Pina
Posted: Novembre 20th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: arts, au-delà | Commenti disabilitati su Pinahttp://www.youtube.com/watch?v=SFF8XHmOccg&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=SFF8XHmOccg&feature=related
Étienne Balibar: Se l’Europa fosse un contropotere
Se l’Europa fosse un contropotere
“La risposta alla crisi da parte delle élite europee e dei mercati è l’instaurazione di uno stato d’eccezione incentrato su una «dittatura commissaria”
Intervista a Étienne Balibar
a cura di Benedetto Vecchi
da il manifesto, 19 nov. 2011
La provocazione arriva a metà del seminario tenuto all’Università di Bologna. «Quello che sta accadendo in Europa può essere considerato la messa in forma di un nuovo modello di governo politico. Stiamo cioè assistendo al rilancio del processo di unificazione politica dopo la battuta d’arresto successiva ai referendum francese, olandese e irlandese, che misero in evidenza il diffuso dissenso al processo avviato dai tecnocrati di Bruxelles.
Per una “scienza” del comune
Il cambio di governo, annunciato in Italia nel segno della “discontinuità” rispetto al potere corrotto di Berlusconi e soci, rende evidente l’approfondirsi della crisi.
Sappiamo infatti che non esistono governi-di-tecnici e che l’escamotage di varare per via isituzionale le politiche “lacrime e sangue”, volute dalla BCE e dai mercati, serve a mantenere il potere di ricatto dell’ Europa monetaria sul “99 per cento” delle popolazioni.
Ogni governo infatti è politico e le politiche neoliberiste, fallite globalmente, sono ora riproposte “localmente”, anzitutto nella zona Euro, a partire dalla Grecia, e imposte per via costituzionale anche in Italia, ove l’indignazione e la rabbia sociale salgono e si diffondono.
Cosa differenzia la fase attuale di “impegno per il risanamento” dalla recente débacle della globalizzazione? Il fatto che è definitivamente caduta la mediazione politica su cui la rendita, la finanza e la speculazione, cioè il capitale, potevano contare per dirigere i tagli al welfare ed estendere la precarietà. Il passaggio da un comando formale della finanza sull’insieme del lavoro produttivo ad un comando reale, avviene infatti nel segno della governance, cioè dell’amministrazione “tecnica” dell’economia, che attua la trasformazione della costituzione materiale di un paese. Le condizioni in cui si attua questa trasformazione sono definite dalla crisi finanziaria, che è crisi del debito, nella forma del debito pubblico, cioè della ricchezza sociale sottratta all’insieme della popolazione e che in questi anni ha alimentato la rendita.
Come si può dunque gioire per la “discontinuità”, comunque necessaria, e non vedere come la sospensione “tecnica” della politica, non è politica fatta con altri mezzi?
Un governo “tecnico” o istituzionale che sia dunque, deve rimetter mano ai conti pubblici nella forma più politica: saltando la negoziazione sociale e parlmentare e attuando direttamente le misure di “sacrificio” e deve poggiare sui due pilastri della produzione di ricchezza: la formazione e il mercato del lavoro.
Non a caso Monti ha elogiato i due provvedimenti più drastici e miserabili: la riforma Gelmini dell’istruzione e il “modello” Marchionne, che toglie diritti ed estende la precarietà. E non a caso negli ultimi anni proprio Università, istruzione e lavoro sono stati quei segmenti di ciò che residua della sfera pubblica che si sono sottrarsi alla logica d’impresa e alla privatizzazione.
In questa situazione l’Italia diviene il “laboratorio della crisi”, in cui si sperimenta, con la dissolvenza della rappresentanza politica formale (governo e parlamento), sostituìta dalla governamentalità dell’economia, il dominio diretto delle vite delle genti.
E’ questo il tunnel che attraversiamo, realizzato in pochi mesi con un’accelerazione della crisi che ha visto la lettera della BCE divenire immediatamente programma di governo, e la rappresentanza “bipartizan” polverizzarsi in nome della salvezza nazionale.
D’altra parte il vuoto ormai decennale della politica rappresentativa dev’essere colmato in fretta da una sovranità senza nome, nel momento in cui il conflitto sociale diviene globale e i movimenti indignati, studenteschi, operai e precari occupano la scena cercando di riappropriarsi del comune, soggetto a sfruttamento.
Per questo il pericolo di di una “rivoluzione mondiale” a cui fanno segno il sacrosanto diritto al default e il diritto all’insolvenza dev’essere rimpiazzato da una norma sovrana, in uno stato d’eccezione permanente fatto di repressione, interdizione della piazza, criminalizzazione dei conflitti.
Per questo allora è necessario affinare alcuni strumenti di analisi e alcune pratiche che indicano i limiti e il campo di attuazione di quelle che possiamo chiamare come “tecnicalità alternative”, da opporre alle tecniche di sfruttamento e subordinazione. Si tratta insomma della costruzione di una “scienza” autonoma delle figure del sapere e della precarietà in grado di profilare soggettività indipendenti, a partire dai bisogni singolari.
L’inchiesta, l’autoformazione e la pratica dell’autoproduzione, costituiscono oggi tre basilari forme di riappropriazione del comune che possono essere praticate per dare spessore a rivendicazioni e contribuire a realizzare una democrazia dal basso.
L’ inchiesta è lo strumento principale con cui una soggettività inizia a sapere e a manifestarsi. Si tratta di una prassi di tematizzazione delle istanze, delle motivazioni e delle scelte di un gruppo, una soggettività, un collettivo, in rapporto ad un territorio, ad una situazione, ad una stratificazione sociale. Praticamente l’inchiesta serve per porre questioni intorno ai contenuti e i limiti di una prassi collettiva: quale è la funzione dei conflitti nel far emergere rivendicazioni e istanze di liberazione e quali pratiche adottare?
NON si tratta di una ricerca statistica di tipo sociologico, bensì di una forma estesa e multipla di autonarrazione di comportamenti e relazioni. Inchiestare la precarietà oggi, in tutte le forme, comprese quelle nel campo dell’arte e della cultura, è uno dei compiti principali di una soggettività indignata e antagonista. E’ uno strumento che, attraverso questionari, discussioni e confronti tra chi è “dentro” una comunità e chi l’attraversa, implementa la consapevolezza per le possibilità di intervento.
L’inchiesta realizza autonomia, nel senso che forma un pensiero che proviene dalla soggettività e in tal modo costituisce un profilo di essa, come parte di uno spazio più esteso.
L’autoformazione è la forma della narrazione e della costituzione di un sapere di un collettivo. E’ un lavoro di lunga durata nel senso che, in forme molteplici, seminariali, di incontri, mette a tema determinati argomenti: la crisi economica, la valorizzazione dei saperi, l’appropriazione di reddito, la cultura indipendente, la società dello spettacolo, etc… secondo l’interesse e il campo di intervento funzionali ai luoghi e a i territori in cui vive e che occupa quotidianamente.
L’autoformazione è il modo più diretto per realizzare una “scienza” dal basso, una prospettiva teorica, ed è l’impiego di una serie di strumenti (dalla scrittura, all’oralità, al multimedia), con cui raccontare il mondo e raccontarsi. Le forme narrative e discorsive possono costituire reali percorsi di indipendenza che, coniugati con l’autonomia di pratiche, realizzano un sapere fuori dai luoghi istituzionali di produzione e mercificazione.
L’autoproduzione è la pratica vera del mutamento radicale del modello di sviluppo predatorio e parassitario del capitale. Infatti è la principale dinamica sistemica, come produzione di vita in senso biologico e riproduzione delle condizioni materiali della vita, condizioni che pertengono a ciascuna natura umana. L’autoproduzione è immanente alla singolarità delle produzioni: dalla produzione di sé alla cooperazione, dalle arti alle tecnologie…
L’insieme delle attività umane costituisce dunque il punto di caduta dell’autonomia e dell’indipendenza, cioè il momento di precipitazione di inchiesta e autoformazione. E’ una pratica politica, attiva oggi soprattutto per battere la logica proprietaria dei brevetti, del copyright e la valorizzazione capitalistica dei saperi, della cultura e dell’informazione. Fare autoproduzione signfica quindi abitare uno spazio, un territorio, un desiderio. La realizzazione di un nuovo welfare, dall’occupazione di case e spazi all’azionariato popolare, all’impresa sociale, all’autorecupero e riuso, sono momenti di espressione del general intellect su cui oggi si decide la partita dell’autorganizzazione, partita che non giocano più solo i poteri e i contropoteri, bensì i mercati e i singoli esseri umani.
Paolo B. Vernaglione
Laboratorio Filosofico “SofiaRoney.org”
par Sadri Khiari
L’Assemblée nationale constituante a été élue [1]. Sa première réunion aura lieu le 22 novembre. Sans conteste, le parti Ennahdha est sorti victorieux du scrutin. Les résultats du vote ont cependant réservé de nombreuses surprises. Bien que la victoire des candidats du parti Ennahdha était attendue, celui-ci a réalisé un score bien plus important que prévu avec 1 500 000 voix. Il obtient donc 89 sièges (41%) sur les 217 que compte l’Assemblée constituante. Souligner, comme le font certains, que 60% des électeurs n’ont pas voté pour Ennahdha mais pour les 27 listes qui ont eu des sièges à l’Assemblée constituante n’a pas grand sens dans la mesure où cela signifierait que, malgré leurs divergences, ces dernières auraient plus de choses en commun entre elles qu’avec Ennahdha – une façon comme une autre de sous-entendre que le clivage principal qui traverse la société tunisienne est celui qui oppose « modernistes » et « islamistes ».
VIES ET MORT DU CAPITALISME
par Robert Kurz
Chroniques de la crise
Traduit de l’allemand par Olivier Galtier, Wolfgang Kukulies & Luc Mercier
Le philosophe allemand Robert Kurz, principal théoricien de la critique de la valeur en Europe, propose ici son analyse de la crise financière mondiale de 2008. Selon lui, avec la troisième révolution industrielle (la microélectronique), le capitalisme atteint sa limite interne absolue. C’est à cette limite que les divers épisodes de la présente crise doivent être rapportés pour devenir intelligibles.
Le philosophe allemand Robert Kurz est le principal théoricien de la « critique de la valeur » en Europe. Rédigées avant, pendant et après la crise financière mondiale de septembre 2008, les analyses ici réunies font apparaître que depuis l’avènement de la troisième révolution industrielle (microélectronique), les recettes politiques traditionnelles de la gauche, fondées sur une lecture « classique » de Marx, ont perdu toute efficience. Dans un monde financiarisé à l’extrême, les salariés ne représentent en effet plus qu’une variable d’ajustement d’importance relativement négligeable. La finance mondiale associée à la libre fluctuation des marchés, dont l’épisode des subprimes a récemment mis au jour l’absurdité et dont les effets ont été désastreux, n’est plus fondée en valeur d’aucune manière. Exiger le maintien des emplois existants, par exemple, tout en fustigeant les « excès » d’une finance mondiale dérégulée, c’est se rendre nostalgique d’une vision fordiste éculée, datant d’un temps où la « valeur » s’articulait encore à la production réelle, et où la monnaie mondiale (le dollar) était convertible en or. Plus grave, c’est exposer la gauche au risque de passer pour une instance de conservation davantage que d’émancipation.
La critique de Robert Kurz s’appuie sur une lecture renouvelée des thèses tardives de Marx ayant trait à la question de la valeur. Elle montre précisément de quelle façon le capitalisme aurait atteint sa « limite interne ». Mais si, comme l’affirme Anselm Jappe dans Crédit à mort, « Le capitalisme fait beaucoup plus contre lui-même que ce que tous ses adversaires réunis ont pu faire », il n’en reste pas moins, selon Robert Kurz, que sa chute ne pourra résulter que d’une mise en cause théorique radicale. En dépit de son profond délabrement et des crises de gravité croissante qu’il engendre, le capitalisme ne pourra en effet être mis à bas par la lutte de classes clairement identifiées (analyse classique ayant fait long feu), pas plus que par les tenants d’un « bien-être de frugalité » fondé sur le concept de « décroissance » ou encore par les chantres d’une prétendue « économie solidaire ».
Pour Robert Kurz, il est urgent de mener une critique théorique catégorielle du capitalisme afin de contester la validité de ses éléments structuraux : le travail abstrait, la marchandise, l’argent et l’État. « Le capitalisme n’est rien d’autre que l’accumulation d’argent comme fin en soi, et la substance de cet argent réside dans l’utilisation toujours croissante de force de travail humaine. Mais, en même temps, la concurrence entraîne une augmentation de la productivité qui rend cette force de travail de plus en plus superflue. En dépit de toutes les crises, cette contradiction interne semblait toujours surmontée via la régénération de l’absorption massive de force de travail par de nouvelles industries. Le « miracle économique » d’après 1945 a fait de cette capacité du capitalisme un credo. Or, depuis les années 1980, la troisième révolution industrielle a entraîné un nouveau niveau de rationalisation qui a lui-même entraîné une dévalorisation de la force de travail dans des proportions encore jamais vues. La substance réelle de la valorisation du capital se dissout, sans que de nouvelles industries capables d’engendrer une véritable croissance aient vu le jour. La phase néolibérale n’a été que la tentative, d’une part, de gérer de façon répressive la crise sociale découlant de cet état de fait et, d’autre part, de créer une croissance sans substance du capital fictif par l’expansion effrénée du crédit, de l’endettement et des bulles financières sur les marchés financiers et immobiliers. »
Oltre il welfare verso il commonfare: dalla ri/produzione sociale alla rendita sociale
Convegno Internazionale UniNomade – Milano 3-4 dicembre 2011
Il seminario intende analizzare come i sistemi di welfare attuali siano solo in parte adeguati a far fronte ai cambiamenti sociali ed economici che hanno caratterizzato il processo di accumulazione e valorizzazione contemporaneo, alla luce, e sulla base, delle soggettività che oggi definiscono il mercato del lavoro.
Il seminario è articolato in tre sezioni, tra sabato 3 dicembre e domenica 4 dicembre.
Le prime due sessioni hanno come oggetto la discussione del concetto di welfare del comune. L’ipotesi di partenza è che il welfare del comune (che va oltre il welfare pubblico e va oltre il workfare) si fondi sui due pilastri principali della garanzia di reddito e dell’accesso ai beni comuni come strumenti per favorire la riappropriazione sociale e la distribuzione più equa della rendita socialmente prodotta. La terza si propone di riflettere sul tema della governance dei beni comuni e di quali strumenti e proposizioni sia necessario attuare per immaginare una gestione degli stessi.
Prima sessione:
Analisi del rapporto “comune”, moneta, ricchezza: sabato 3 dicembre: h. 10.30-13.00
Presso: Unione femminile nazionale- Corso di Porta Nuova, 32 – Milano (Mezzi pubblici: Metrò – linea verde: Moscova – linea gialla: Turati – Autobus – 43, 94 – Tram – 29, 30, 33, 11, 1, 2 – http://www.unionefemminile.it/raggiungerci.php)
Programma:
Introduce: Andrea Fumagalli
Relazioni di Michael Hardt e Guy Standing (30 minuti per intervento)
Dibattito con interventi programmati di Marco Silvestri (Il diritto all’insolvenza) e Christian Marazzi (Moneta o reddito come bene comune)
Seconda sessione:
Analisi del rapporto “comune” /pubblico, “comune”/famiglia: sabato 3 dicembre, h. 15.00-19.00
Presso: Unione femminile nazionale – Corso di Porta Nuova, 32 – Milano (Mezzi pubblici: Metrò – linea verde: Moscova – linea gialla: Turati – Autobus – 43, 94 – Tram – 29, 30, 33, 11, 1, 2 – http://www.unionefemminile.it/raggiungerci.php)
Programma
Introduce: Cristina Morini
Relazioni di Carlo Vercellone e Montserrat Galceran (30 minuti per intervento)
h. 16.30 – h. 17.30
Lavoro di discussione in due workshop distinti sui temi:
1.Territorio: esperienze No-Tav e No-Expo di Milano
2. Trasporto: esperienza del ticket crossing di Genova e delle battaglie sui treni regionali nell’hinterland milanese
3. Casa: esperienze di lotta sulla casa esempio, a Milano. Le forme di riappropriazione nel quartiere San Siro.
4.Esperienze di autogestione dei corsi universitari: riappropriazione del sapere.
5.Lavoro di cura e riproduzione: esperienze di gestione del rapporto “comune” – famiglia
6.Sanità: esperienze di gestione e relazione con i degenti
7.Comunità migranti: nuovi modelli possibili di mutuo soccorso
Ore 17.30 -19.00 Relazione sui workshop e dibattito
Terza sessione:
Analisi del rapporto “comune” /istituzioni: domenica 4 dicembre, h. 10.30 – 13-30.
Presso: Circolo Arci Bellezza- Via Bellezza, 16 – Milano (Mezzi pubblici: Autobus 90-91 – Tram – 9, 24. Metrò- linea gialla: Porta Romana)
Programma
Introduce: Sandro Mezzadra
Relazioni di Ugo Mattei e Toni Negri (30 minuti per intervento)
Dibattito conclusivo
di Valerio Evangelisti
[Quanto sto per esporre rappresenta il mio pensiero. Non è il frutto di un dibattito all’interno di Carmilla, in cui possono convivere punti di vista differenti.]
Le vecchie formule marxiane vanno riviste. Secondo Marx, è noto, si passava storicamente dalla formula originaria M-D-M (merce – denaro – merce) a D-M-D (denaro-merce-denaro). Non ipotizzava che si potesse giungere alla formula attualmente vigente: D-D (denaro-denaro).
Eppure è a questo che siamo. Si parla di crisi dovuta al debito. Debito di chi e verso chi? Tutti i paesi più sviluppati sono indebitati l’uno con l’altro. Attraverso le banche, e soprattutto le banche centrali. Questo non significa che la “crisi” delle loro popolazioni somigli a quella degli africani oppressi dalla siccità, degli asiatici costretti allo schiavismo lavorativo, dei sudamericani condannati a una miseria ancestrale. Ogni passo verso quei “modelli” deriva, più che dalla crisi finanziaria, dai mezzi messi in campo per uscirne.
di Franco Berardi “Bifo”
In piazza del Quirinale la sera del 12 novembre una folla grida a
perdifiato: “Galera galera”.
E’ il popolo italiano, che vuoi farci. Feroce con i tiranni che paiono
scivolare giù dal piedistallo, dopo averli adorati quando erano trionfanti.
Ma questa volta il branco non è solo feroce, è anche stupido.
Credono che Berlusconi esca di scena, ma la verità è che stiamo assistendo
al capolavoro finale di Berlusconi, che lui lo sappia o no, che lui abbia o
meno l’energia e l’intelligenza per portare fino alla conclusione la sua
avventura anarco-autoritaria. Se il povero vecchio mammasantissima non
reggesse all’emozione e al cardiopalma ci sarà qualcuno che prenderà il suo
posto, più giovane e più freddo, per condurre in tragedia quella che finora
a ieri è stata una farsa costosa e pericolosa. Ricapitoliamo i fatti, per
dissipare la nebbia auto-consolatoria scalfariana.
La Banca Centrale Europea ha mandato una lettera-diktat, anzi più d’una.
Con l’arroganza del proprietario che esige obbedienza assoluta dai sudditi,
chiede di rinunciare ai diritti sindacali, impone un rinvio dell’età
pensionabile, esige la privatizzazione dei beni pubblici. Obbedienza
assoluta all’indiscutibile forza dei numeri.
Berlusconi ha ricevuto la lettera della Banca Centrale Europea e ne ha
fatto il suo programma. Ma avendo altro cui pensare, si è presto reso conto
di non aver la forza per applicarlo. Ha quindi passato la mano allo zelante
Napolitano e agli storditi faccendieri del centrosinistra. Hanno convocato
un consulente della Goldman Sachs, un ragioniere della classe finanziaria
di nome Mario Monti e l’hanno fatto santo. Suo compito è applicare il
programma di Berlusconi con ferocia bocconiana.
Può darsi che il vanesio cavaliere non si renda conto ancora a pieno del
suo trionfo, ma Bossi l’ha capito subito: Opposizione è bello. Ci
rifacciamo la verginità e guidiamo il popolo contro la plutocrazia. E la
voce della verità, l’innocente Scilipoti ha già cominciato ad attaccare la
congiura giudeo-massonica. Scilipoti non usa queste parole difficili, ma il
suo intervento alla Camera del 12 novembre è tutt’altro che stupido: mentre
il governo Monti si affannerà a eseguire il programma che noi gli abbiamo
lasciato in eredità, noi scateniamo la furia populista del nazionalismo
antieuropeo. L’esercito di mafia, l’esercito razzista del nord, l’esercito
dell’evasione fiscale e dell’abusivismo edilizio si preparano a
dissotterrare l’ascia di guerra, che hanno seppellito negli ultimi quindici
anni per la semplice ragione che avevano nelle mani le leve del governo.
Mentre i probi esattori fiscali della Goldman Sachs taglieggiano e
privatizzano la società italiana, Berlusconi e Bossi si ripresenteranno
alla testa di un’armata populista antieuropea.
E’ l’uovo del serpente, quello che stanno covando i probi consulenti della
Goldman Sachs.
Nel 1992 il padronato italiano usò la crisi finanziaria e il crollo della
prima Repubblica come occasione per attaccare l’organizzazione operaia e
per imporre un modello di rappresentanza politica maggioritaria che
favorisse la governabilità, cioè riducesse la democrazia e accelerasse i
processi di privatizzazione e razionalizzazione capitalista. Una banda di
onesti cretini si impadronì della scena per un po’ (chi si ricorda più di
Mario Segni?).
Da quella fase di moralizzazione e razionalizzazione è venuto fuori
Berlusconi.
Bravi, ottimo risultato. Negli anni ’80 Veltroni aveva detto di lui che era
un uomo di sinistra.
Dopo la crisi del governo Berlusconi del 1994. quando era al governo e
avrebbe dovuto colpire il monopolio di mafia della comunicazione, il
centro-sinistra si accordò con lui per “non toccare le sue televisioni”,
cioè per accettare con un accordo mafioso il regime di illegalità in cui
Mediaset era nato e cresciuto (come rivela una successiva dichiarazione di
Violante alla Camera).
Adesso si parla di crisi della Seconda Repubblica: è l’occasione per
distruggere quel che resta della democrazia e soprattutto per sottomettere
compiutamente la società all’azione predatoria della finanza.
Ci riusciranno?
Io credo di no. L’effetto della devastazione e del cinismo della classe
dominante è questo: hanno rimesso in moto una dinamica sociale che da oltre
venti anni era stata congelata, paralizzata, disgregata, polverizzata. Il
corpo collettivo della società ha ricominciato a muoversi.
L’11 11 11 ha segnato l’inizio di un esorcismo di massa contro la
depressione e contro l’isolamento: l’esistenza precaria si fa gioia frugale
di corpi che si accarezzano, e si connette al lavoro cognitivo: studenti,
ricercatori, insegnanti, tecnici, medici, ingegneri e poeti, fino ai
programmatori del software proprietario e finanziario che presto
inizieranno dall’interno il lavoro di sabotaggio.
Le occupazioni nei prossimi mesi prolifereranno, diverranno luoghi di
aggregazione di un precariato diffuso che ha bisogno di riconoscersi,
organizzarsi, e iniziare il processo di appropriazione della ricchezza che
ci è stata sottratta.
Le occupazioni organizzeranno l’insolvenza che non è soltanto l’azione
puntuale del non pagare il debito finanziario, ma è, più generalmente, il
processo di disincagliamento della potenza sociale dal debito semiotico che
si incorpora nelle tecnologie di controllo.
Insolvenza significa rifiuto di subire e riconoscersi nella semiotizzazione
finanziaria del mondo, significa sperimentazione di altre semiotiche, di
altre forme di organizzazione del territorio, della produzione, della vita
quotidiana.
Insolvenza significa costruzione delle strutture della sopravvivenza
(ristoranti popolari, case collettive, strutture di autoformazione) che ci
permetteranno di sottrarci al debito materiale della miseria e al debito
simbolico della solitudine, insomma ci permetteranno di cominciare a vivere.
Qualcuno dirà che si tratta di azioni illegali, come il sergente Merola,
bolognese, un tempo assessore all’Urbanistica del fascista Cofferati e
attualmente sindaco. Di che legalità sta parlando? Forse quella della
proprietà assenteista e speculativa che lascia migliaia di abitazioni vuote
e centinaia di sale pubbliche inutilizzate, mentre la gente non ha posto in
cui dormire, e non ha spazi in cui riunirsi studiare parlare e decidere. E’
una legge che gli insolventi non riconoscono.
E l’insolvenza è destinata a dilagare.
Oltre il 15 ottobre: il nodo dell’autonomia dei movimenti
di BENEDETTO VECCHI
Uno scontro di piazza, un’aggressione a un corteo che esprimeva un movimento dalle grandi possibilità; un’occasione persa. La prima è un’espressione che non aggiunge nulla a quanto già noto. La seconda interpretazione, invece, attinge al bagaglio retorico del perbenismo che domina la retorica della sinistra politica da oltre venti anni, cioè da quando la controrivoluzione liberale ha incontrato sulla sua strada movimenti sociali non sempre compatibili con il verbo del libero mercato. La terza spiegazione scivola via dalle labbra di qualche navigato frequentatore dei cortei. Eppure, ancora adesso, quando i fuochi che hanno caratterizzato la manifestazione del 15 ottobre sono da tempo spenti, sono queste le spiegazioni che ancora dominano la scena pubblica.
Ci sono stati, ovviamente, tanti interventi e riflessioni che hanno caratterizzato la discussione in Rete, restituendo letture meno pavloviane di quella giornata. Ciò che però ancora fa fatica a farsi strada è un punto di vista che operi quel salutare movimento del pensiero che mette in relazione il fondale – la crisi economica globale, la crisi irreversibile della democrazia rappresentativa e di molte interpretazione della forma movimento – e il palcoscenico (la dimensione transnazionale della crisi, i movimenti sociali che si sono manifestati e si manifestano). L’assenza di una ricombinazione tra questi aspetti conduce a una percezione distorta della temporalità politica in cui la manifestazione del 15 ottobre si è collocata. Una temporalità che continua ancora a scandire l’agenda politica nel vecchio continente e in Italia. Il problema non è quindi il recente passato, ma il presente e l’immediato futuro, visto che l’accelerazione della crisi italiana e il consolidarsi di un governo europeo dai forti connotati conservatori, se non reazionari conduce a definire i nessi, le concatenazioni tra il fondale e il palcoscenico. L’assenza di queste concatenazioni conduce infatti l’agire politico radicale e di movimento a una triste riproduzione del già noto. O a un mesto ripiegamento su un rapporto di internità con il sistema politico con la speranza di condizionarlo. Nel primo caso, c’è l’irrilevanza politica; nel secondo l’approdo a una pratica che ricorda quella delle lobby. Soltanto che in questo caso, non si è rappresentanti di uno specifico interesse economico o sociale, bensì di una istanza etica di trasformazione della realtà. Va da sé che sarebbe comunque una debaclè politica e concettuale.
Sarebbe quindi a questo punto interessante condurre un esperimento mentale su quale possa essere la risposta a un governo che applichi la lettera della Bce inviata a un pericolante Berlusconi. Mai come in questi giorni la sovranità nazionale è diventato, ad esempio, un feticcio sbandierato dalla Lega Nord per contrastare le tentazioni neoliberiste del cavaliere nero. Ma mai come in questi settimane, la sovranità nazionale è stata sistematicamente cancellata dalla Banca centrale europea. E quando Giuliano Ferrara ha annunciato che Silvio Berlusconi stava per dimettersi, gli scambi di Borsa Affari a Milano sono saliti precipitosamente e altrettanto repentinamente sono scesi quando l’ospite di Palazzo Chigi ha smentito le voci delle sue dimissioni.
I mercati non sono ovviamente antiberlusconiani, ma rimproverano al governo italiano di essere troppo poco radicale nell’applicare i diktat della Banca centrale europea. La possibile uscita di scena di Silvio Berlusconi non coincide con la sconfitta dell’uscita neoliberista dalla crisi del neoliberismo. Semmai assistiamo alle convulsioni di un sistema politico istituzionale alla ricerca di soluzioni che mettano in pratica quello che vogliono proprio i tecnocrati di Bruxelles.
Sia chiaro. Questo è solo una parte del fondale in cui collocare il contesto in cui il movimento italiano agisce. L’altra parte a che fare con la materialità della crisi economica, che sta voracemente divorando consuetudini, forme di vita, assetti di potere – sia istituzionale che sociale – e la geografia del capitalismo mondiale. Una crisi anomale, tuttavia. Viene ritenuta giustamente globale, ma presenta caratteristiche molto diverse a seconda delle latitudini. L’America latina, per esempio, ha tassi di crescita molto simili ormai a quelli di paesi come la Cina, l’India, la Russia. Nella vecchia Europa, divenuta il centro delle turbolenze finanziarie, la tensione tra differenze e ripetizioni nella manifestazione della crisi produce proposte politiche sul governo che tendono a stabilire gerarchie di potere non molte diverse da quelle che vediamo in azione su scala globale. Jurgen Habermas ha recentemente scritto su “Le Monde” che la crisi economica pone con forza, e nuovamente, la forma costituzionale che dovrà accompagnare l’Europa che uscirà dallo tsunami del debito sovrano. E per non smentire il suo patriottismo europeista, Hebermas tiene a precisare, in questo scritto, che l’Europa politica che uscirà dalla crisi non potrà che fare proprie le politiche dell’austerità dettate dalla Banca centrale. Il 15 ottobre va quindi pensato come un atto della messa in scena della crisi del capitalismo contemporaneo, all’interno del quale si sono manifestati le potenzialità, ma anche i limiti dei movimenti sociali. In primo luogo, la presenza di una generazione condannata alla precarietà, ma anche l’assenza di pratiche politiche adeguate alla sua irriducibilità a dispositivi di rappresentanza politica. L’unica cosa certa che si è manifestata è, anche qui, un ripiegamento su consolidate performance che oscillano tra il teatro di strada e la simulazione della guerriglia di strada. La scommessa da fare è semmai la rappresentazione di ben altra rappresentazione e regia da quella che vorrebbe che dalla crisi si esca con la riproposizione della stessa stesse forme di sfruttamento e di finanziarizzazione della vita activa, magari più mitigate di quelle finora operanti.
****
Sono anni che le esperienze più innovative del pensiero critico radicale invitano a guardare senza timore ciò che è accaduto nel modo di produzione capitalistico, dove le dimensioni finanziaria, produttiva e riproduttiva costituiscono una totalità che rende spesso difficile distinguere il ruolo della finanza da quello propriamente produttivo o riproduttivo, intendendo con quest’ultimo non la riproduzione della specie, ma tutto ciò che ha avuto a che fare con i diritti sociali di cittadinanza. In tempi non sospetti, studiosi radicali e dunque non sprovveduti (Christian Marazzi, Carlo Vercellone, Andrea Fumagalli) hanno ampiamente argomentato che la finanza ha assunto una centralità inimmaginabile nel regime di accumulazione capitalistico. Non siamo, tuttavia, all’interno di quei cicli economici che tanto hanno appassionato teorici che pure hanno registrato la centralità della finanza. Tanto Immanuel Wallerstein che David Harvey – solo per citare gli studiosi che all’interno della tradizione socialista hanno provato ad innovarla – assegnano infatti alla finanza un ruolo certo rilevante, ma solo quando si è di fronte al declino di un modo di produzione e di un assetto geopolitico mondiale. La finanza, e su questo il volume di David Harvey L’enigma del capitale (Feltrinelli) è illuminante – è considerata una fase di passaggio tra un regime di accumulazione all’altro, da un modo di produzione all’altro. Insomma, una parentesi che presto o tardi lascierà il posto a un nuovo scenario economico, sociale e politico. Una lettura che rinvia a un prossimo futuro la possibilità di modificare i rapporti di forza nella società. Ma la finanza è ormai molto più che una parentesi, oppure lo strumento attraverso il quale viene governata una transizione. Le transazioni finanziarie, la borsa, i venture capital sono immanenti al capitalismo contemporaneo. Ne definiscono le caratteristiche, fino a diventare un dispositivo che ne garantisce la governamentalità. Per questo, plasma l’accesso ai servizi sociali, rendendo l’indebitamento un fattore costituivo del vivere in società. Dunque qualcosa che esonda il credito al consumo su cui tanti, a sinistra e nei movimenti, hanno visto il fattore scatenante della crisi. Una lettura autoconsolatoria, moralista, come moralista è il discorso di chi invoca la decrescita come strumento atto a contenere il consumo.
E’ però difficile applicare l’invito alla parsimonia quando cresce l’indebitamento per accedere alle cure mediche, alla formazione, alla comunicazione, alla mobilità. Ben prima che un modesto ministro del tesoro, tale Giulio Tremonti, parlasse di finanza creativa, milioni di uomini e donne hanno usato con maestria un indebitamento oculato per vivere in un era di salari bloccati. Oppure che hanno scelto, non tanto in Italia, i fondi pensione per controbilanciare il contenimento salariale su cui è prosperato il cosiddetto neoliberismo. La crisi economica ha reso evidente che l’indebitamento è l’immagine riflessa di una società dove i poveri non sono solo coloro che non trovano collocazione nel mercato del lavoro, perché povertà è divenuta la parola che viene usata, ipocritamente, per indicare il lavoro vivo nelle diverse forme che regolano la società salariale e, in misura minore, l’accesso al reddito.
***
La finanza non è solo questo, ovviamente. E’ però rilevante sottolineare che la finanziarizzazione della vita definisce un panorama in cui il confine tra povertà relativa e povertà assoluta diventa evanescente, perché regolato proprio dalla gestione dell’indebitamento. Di fronte a tante analisi sul declassamento del ceto medio o della società low cost, il consumo è una componente del regime di accumulazione capitalistico che aiuta a definire anch’esso i rapporti di sfruttamento. Da questo punto di vita, l’indebitamento è stato per molto tempo la via spericolata affinché il salario non potesse essere considerato una variabile dipendente dei rapporti sociali di produzione, come invece postulava il mantra dispensato banche centrali o dalla Federal Reserve Bank.
La decrescita, così come certa retorica anticonsumista, prospetta un mondo, e dei rapporti sociali, incentrati sulla penuria. In fondo, i maggiori sponsor del consumo consapevole sono coloro che l’indebitamento generalizzato lo provoca. La crisi economica ha quindi messo in evidenza che la finanza non attiene più alla produzione di denaro a mezzo denaro, ma coinvolge e travolge la «vita activa». E allo stesso tempo ha rivelato la miseria di quella figura dell’individuo proprietario che ha tenuto banco per oltre un quindicennio.
La crisi dei mutui subprime, così quella del debito sovrano ha però mandato in frantumi proprio l’idealtipo dell’individuo proprietario. La sua fine non può che rallegrare. E suonano patetici gli inviti a ricostruirlo, magari mitigato da qualche intervento regolatore dello stato, ricondotto così alla sua funzione pastorale perché esercita un controllo e un potere di interdizione rispetto ai comportamenti che mettono a rischio un nuovo quadro di compatibilità. Nell’Europa del debito sovrano è questo il refrein che viene declamato con convinzione dalle diplomazie e dai governi nazionali, mai così esautorati dall’esercizio della propria sovranità. E questo svuotamento della sovranità nazionale e il commissariamento dei governi nazionali avviene perché la posta in gioco nel vecchio continente è alta e riguarda proprio la gestione della crisi. Le politiche di austerità cercano di ripristinare quel dispositivo che vede la finanza come strumento di governo del processo di accumulazione, di processi produttivi fortemente flessibili e piegati a strategie di innovazione di prodotto e di processo che hanno nella cooperazione sociale produttiva la loro linfa vitale. In altri termini, la via d’uscita dal neoliberismo è un neoliberismo più radicale (la finanziarizzazione della «vita activa»). E’ in questo contesto che molte anime belle del riformismo continentale lanciano grida d’allarme sul fatto che il neolibrismo è nemico giurato della democrazia, dimenticando tuttavia che le basi sono state gettate in quella conferenza di Lisbona dove la «società della conoscenza» veniva indicata come il passo successivo alle politiche tatcheriane che aveva imperversato a Ovest dell’Elba sin dagli anni Ottanta del Novecento.
Condizione necessaria per la società della conoscenza è quella precarietà nei rapporti di lavoro che ha preso il posto del lavoro a tempo indeterminato come norma dominante. Una precarietà che plasma i rapporti sociali, creando non pochi equivoci all’interno del pensiero critico e delle cosiddette pratiche di movimento. Condizione prevalentemente giovanile, sostengono alcuni. Condizione che attiene solo ad alcune figure del lavoro vivo (knowledge worker, freelance, la sequenza può essere molto lunga). Più semplicemente norma dominante. Dunque il precariato non come classe in divenire, ma come figura dominante di tutto il lavoro vivo, anche quando è a tempo indeterminato.
***
Ma se questo è il fondale, d’altronde ampiamente noto, in cui collocare l’azione dei movimenti sociali, ben diverso è il palcoscenico vero e proprio. Qui vediamo articolare diversamente l’impoverimento, la finanziarizzazione del welfare state, perché tutto accade in presenza di cooperazione sociale produttiva, sapere, conoscenza messi al lavoro. E’ infatti difficile affermare apoditticamente che nelle economie capitaliste è in atto un processo di impoverimento assoluto, né che i fenomeni sociali possono essere ricondotti a un semplice declassamento delle condizioni di status che colpisce il novantanove per cento della popolazione, operando così, tramite una semplice constatazione della riduzione del reddito, una ricomposizione sociale del lavoro vivo che si pone invece come il nodo teorico, e dunque politico, ogni volta che un movimento sociale si trova nella condizione di dover fare i conti con la bestia nera del capitalismo cognitivo, cioè quella permanente destrutturazione e ricombinazione delle forze produttive, anche quando si tratta di affrontare il riscaldamento globale o il saccheggio delle terre da parte delle multinazionali agro-alimentari. Sia ben chiaro, non c’è nessuna possibilità di ripristinare nessuna ortodossia, né basta stringere le spalle, perché la crisi comporta una semplificazione della realtà. Più semplicemente, è proprio la crisi che pone al centro della scena il comune, che costituisce l’apriori e il prodotto della cooperazione sociale. Dunque i movimenti sociali occupano un palcoscenico dove grandi sono le possibilità di libertà, di democrazia radicale, ma anche dove è massimo il rischio di intraprendere strada già note che si sono rivelate vicoli ciechi.
E’ indubbio che gli indignati, e con caratteristiche diverse Occupy Wall Street, costituiscono una felice combinazione di critica alla dittatura della finanza e sperimentazione di una democrazia radicale che assume fino in fondo i mutamenti della forma stato prodotti dalla controrivoluzione liberale. Il diritto all’insolvenza, il rifiuto di pagare la crisi economica sono certo temi che incontrano consenso, mettendo in difficoltà governi nazionali e istituzioni sovranazionali. Ma il rischio è che anche queste esperienze cadano nella trappola di agire come un’opinione pubblica, cioè una variabile dipendente del sistema di potere.
Rischio molto alto, che pone la discussione su un altro piano. Anche in questo caso, va compiuto quel movimento del pensiero che afferma l’autonomia dei movimenti sociali, senza rifiutare di fare i conti con l’eterogeneità, la frammentazione dei movimenti sociali, che ormai hanno un andamento degli sciami che si formano, mostrano la loro potenza per poi disperdersi senza riuscire mai a cogliere i processi di costituzione e di dissoluzione dello sciame. E dunque lasciano da parte le lamentazioni delle letture sociologiche dei movimenti, un riflesso autoconsolatorio rispetto alle difficoltà di misurarsi con questa matassa di sfide teoriche e politiche , da parte delle pratiche di movimento. La posta in gioco è assumere la potenza dello sciame con la necessaria continuità politica, organizzativa dei movimenti sociali.
In tempi neanche tanto lontani, il tema di cosa differenzi un movimento sociale dalle forme novecentesche dell’azione politica è stato, per chi scrive, felicemente risolto attraverso una formulazione che recitava così: il movimento è lo spazio dove vengono politicizzati i rapporti sociali. Una formula, obietterebbe il solito informato. Più concretamente un programma di lavoro, una sfida teorica, che inanella tutti i nodi che i movimenti sociali si trovano a dover sciogliere. Cosa significa, ad esempio, bloccare i flussi di merci, informazioni,vdi lavoro vivo in una metropoli? Senza superare i confini nazionali, basterebbe ricordare l’esperienza dell’Onda o la proposta dello sciopero precario per segnalare che il problema è molto più cogente di quanto possa apparire. Oppure, la constatazione che i movimenti sociali riescono sì a rompere il monopolio della decisione politica, ma che spesso corrono ripristinano, in forme spurie, la democrazia rappresentativa o quella strana dimensione del politico che è la costruzione di un universale, che riassuma tutti i particolarismi, come sostiene la critica della ragione populista quando assegna a un potere esecutivo il momento della sintesi di alleanze sociali nate nella contingenza e dalla sommatoria delle singole debolezze.
Non si tratta di puntare l’indice verso questa o quella esperienza, ma di riconoscere le potenzialità dei movimenti, di riprendere il cammino quando è stato interrotto. Di fare cioè quell’esercizio che si base sull’ottimismo della ragione e della volontà, lasciando agli orfani del quarto stato e dell’altro movimento operaio la triste pratica della realpolitik e alle facili dicotomie che stabiliscono il confine tra sterili mimesi dell’insurrezione e una robusta e predefinita proposta politica che deve solo disfarsi degli ultimi residui passivi di un passato consegnato agli archivi. Più semplicemente, i movimenti sono sempre sul confine della rivolta e del ripiegamento negli angusto spazio concesso all’opinione pubblica. In fondo, non era stato detto, non molto tempo fa, che i tumulti erano proprio la forma prevalente dell’insubordinazione che allude tanto all’insurrezione che al rinnovamento della democrazia radicale nella Repubblica?
Il 15 Ottobre non è stata dunque una occasione persa, né una aggressione a un corteo, ma il condensato politico, e dunque teorico, di ciò che attiene al presente e al futuro dei movimenti. Un presente e un futuro il cui esito è ovviamente incerto.