concretamente, immaginare la differenza come negazione? Significa per esempio, che il servo hegeliano sceglie di determinarsi, di fronte all’assoluto indeterminato che è la morte, rivolgendo la propria forza contro se stesso, realizzando la propria autocoscienza attraverso l’educazione al lavoro. Nei termini di Nietzsche, si tratta di una triste e infelice etica del risentimento contro la propria stessa potenza. In termini hegeliani, è attraverso il negativo, tenendo a freno il desiderio, che lo schiavo conquista la sua essenza.
Hardt ricorda qui l’Alfonso voce narrante e protagonista del Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, il giovane migrante meridionale nelle fabbriche del Nord Italia degli anni Sessanta e Settanta: “mai mi è venuto in mente di festeggiare il lavoro”, dice Alfonso, quelli che individuavano pane e lavoro come propria essenza erano irrecuperabili. Primo movimento: distruggere l’idea che ci si determini nel trattenimento, in un dirigersi della propria forza contro se stessi. Appunto, distruggere l’idea che “ogni determinazione è negazione”.
Contemporaneamente, si apre il secondo movimento: la distruzione del negativo diventa scoperta felice che quella esigenza di lotta, di liberazione della propria forza, è esigenza condivisa negli incontri: “la gioia di essere finalmente forti. Di scoprire che ste esigenze che avevano sta lotta che facevano erano le esigenze di tutti era la lotta di tutti”, sempre per dirla con le parole di Alfonso.
L’incontro con Spinoza
Non si potrebbe indicare meglio che con questa gioia di operai irriducibili al lavoro che scoprono la pars construens della loro lotta, il passaggio dall’ontologia all’etica: dall’essere come produzione, all’essere come producibile, per dirla con Hardt. L’affermazione ontologica dell’essere come produzione immanente, causa sui, distrugge l’alterità del fondamento, la sua lontananza, e contemporaneamente, afferma l’essere stesso come il risultato, sempre aperto, di un processo di produzione da parte delle differenze.
Hardt, indagando soprattutto l’incontro di Deleuze con Spinoza, aiuta qui a fare piazza pulita di un altro ritornello, spesso recitato dai custodi del “negativo”: quello per cui questa visione dell’essere come produzione ci consegnerebbe a una sorta di beatitudine statica, a un ottimismo metafisico paradossalmente impotente. Il punto è che l’ontologia della produttività dell’essere ci apre sì a un essere “mobile e malleabile”, dinamico e produttivo: ma, allo stesso tempo, ricorda Hardt “alla potenza di esistere e di agire corrisponde la potenza di essere affetto”.
Deleuze trova specialmente in Spinoza questa congiunzione tra produzione e affezione: affezioni attive, che corrispondono all’essere causa di noi stessi, adeguati alla nostra potenza attiva d’essere e produrre, ma anche affezioni passive, da cause esterne, dove la potenza non coincide con la propria causa. E questo incrocio materialistico di produzione e affezione apre tutto il gioco degli incontri, felici o infelici, delle variazioni della potenza, del suo accrescersi in combinazioni che corrispondono felicemente alla struttura dei corpi, come del suo andare a male negli incontri inappropriati. L’essere non solo non è il fondamento che, immoto, ci sostiene, non solo è il processo sempre aperto che ci produce ma è, al tempo stesso, anche il prodotto della nostra capacità, sempre reversibile, di trasformarci attraverso affetti e passioni.
La politicità riscoperta
Da questa etica della produzione della soggettività, ontologicamente impiantata, si genera una politica degli assemblaggi e della sperimentazione di organizzazione, a partire dal piano sempre aperto della trasformazione sociale. Alla determinazione attraverso il negativo corrisponde l’idea di un Ordine che si impone sempre come causa esterna su un molteplice, letto inevitabilmente come campo del mancante e del carente, bisognoso dei suoi pastori: l’ontologia produttiva apre invece lo spazio di una politica che certo “benedice” il molteplice e la pluralità, ma che non per questo ignora il nemico, le sanguisughe che separano continuamente la potenza dalla sua causa, che provano a recintarla attraverso le “strutture verticali dell’ordine”.
Un campo aperto: e certo aperto resta completamente il tema, intensamente politico, dell’organizzazione e della costituzione, in altri termini il problema di come evitare che questa incessante produttività della società si affermi solo in un campo d’orizzontalità liscio, senza riuscire a darsi consistenza e durata. Molti materiali, nel lavoro remoto e recente sulla politica deleuziana, possono approfondire concetti fondamentali come, per esempio, quello di istituzione: pensiamo per esempio, alle ricerche che sull’istituzione in Deleuze ha condotto negli anni Ubaldo Fadini, nel segno di uno sviluppo originale del tema della “positività” in Deleuze, o a tutto il dibattito recente sulla giurisprudenza in Deleuze come modello alternativo alle concezioni legalistiche del diritto (ne è un esempio un libro di De Sutter su Deleuze e il diritto di qualche anno fa).
Intanto, questo solido materialismo radicato nella produzione/produttività dell’essere può lottare contro il neoliberalismo strappandogli il vero segreto della sua potenza: l’infamia con cui traduce nel linguaggio della proprietà e della valorizzazione capitalista la forza dell’autonomia della cooperazione sociale, del pluralismo e dell’autorganizzazione. Altro che alleati del neoliberalismo: questi poststrutturalisti che scansano felicemente il negativo e benedicono il molteplice sono quelli che insegnano come affrontare il nemico senza attestarsi su posizioni reattive o nostalgiche, come non lasciare ai neoliberali la forza di un sociale capace di affermazione e di trasformazione.