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Posted: Novembre 18th, 2011 | Author: | Filed under: comune, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su comune

Per una “scienza” del comune

Il cambio di governo, annunciato in Italia nel segno della “discontinuità” rispetto al potere corrotto di Berlusconi e soci, rende evidente l’approfondirsi della crisi.

Sappiamo infatti che non esistono governi-di-tecnici e che l’escamotage di varare per via isituzionale le politiche “lacrime e sangue”, volute dalla BCE e dai mercati, serve a mantenere il potere di ricatto dell’ Europa monetaria sul “99 per cento” delle popolazioni.

Ogni governo infatti è politico e le politiche neoliberiste, fallite globalmente, sono ora riproposte “localmente”, anzitutto nella zona Euro, a partire dalla Grecia, e imposte per via costituzionale anche in Italia, ove l’indignazione e la rabbia sociale salgono e si diffondono.

Cosa differenzia la fase attuale di “impegno per il risanamento” dalla recente débacle della globalizzazione? Il fatto che è definitivamente caduta la mediazione politica su cui la rendita, la finanza e la speculazione, cioè il capitale, potevano contare per dirigere i tagli al welfare ed estendere la precarietà. Il passaggio da un comando formale della finanza sull’insieme del lavoro produttivo ad un comando reale, avviene infatti nel segno della governance, cioè dell’amministrazione “tecnica” dell’economia, che attua la trasformazione della costituzione materiale di un paese. Le condizioni in cui si attua questa trasformazione sono definite dalla crisi finanziaria, che è crisi del debito, nella forma del debito pubblico, cioè della ricchezza sociale sottratta all’insieme della popolazione e che in questi anni ha alimentato la rendita.

Come si può dunque gioire per la “discontinuità”, comunque necessaria, e non vedere come la sospensione “tecnica” della politica, non è politica fatta con altri mezzi?

Un governo “tecnico” o istituzionale che sia dunque, deve rimetter mano ai conti pubblici nella forma più politica: saltando la negoziazione sociale e parlmentare e attuando direttamente le misure di “sacrificio” e deve poggiare sui due pilastri della produzione di ricchezza: la formazione e il mercato del lavoro.

Non a caso Monti ha elogiato i due provvedimenti più drastici e miserabili: la riforma Gelmini dell’istruzione e il “modello” Marchionne, che toglie diritti ed estende la precarietà. E non a caso negli ultimi anni proprio Università, istruzione e lavoro sono stati quei segmenti di ciò che residua della sfera pubblica che si sono sottrarsi alla logica d’impresa e alla privatizzazione.

In questa situazione l’Italia diviene il “laboratorio della crisi”, in cui si sperimenta, con la dissolvenza della rappresentanza politica formale (governo e parlamento), sostituìta dalla governamentalità dell’economia, il dominio diretto delle vite delle genti.

E’ questo il tunnel che attraversiamo, realizzato in pochi mesi con un’accelerazione della crisi che ha visto la lettera della BCE divenire immediatamente programma di governo, e la rappresentanza “bipartizan” polverizzarsi in nome della salvezza nazionale.

D’altra parte il vuoto ormai decennale della politica rappresentativa dev’essere colmato in fretta da una sovranità senza nome, nel momento in cui il conflitto sociale diviene globale e i movimenti indignati, studenteschi, operai e precari occupano la scena cercando di riappropriarsi del comune, soggetto a sfruttamento.

Per questo il pericolo di di una “rivoluzione mondiale” a cui fanno segno il sacrosanto diritto al default e il diritto all’insolvenza dev’essere rimpiazzato da una norma sovrana, in uno stato d’eccezione permanente fatto di repressione, interdizione della piazza, criminalizzazione dei conflitti.

Per questo allora è necessario affinare alcuni strumenti di analisi e alcune pratiche che indicano i limiti e il campo di attuazione di quelle che possiamo chiamare come “tecnicalità alternative”, da opporre alle tecniche di sfruttamento e subordinazione. Si tratta insomma della costruzione di una “scienza” autonoma delle figure del sapere e della precarietà in grado di profilare soggettività indipendenti, a partire dai bisogni singolari.

L’inchiesta, l’autoformazione e la pratica dell’autoproduzione, costituiscono oggi tre basilari forme di riappropriazione del comune che possono essere praticate per dare spessore a rivendicazioni e contribuire a realizzare una democrazia dal basso.

L’ inchiesta è lo strumento principale con cui una soggettività inizia a sapere e a manifestarsi. Si tratta di una prassi di tematizzazione delle istanze, delle motivazioni e delle scelte di un gruppo, una soggettività, un collettivo, in rapporto ad un territorio, ad una situazione, ad una stratificazione sociale. Praticamente l’inchiesta serve per porre questioni intorno ai contenuti e i limiti di una prassi collettiva: quale è la funzione dei conflitti nel far emergere rivendicazioni e istanze di liberazione e quali pratiche adottare?

NON si tratta di una ricerca statistica di tipo sociologico, bensì di una forma estesa e multipla di autonarrazione di comportamenti e relazioni. Inchiestare la precarietà oggi, in tutte le forme, comprese quelle nel campo dell’arte e della cultura, è uno dei compiti principali di una soggettività indignata e antagonista. E’ uno strumento che, attraverso questionari, discussioni e confronti tra chi è “dentro” una comunità e chi l’attraversa, implementa la consapevolezza per le possibilità di intervento.

L’inchiesta realizza autonomia, nel senso che forma un pensiero che proviene dalla soggettività e in tal modo costituisce un profilo di essa, come parte di uno spazio più esteso.

L’autoformazione è la forma della narrazione e della costituzione di un sapere di un collettivo. E’ un lavoro di lunga durata nel senso che, in forme molteplici, seminariali, di incontri, mette a tema determinati argomenti: la crisi economica, la valorizzazione dei saperi, l’appropriazione di reddito, la cultura indipendente, la società dello spettacolo, etc… secondo l’interesse e il campo di intervento funzionali ai luoghi e a i territori in cui vive e che occupa quotidianamente.

L’autoformazione è il modo più diretto per realizzare una “scienza” dal basso, una prospettiva teorica, ed è l’impiego di una serie di strumenti (dalla scrittura, all’oralità, al multimedia), con cui raccontare il mondo e raccontarsi. Le forme narrative e discorsive possono costituire reali percorsi di indipendenza che, coniugati con l’autonomia di pratiche, realizzano un sapere fuori dai luoghi istituzionali di produzione e mercificazione.

L’autoproduzione è la pratica vera del mutamento radicale del modello di sviluppo predatorio e parassitario del capitale. Infatti è la principale dinamica sistemica, come produzione di vita in senso biologico e riproduzione delle condizioni materiali della vita, condizioni che pertengono a ciascuna natura umana. L’autoproduzione è immanente alla singolarità delle produzioni: dalla produzione di sé alla cooperazione, dalle arti alle tecnologie…

L’insieme delle attività umane costituisce dunque il punto di caduta dell’autonomia e dell’indipendenza, cioè il momento di precipitazione di inchiesta e autoformazione. E’ una pratica politica, attiva oggi soprattutto per battere la logica proprietaria dei brevetti, del copyright e la valorizzazione capitalistica dei saperi, della cultura e dell’informazione. Fare autoproduzione signfica quindi abitare uno spazio, un territorio, un desiderio. La realizzazione di un nuovo welfare, dall’occupazione di case e spazi all’azionariato popolare, all’impresa sociale, all’autorecupero e riuso, sono momenti di espressione del general intellect su cui oggi si decide la partita dell’autorganizzazione, partita che non giocano più solo i poteri e i contropoteri, bensì i mercati e i singoli esseri umani.

Paolo B. Vernaglione

Laboratorio Filosofico “SofiaRoney.org”


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