Posted: Dicembre 27th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Reddito di Cittadinanza e Lavoro
Il reddito promesso, il reddito frainteso. Brevi note sulla proposta di legge S1481 a firma Ichino + altri
di Luca Santini
Riflessioni sulla proposta Ichino della riforma del mercato del lavoro e la questione del reddito garantito.
La strada imboccata con decisione dall’Esecutivo Monti verso la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali non mancherà a breve di tradursi in proposte e articolati di legge concretamente valutabili. Ad oggi possiamo confrontarci con semplici dichiarazioni alla stampa, allusioni in trasmissioni televisive, generici programmi di riforma. La concentrazione del dibattito sul “superamento” della tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché la forte esposizione mediatica recentemente rafforzata del Senatore PD Pietro Ichino, lascerebbero però pensare che la vera bozza legislativa allo studio del Governo sia modellata sulla proposta di legge n. 1481 depositata in Senato (a firma Ichino + altri), intitolata “disposizioni per il superamento del dualismo del mercato del lavoro, la promozione del lavoro stabile in strutture produttive flessibili e la garanzia di pari opportunità nel lavoro per le nuove generazioni”.
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Posted: Dicembre 26th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Hardt & Negri: auguri per il 2012
Alcune delle lotte sociali più incoraggianti del 2011 hanno posto la democrazia in cima alla lista.
di Michael Hardt e Antonio Negri
Sebbene siano il prodotto di condizioni molto diverse, questi movimenti – dalle insurrezioni della Primavera Araba alle lotte sindacali nel Wisconsin, dalle proteste studentesche in Cile a quelle negli USA e in Europa, dai disordini del Regno Unito alle occupazioni degli indignados spagnoli e dei greci di Piazza Syntagma – condividono un’istanza negativa: Basta con le strutture del neoliberismo! Non si tratta solo di una protesta di tipo economico, ma è di già una protesta politica, diretta contro la falsificazione della rappresentanza. Né Mubarak, né Ben Ali, e nemmeno i banchieri di Wall Street, non i media di élite, e neanche presidenti, governatori, membri del parlamento o altri funzionari elettivi – nessuno di essi ci rappresenta. La forza straordinaria del rifiuto è molto importante, ovviamente, ma il calore di dimostrazioni e scontri non dovrebbe farci perdere di vista un elemento che va al di là di protesta e resistenza. Questi movimenti condividono anche l’aspirazione a un nuovo genere di democrazia, un’aspirazione a volte esitante e incerta, a volte dichiarata e potente. Gli sviluppi di questa aspirazione costituiscono la traccia che siamo più ansiosi di seguire nel corso del 2012.
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Posted: Dicembre 12th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Marazzi
di Christian Marazzi: La bolla dell’insubordinazione
La crisi del capitalismo finanziario che si è imposto negli ultimi trent’anni è speculare alla crisi del rapporto tra capitale e lavoro che ha siglato la fine del regime fordista d’accumulazione e la transizione verso un capitalismo caratterizzato dalla centralità della rendita rispetto alle variabili «reali» dell’economia, ossia salario, prezzo e profitto. La finanziarizzazione dell’economia prende avvio negli anni Settanta con la deregolamentazione dei mercati dei cambi che ha fatto seguito alla rottura degli accordi di Bretton Woods, si sviluppa con la deregolamentazione dei mercati finanziari con la nascita dei mercati obbligazionari ai quali gli Stati si rivolgono per finanziare i propri debiti pubblici, si espande ulteriormente alla fine degli anni Ottanta con lo sviluppo dei mercati dei prodotti derivati e, dalla metà degli anni Novanta a oggi, con la globalizzazione dei mercati monetari e finanziari. «Ma l’elemento più impressionante – scrive François Morin nel suo Un mondo senza Wall Street? – è senza alcun dubbio la rapidità con la quale i mercati di copertura si sono sviluppati. Nel 1987, sui mercati delle opzioni e dei futures il volume degli scambi era pari a 1,7 teradollari (T$), mentre alla fine 2009 aveva raggiunto i 426,7 T$. Se si eccettuano i Cds che sono passati da 0,9 T$ nel 2001 a 62,1 T$ nel 2007, prima di calare di nuovo a 30,4 T$ nel 2009, questa folgorante espansione non è stata arrestata dalla crisi». La creazione di liquidità, in altre parole, è praticamente illimitata e lubrifica una finanza di mercato in cui i rischi legati ai più diversi prodotti finanziari sono tra loro tutti correlati, dando origine a processi contagiosi che alimentano una bolla dopo l’altra, dalla bolla internet a quella dei subprime alla bolla dei debiti sovrani. È infatti nella natura stessa dei mercati finanziari il fatto di essere intrinsecamente instabili, soggetti cioè a processi autoreferenziali, tali per cui l’aumento del prezzo di un attivo finanziario non provoca la riduzione della sua domanda, bensì l’opposto, ossia un ulteriore aumento della domanda, facilitato dall’accesso al credito.
L’autonomizzazione della finanza dall’economia reale è l’altra faccia dell’autonomizzazione del capitale dal rapporto diretto tra capitale e lavoro salariato, quel processo che vede il capitale colonizzare sempre nuove «terre vergini», sussumendo prima il lavoro salariato alla finanza e al debito, poi i beni comuni di intere popolazioni attraverso la privatizzazione dei debiti pubblici e, infine, la stessa sovranità degli Stati. È un processo sincopatico, fatto di alternanza tra espansione e contrazione, che nel corso degli ultimi decenni ha visto la biforcazione tra tassi di profitto e tassi di accumulazione, con i primi in costante aumento e i secondi stagnanti, se non regressivi. Gli aumenti dei profitti si effettuano attraverso tagli di salari e occupazione, flessibilizzazione del lavoro e esternalizzazione dei processi di estrazione/appropriazione del valore prodotto nella sfera della circolazione del capitale. In questo movimento espansivo del capitale i beni comuni vengono «recintati», ossia privatizzati, generando esclusione e povertà. L’accumulazione del capitale si effettua a mezzo di esclusione, di sfruttamento non remunerato della vita, di «disoccupazione attiva». Si effettua attraverso la generalizzazione dei rapporti di debito/credito all’intero ciclo di vita del capitale e della forza-lavoro. Di fatto, il capitalismo finanziario è, come ha scritto Maurizio Lazzarato, una vera e propria «fabbrica dell’uomo indebitato».
Nella configurazione odierna del capitalismo finanziario i margini di riforma, di «riregolamentazione[ dei mercati, di ristrutturazione del debito privato e sovrano, sono estremamente ridotti. La rivendicazione del «diritto all’insolvenza» ha infatti senso come obiettivo di uscita dal capitalismo, come processo di insubordinazione dal basso che deve trovare in sé le forme della propria autodeterminazione. La posta in palio non è il fallimento di un paese o di un altro, dato che la finanziarizzazione ha ormai raggiunto un tale livello di interdipendenza da rendere pressoché impossibile qualsiasi riduzione del debito senza effetti devastanti per tutti. La posta in palio è la costruzione di un contro-potere costituente interno ai processi di mobilitazione sociale.
Audiodell’INTERVENTO DI MARAZZI AL SEMINARIO Oltre il welfare verso il commonfare, Milano 3 dicembre 2011
Posted: Dicembre 10th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, critica dell'economia politica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su intervista a Toni Negri
“La representación es la ausencia de la participación”
Intervista a TONI NEGRI di VERONICA GAGO
En conversación con el filósofo italiano Toni Negri en Buenos Aires, tras su paso por el ciclo Debates y Combates, los rastros de la crisis global se proyectan como crisis de la democracia representativa en el continente europeo, creador de esa fórmula de gobierno hace siglos. Sin embargo, más allá de los encantos de la filosofía, el punto de partida para Negri es firme: son las experiencias sociales las que crean el pensamiento. En esa estela, antepone su entusiasmo con el movimiento estudiantil chileno, frente al cual dio una conferencia en una universidad ocupada hace una semana, y con el movimiento de “indignados” de España, donde estuvo un mes atrás. Para este intelectual ya convertido en visitante asiduo de Argentina, se trata de auspiciar una época de transición en la cual la pasión democrática común rompa y vaya más allá de los bloqueos que impone la democracia representativa. El acelerado escenario de crisis del antiguamente llamado Primer Mundo pone un tono de urgencia a estas discusiones.
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Posted: Dicembre 6th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: postcapitalismo cognitivo | 7 Comments »
di Sergio Bologna
VITA DA FREE LANCE
Dall’università al Teatro Valle, un nomadismo metropolitano disincantato per difendere una forma di vita indipendente.
«La furia dei cervelli», un saggio che passa in rassegna le forme del
lavoro della conoscenza.
Meglio un cervello furioso di uno fuggitivo? Questo libro di Giuseppe
Allegri e Roberto Ciccarelli, per quanto il gioco di parole del titolo –
La furia dei cervelli, manifestolibri, pp. 167, euro 18 – possa farlo
pensare, non si occupa di giovani talenti che emigrano, ma del tema
dell’indipendenza. Di grande attualità perché mai ci fu un periodo della
storia del capitalismo dove il concetto di indipendenza ha subito tante
offese. L’idea moderna di stato sovrano è nata con le grandi monarchie
del Quattrocento, è stata il fondamento dell’idea di stato finché il
concetto roussoviano di patto sociale non l’ha soppiantata. Da allora
solo il pensiero marxista dell’estinzione dello stato ne ha
rappresentato il contraltare. Ma solo il capitalismo contemporaneo,
attraverso i suoi meccanismi finanziari, è riuscito a realizzarla
mandando in frantumi non l’idea ma la consistenza della sovranità. Si
chiude oggi un ciclo di seicento anni di storia. E che resta dell’idea
di indipendenza? Forse resta, viene alla luce, la sua versione migliore,
quella dell’indipendenza e della sovranità delle comunità autogovernate.
Ma c’è un livello successivo (o antecedente) ed è quello del lavoro. Il
lavoro indipendente è una brutta bestia, è qualcosa che la storia del
capitalismo e del socialismo ha guardato con sospetto, perché non è un
lavoro salariato. È un lavoro «atipico», «non standard», dunque non va
inserito nei sistemi di previdenza e sicurezza sociale. Ma al tempo
stesso viene assunto a modello sul quale far convergere poco a poco il
lavoro salariato del nuovo Millennio.
Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri hanno affrontato il tema dei
lavoratori della conoscenza come dovrebbe sempre essere affrontato: a
partire da un movimento reale, sia pure localizzato, sia pure di breve
durata, ma reale, da un conflitto aperto, non solo immaginato. Non è
possibile parlare di lavoro, qualunque esso sia, artigianale, creativo,
industriale, forzato, femminile, senza parlare di conflitto. Le analisi
puramente «tecniche», per quanto brillanti o approfondite, per quanto
interessanti o stimolanti, sembrano lasciare sempre il discorso a metà.
Dopo averle lette ci si chiede sempre: e allora? Se la condizione è
quella descritta che succede, dove avviene il cambiamento? Qual è il
momento in cui il soggetto prende consapevolezza di quella condizione?
Per gli autori il punto di partenza è il movimento della «pantera»,
1990. Quanto fossero coscienti gli studenti di allora di «fare storia»
semplicemente perché la loro era la prima protesta argomentata della
nuova Italia, della Seconda Repubblica, non è dato di sapere. Di certo
ne sono consapevoli i due autori e questo rende particolarmente
apprezzabile il loro sforzo. Non sarà mai abbastanza l’impegno
pedagogico per sottolineare che il 1989/90 rappresenta la chiusura del
ciclo storico che si era aperto nel 1943/45 con la fine del fascismo.
Nasce una nuova compagine statale che porta in sé le stimmate del dramma
che stiamo vivendo oggi. Ciccarelli e Allegri scrivono: «nel 1990 il
movimento degli studenti comprese le finalità della trasformazione
neo-liberista dell’economia della conoscenza». Detto in soldoni:
capirono che sarebbero stati loro la categoria più beffata. Il loro
antenato non è la figura di intellettuale proletarizzato
dell’iconografia rivoluzionaria, ma il flaneur parigino che sogna e
soggettivamente pratica una quotidianità fuori dagli schemi del lavoro
salariato. L’incursione nella storia delle avanguardie artistiche
dell’Ottocento e del primo Novecento è suggestiva. Ma gli autori vanno
ancora a ritroso, al Seicento, per trovare le tracce di quello che
chiamano il Quinto Stato, gli indipendenti, mercanti o artisti o
artigiani o professionisti, quelli che Foucault definiva come coloro che
possiedono «l’arte di essere governati di meno». Considerati il diavolo
oppure disprezzati, secondo le epoche. Il tentativo di trovare una
genesi storica di quello che viene descritto come fenomeno
post-fordista, post-moderno, rappresenta uno degli aspetti più
interessanti del libro.
La parte finale è interamente dedicata a quelli che comunemente
chiamiamo «i movimenti» (i precari, gli universitari, il teatro Valle
ecc.). La lettura che ne viene data è complessa, perché si cerca di
rintracciare all’interno di quei movimenti il processo costituente del
nuovo ceto o, meglio, della nuova modalità di esistenza propria del
post-moderno. Rimane l’incognita del rapporto con il fare politica, con
quell’agire sociale che è in grado di contrastare i meccanismi del
potere. La sproporzione tra i mezzi a disposizione degli uni e degli
altri sembra oggi tale da togliere ogni plausibilità a un discorso sul
conflitto, cioè su un comportamento che costringa l’avversario a tenerne
conto, a sentirsi impegnato a difendersi. La sproporzione sembra tale
che l’idea stessa del conflitto appare obsoleta. In realtà questi sono
termini propri della società del salario, il cosiddetto «rapporto di
forze» è un tipico paradigma dell’epoca fordista, è stato anche il più
potente giustificativo dell’opportunismo. Qui ci troviamo in un altro
sistema di valori, in un sistema dove quello che viene classificato come
conflitto, in realtà è quel semplice istinto di sopravvivenza che noi
chiamiamo istinto di libertà.
LA FURIA DEI CERVELLI
Posted: Novembre 25th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, comune, postcapitalismo cognitivo | 7 Comments »
L’intelletto generale alla ricerca del corpo
di Franco Berardi “Bifo”
Questo testo è tratto dalle pp. 121-125 di Franco Berardi Bifo, La sollevazione. Collasso europeo e prospettive del movimento, Manni, Lecce 2011, pp. 160, € 10.00 (qui la scheda di presentazione editoriale)
Il 14 dicembre del 2010 centinaia di migliaia di persone, per gran parte studenti e ricercatori invasero il centro delle città di Londra di Atene e di Roma e li misero a soqquadro. Non proprio a ferro e fuoco, per questa volta, la prossima si vedrà.
La loro piattaforma rivendicativa, se così la vogliamo chiamare, consisteva semplicemente in questo: la conoscenza, la ricerca, l’educazione non possono essere sottoposte agli interessi di arricchimento di una ristretta classe finanziaria, e le autorità politiche e finanziarie europee non possono tagliare i fondi per la ricerca e per la scuola, né possono pretendere di sottomettere le linee di sviluppo della ricerca e dell’educazione alle finalità del profitto e della competizione. Se si fa questo si avvia un processo di imbarbarimento, di de-civilizzazione.
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Posted: Novembre 18th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su comune
Per una “scienza” del comune
Il cambio di governo, annunciato in Italia nel segno della “discontinuità” rispetto al potere corrotto di Berlusconi e soci, rende evidente l’approfondirsi della crisi.
Sappiamo infatti che non esistono governi-di-tecnici e che l’escamotage di varare per via isituzionale le politiche “lacrime e sangue”, volute dalla BCE e dai mercati, serve a mantenere il potere di ricatto dell’ Europa monetaria sul “99 per cento” delle popolazioni.
Ogni governo infatti è politico e le politiche neoliberiste, fallite globalmente, sono ora riproposte “localmente”, anzitutto nella zona Euro, a partire dalla Grecia, e imposte per via costituzionale anche in Italia, ove l’indignazione e la rabbia sociale salgono e si diffondono.
Cosa differenzia la fase attuale di “impegno per il risanamento” dalla recente débacle della globalizzazione? Il fatto che è definitivamente caduta la mediazione politica su cui la rendita, la finanza e la speculazione, cioè il capitale, potevano contare per dirigere i tagli al welfare ed estendere la precarietà. Il passaggio da un comando formale della finanza sull’insieme del lavoro produttivo ad un comando reale, avviene infatti nel segno della governance, cioè dell’amministrazione “tecnica” dell’economia, che attua la trasformazione della costituzione materiale di un paese. Le condizioni in cui si attua questa trasformazione sono definite dalla crisi finanziaria, che è crisi del debito, nella forma del debito pubblico, cioè della ricchezza sociale sottratta all’insieme della popolazione e che in questi anni ha alimentato la rendita.
Come si può dunque gioire per la “discontinuità”, comunque necessaria, e non vedere come la sospensione “tecnica” della politica, non è politica fatta con altri mezzi?
Un governo “tecnico” o istituzionale che sia dunque, deve rimetter mano ai conti pubblici nella forma più politica: saltando la negoziazione sociale e parlmentare e attuando direttamente le misure di “sacrificio” e deve poggiare sui due pilastri della produzione di ricchezza: la formazione e il mercato del lavoro.
Non a caso Monti ha elogiato i due provvedimenti più drastici e miserabili: la riforma Gelmini dell’istruzione e il “modello” Marchionne, che toglie diritti ed estende la precarietà. E non a caso negli ultimi anni proprio Università, istruzione e lavoro sono stati quei segmenti di ciò che residua della sfera pubblica che si sono sottrarsi alla logica d’impresa e alla privatizzazione.
In questa situazione l’Italia diviene il “laboratorio della crisi”, in cui si sperimenta, con la dissolvenza della rappresentanza politica formale (governo e parlamento), sostituìta dalla governamentalità dell’economia, il dominio diretto delle vite delle genti.
E’ questo il tunnel che attraversiamo, realizzato in pochi mesi con un’accelerazione della crisi che ha visto la lettera della BCE divenire immediatamente programma di governo, e la rappresentanza “bipartizan” polverizzarsi in nome della salvezza nazionale.
D’altra parte il vuoto ormai decennale della politica rappresentativa dev’essere colmato in fretta da una sovranità senza nome, nel momento in cui il conflitto sociale diviene globale e i movimenti indignati, studenteschi, operai e precari occupano la scena cercando di riappropriarsi del comune, soggetto a sfruttamento.
Per questo il pericolo di di una “rivoluzione mondiale” a cui fanno segno il sacrosanto diritto al default e il diritto all’insolvenza dev’essere rimpiazzato da una norma sovrana, in uno stato d’eccezione permanente fatto di repressione, interdizione della piazza, criminalizzazione dei conflitti.
Per questo allora è necessario affinare alcuni strumenti di analisi e alcune pratiche che indicano i limiti e il campo di attuazione di quelle che possiamo chiamare come “tecnicalità alternative”, da opporre alle tecniche di sfruttamento e subordinazione. Si tratta insomma della costruzione di una “scienza” autonoma delle figure del sapere e della precarietà in grado di profilare soggettività indipendenti, a partire dai bisogni singolari.
L’inchiesta, l’autoformazione e la pratica dell’autoproduzione, costituiscono oggi tre basilari forme di riappropriazione del comune che possono essere praticate per dare spessore a rivendicazioni e contribuire a realizzare una democrazia dal basso.
L’ inchiesta è lo strumento principale con cui una soggettività inizia a sapere e a manifestarsi. Si tratta di una prassi di tematizzazione delle istanze, delle motivazioni e delle scelte di un gruppo, una soggettività, un collettivo, in rapporto ad un territorio, ad una situazione, ad una stratificazione sociale. Praticamente l’inchiesta serve per porre questioni intorno ai contenuti e i limiti di una prassi collettiva: quale è la funzione dei conflitti nel far emergere rivendicazioni e istanze di liberazione e quali pratiche adottare?
NON si tratta di una ricerca statistica di tipo sociologico, bensì di una forma estesa e multipla di autonarrazione di comportamenti e relazioni. Inchiestare la precarietà oggi, in tutte le forme, comprese quelle nel campo dell’arte e della cultura, è uno dei compiti principali di una soggettività indignata e antagonista. E’ uno strumento che, attraverso questionari, discussioni e confronti tra chi è “dentro” una comunità e chi l’attraversa, implementa la consapevolezza per le possibilità di intervento.
L’inchiesta realizza autonomia, nel senso che forma un pensiero che proviene dalla soggettività e in tal modo costituisce un profilo di essa, come parte di uno spazio più esteso.
L’autoformazione è la forma della narrazione e della costituzione di un sapere di un collettivo. E’ un lavoro di lunga durata nel senso che, in forme molteplici, seminariali, di incontri, mette a tema determinati argomenti: la crisi economica, la valorizzazione dei saperi, l’appropriazione di reddito, la cultura indipendente, la società dello spettacolo, etc… secondo l’interesse e il campo di intervento funzionali ai luoghi e a i territori in cui vive e che occupa quotidianamente.
L’autoformazione è il modo più diretto per realizzare una “scienza” dal basso, una prospettiva teorica, ed è l’impiego di una serie di strumenti (dalla scrittura, all’oralità, al multimedia), con cui raccontare il mondo e raccontarsi. Le forme narrative e discorsive possono costituire reali percorsi di indipendenza che, coniugati con l’autonomia di pratiche, realizzano un sapere fuori dai luoghi istituzionali di produzione e mercificazione.
L’autoproduzione è la pratica vera del mutamento radicale del modello di sviluppo predatorio e parassitario del capitale. Infatti è la principale dinamica sistemica, come produzione di vita in senso biologico e riproduzione delle condizioni materiali della vita, condizioni che pertengono a ciascuna natura umana. L’autoproduzione è immanente alla singolarità delle produzioni: dalla produzione di sé alla cooperazione, dalle arti alle tecnologie…
L’insieme delle attività umane costituisce dunque il punto di caduta dell’autonomia e dell’indipendenza, cioè il momento di precipitazione di inchiesta e autoformazione. E’ una pratica politica, attiva oggi soprattutto per battere la logica proprietaria dei brevetti, del copyright e la valorizzazione capitalistica dei saperi, della cultura e dell’informazione. Fare autoproduzione signfica quindi abitare uno spazio, un territorio, un desiderio. La realizzazione di un nuovo welfare, dall’occupazione di case e spazi all’azionariato popolare, all’impresa sociale, all’autorecupero e riuso, sono momenti di espressione del general intellect su cui oggi si decide la partita dell’autorganizzazione, partita che non giocano più solo i poteri e i contropoteri, bensì i mercati e i singoli esseri umani.
Paolo B. Vernaglione
Laboratorio Filosofico “SofiaRoney.org”
Posted: Novembre 16th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Kurz
VIES ET MORT DU CAPITALISME
par Robert Kurz
Chroniques de la crise
Traduit de l’allemand par Olivier Galtier, Wolfgang Kukulies & Luc Mercier
Le philosophe allemand Robert Kurz, principal théoricien de la critique de la valeur en Europe, propose ici son analyse de la crise financière mondiale de 2008. Selon lui, avec la troisième révolution industrielle (la microélectronique), le capitalisme atteint sa limite interne absolue. C’est à cette limite que les divers épisodes de la présente crise doivent être rapportés pour devenir intelligibles.
Le philosophe allemand Robert Kurz est le principal théoricien de la « critique de la valeur » en Europe. Rédigées avant, pendant et après la crise financière mondiale de septembre 2008, les analyses ici réunies font apparaître que depuis l’avènement de la troisième révolution industrielle (microélectronique), les recettes politiques traditionnelles de la gauche, fondées sur une lecture « classique » de Marx, ont perdu toute efficience. Dans un monde financiarisé à l’extrême, les salariés ne représentent en effet plus qu’une variable d’ajustement d’importance relativement négligeable. La finance mondiale associée à la libre fluctuation des marchés, dont l’épisode des subprimes a récemment mis au jour l’absurdité et dont les effets ont été désastreux, n’est plus fondée en valeur d’aucune manière. Exiger le maintien des emplois existants, par exemple, tout en fustigeant les « excès » d’une finance mondiale dérégulée, c’est se rendre nostalgique d’une vision fordiste éculée, datant d’un temps où la « valeur » s’articulait encore à la production réelle, et où la monnaie mondiale (le dollar) était convertible en or. Plus grave, c’est exposer la gauche au risque de passer pour une instance de conservation davantage que d’émancipation.
La critique de Robert Kurz s’appuie sur une lecture renouvelée des thèses tardives de Marx ayant trait à la question de la valeur. Elle montre précisément de quelle façon le capitalisme aurait atteint sa « limite interne ». Mais si, comme l’affirme Anselm Jappe dans Crédit à mort, « Le capitalisme fait beaucoup plus contre lui-même que ce que tous ses adversaires réunis ont pu faire », il n’en reste pas moins, selon Robert Kurz, que sa chute ne pourra résulter que d’une mise en cause théorique radicale. En dépit de son profond délabrement et des crises de gravité croissante qu’il engendre, le capitalisme ne pourra en effet être mis à bas par la lutte de classes clairement identifiées (analyse classique ayant fait long feu), pas plus que par les tenants d’un « bien-être de frugalité » fondé sur le concept de « décroissance » ou encore par les chantres d’une prétendue « économie solidaire ».
Pour Robert Kurz, il est urgent de mener une critique théorique catégorielle du capitalisme afin de contester la validité de ses éléments structuraux : le travail abstrait, la marchandise, l’argent et l’État. « Le capitalisme n’est rien d’autre que l’accumulation d’argent comme fin en soi, et la substance de cet argent réside dans l’utilisation toujours croissante de force de travail humaine. Mais, en même temps, la concurrence entraîne une augmentation de la productivité qui rend cette force de travail de plus en plus superflue. En dépit de toutes les crises, cette contradiction interne semblait toujours surmontée via la régénération de l’absorption massive de force de travail par de nouvelles industries. Le « miracle économique » d’après 1945 a fait de cette capacité du capitalisme un credo. Or, depuis les années 1980, la troisième révolution industrielle a entraîné un nouveau niveau de rationalisation qui a lui-même entraîné une dévalorisation de la force de travail dans des proportions encore jamais vues. La substance réelle de la valorisation du capital se dissout, sans que de nouvelles industries capables d’engendrer une véritable croissance aient vu le jour. La phase néolibérale n’a été que la tentative, d’une part, de gérer de façon répressive la crise sociale découlant de cet état de fait et, d’autre part, de créer une croissance sans substance du capital fictif par l’expansion effrénée du crédit, de l’endettement et des bulles financières sur les marchés financiers et immobiliers. »
Posted: Novembre 13th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su 15 ottobre e oltre…
Oltre il 15 ottobre: il nodo dell’autonomia dei movimenti
di BENEDETTO VECCHI
Uno scontro di piazza, un’aggressione a un corteo che esprimeva un movimento dalle grandi possibilità; un’occasione persa. La prima è un’espressione che non aggiunge nulla a quanto già noto. La seconda interpretazione, invece, attinge al bagaglio retorico del perbenismo che domina la retorica della sinistra politica da oltre venti anni, cioè da quando la controrivoluzione liberale ha incontrato sulla sua strada movimenti sociali non sempre compatibili con il verbo del libero mercato. La terza spiegazione scivola via dalle labbra di qualche navigato frequentatore dei cortei. Eppure, ancora adesso, quando i fuochi che hanno caratterizzato la manifestazione del 15 ottobre sono da tempo spenti, sono queste le spiegazioni che ancora dominano la scena pubblica.
Ci sono stati, ovviamente, tanti interventi e riflessioni che hanno caratterizzato la discussione in Rete, restituendo letture meno pavloviane di quella giornata. Ciò che però ancora fa fatica a farsi strada è un punto di vista che operi quel salutare movimento del pensiero che mette in relazione il fondale – la crisi economica globale, la crisi irreversibile della democrazia rappresentativa e di molte interpretazione della forma movimento – e il palcoscenico (la dimensione transnazionale della crisi, i movimenti sociali che si sono manifestati e si manifestano). L’assenza di una ricombinazione tra questi aspetti conduce a una percezione distorta della temporalità politica in cui la manifestazione del 15 ottobre si è collocata. Una temporalità che continua ancora a scandire l’agenda politica nel vecchio continente e in Italia. Il problema non è quindi il recente passato, ma il presente e l’immediato futuro, visto che l’accelerazione della crisi italiana e il consolidarsi di un governo europeo dai forti connotati conservatori, se non reazionari conduce a definire i nessi, le concatenazioni tra il fondale e il palcoscenico. L’assenza di queste concatenazioni conduce infatti l’agire politico radicale e di movimento a una triste riproduzione del già noto. O a un mesto ripiegamento su un rapporto di internità con il sistema politico con la speranza di condizionarlo. Nel primo caso, c’è l’irrilevanza politica; nel secondo l’approdo a una pratica che ricorda quella delle lobby. Soltanto che in questo caso, non si è rappresentanti di uno specifico interesse economico o sociale, bensì di una istanza etica di trasformazione della realtà. Va da sé che sarebbe comunque una debaclè politica e concettuale.
Sarebbe quindi a questo punto interessante condurre un esperimento mentale su quale possa essere la risposta a un governo che applichi la lettera della Bce inviata a un pericolante Berlusconi. Mai come in questi giorni la sovranità nazionale è diventato, ad esempio, un feticcio sbandierato dalla Lega Nord per contrastare le tentazioni neoliberiste del cavaliere nero. Ma mai come in questi settimane, la sovranità nazionale è stata sistematicamente cancellata dalla Banca centrale europea. E quando Giuliano Ferrara ha annunciato che Silvio Berlusconi stava per dimettersi, gli scambi di Borsa Affari a Milano sono saliti precipitosamente e altrettanto repentinamente sono scesi quando l’ospite di Palazzo Chigi ha smentito le voci delle sue dimissioni.
I mercati non sono ovviamente antiberlusconiani, ma rimproverano al governo italiano di essere troppo poco radicale nell’applicare i diktat della Banca centrale europea. La possibile uscita di scena di Silvio Berlusconi non coincide con la sconfitta dell’uscita neoliberista dalla crisi del neoliberismo. Semmai assistiamo alle convulsioni di un sistema politico istituzionale alla ricerca di soluzioni che mettano in pratica quello che vogliono proprio i tecnocrati di Bruxelles.
Sia chiaro. Questo è solo una parte del fondale in cui collocare il contesto in cui il movimento italiano agisce. L’altra parte a che fare con la materialità della crisi economica, che sta voracemente divorando consuetudini, forme di vita, assetti di potere – sia istituzionale che sociale – e la geografia del capitalismo mondiale. Una crisi anomale, tuttavia. Viene ritenuta giustamente globale, ma presenta caratteristiche molto diverse a seconda delle latitudini. L’America latina, per esempio, ha tassi di crescita molto simili ormai a quelli di paesi come la Cina, l’India, la Russia. Nella vecchia Europa, divenuta il centro delle turbolenze finanziarie, la tensione tra differenze e ripetizioni nella manifestazione della crisi produce proposte politiche sul governo che tendono a stabilire gerarchie di potere non molte diverse da quelle che vediamo in azione su scala globale. Jurgen Habermas ha recentemente scritto su “Le Monde” che la crisi economica pone con forza, e nuovamente, la forma costituzionale che dovrà accompagnare l’Europa che uscirà dallo tsunami del debito sovrano. E per non smentire il suo patriottismo europeista, Hebermas tiene a precisare, in questo scritto, che l’Europa politica che uscirà dalla crisi non potrà che fare proprie le politiche dell’austerità dettate dalla Banca centrale. Il 15 ottobre va quindi pensato come un atto della messa in scena della crisi del capitalismo contemporaneo, all’interno del quale si sono manifestati le potenzialità, ma anche i limiti dei movimenti sociali. In primo luogo, la presenza di una generazione condannata alla precarietà, ma anche l’assenza di pratiche politiche adeguate alla sua irriducibilità a dispositivi di rappresentanza politica. L’unica cosa certa che si è manifestata è, anche qui, un ripiegamento su consolidate performance che oscillano tra il teatro di strada e la simulazione della guerriglia di strada. La scommessa da fare è semmai la rappresentazione di ben altra rappresentazione e regia da quella che vorrebbe che dalla crisi si esca con la riproposizione della stessa stesse forme di sfruttamento e di finanziarizzazione della vita activa, magari più mitigate di quelle finora operanti.
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Sono anni che le esperienze più innovative del pensiero critico radicale invitano a guardare senza timore ciò che è accaduto nel modo di produzione capitalistico, dove le dimensioni finanziaria, produttiva e riproduttiva costituiscono una totalità che rende spesso difficile distinguere il ruolo della finanza da quello propriamente produttivo o riproduttivo, intendendo con quest’ultimo non la riproduzione della specie, ma tutto ciò che ha avuto a che fare con i diritti sociali di cittadinanza. In tempi non sospetti, studiosi radicali e dunque non sprovveduti (Christian Marazzi, Carlo Vercellone, Andrea Fumagalli) hanno ampiamente argomentato che la finanza ha assunto una centralità inimmaginabile nel regime di accumulazione capitalistico. Non siamo, tuttavia, all’interno di quei cicli economici che tanto hanno appassionato teorici che pure hanno registrato la centralità della finanza. Tanto Immanuel Wallerstein che David Harvey – solo per citare gli studiosi che all’interno della tradizione socialista hanno provato ad innovarla – assegnano infatti alla finanza un ruolo certo rilevante, ma solo quando si è di fronte al declino di un modo di produzione e di un assetto geopolitico mondiale. La finanza, e su questo il volume di David Harvey L’enigma del capitale (Feltrinelli) è illuminante – è considerata una fase di passaggio tra un regime di accumulazione all’altro, da un modo di produzione all’altro. Insomma, una parentesi che presto o tardi lascierà il posto a un nuovo scenario economico, sociale e politico. Una lettura che rinvia a un prossimo futuro la possibilità di modificare i rapporti di forza nella società. Ma la finanza è ormai molto più che una parentesi, oppure lo strumento attraverso il quale viene governata una transizione. Le transazioni finanziarie, la borsa, i venture capital sono immanenti al capitalismo contemporaneo. Ne definiscono le caratteristiche, fino a diventare un dispositivo che ne garantisce la governamentalità. Per questo, plasma l’accesso ai servizi sociali, rendendo l’indebitamento un fattore costituivo del vivere in società. Dunque qualcosa che esonda il credito al consumo su cui tanti, a sinistra e nei movimenti, hanno visto il fattore scatenante della crisi. Una lettura autoconsolatoria, moralista, come moralista è il discorso di chi invoca la decrescita come strumento atto a contenere il consumo.
E’ però difficile applicare l’invito alla parsimonia quando cresce l’indebitamento per accedere alle cure mediche, alla formazione, alla comunicazione, alla mobilità. Ben prima che un modesto ministro del tesoro, tale Giulio Tremonti, parlasse di finanza creativa, milioni di uomini e donne hanno usato con maestria un indebitamento oculato per vivere in un era di salari bloccati. Oppure che hanno scelto, non tanto in Italia, i fondi pensione per controbilanciare il contenimento salariale su cui è prosperato il cosiddetto neoliberismo. La crisi economica ha reso evidente che l’indebitamento è l’immagine riflessa di una società dove i poveri non sono solo coloro che non trovano collocazione nel mercato del lavoro, perché povertà è divenuta la parola che viene usata, ipocritamente, per indicare il lavoro vivo nelle diverse forme che regolano la società salariale e, in misura minore, l’accesso al reddito.
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La finanza non è solo questo, ovviamente. E’ però rilevante sottolineare che la finanziarizzazione della vita definisce un panorama in cui il confine tra povertà relativa e povertà assoluta diventa evanescente, perché regolato proprio dalla gestione dell’indebitamento. Di fronte a tante analisi sul declassamento del ceto medio o della società low cost, il consumo è una componente del regime di accumulazione capitalistico che aiuta a definire anch’esso i rapporti di sfruttamento. Da questo punto di vita, l’indebitamento è stato per molto tempo la via spericolata affinché il salario non potesse essere considerato una variabile dipendente dei rapporti sociali di produzione, come invece postulava il mantra dispensato banche centrali o dalla Federal Reserve Bank.
La decrescita, così come certa retorica anticonsumista, prospetta un mondo, e dei rapporti sociali, incentrati sulla penuria. In fondo, i maggiori sponsor del consumo consapevole sono coloro che l’indebitamento generalizzato lo provoca. La crisi economica ha quindi messo in evidenza che la finanza non attiene più alla produzione di denaro a mezzo denaro, ma coinvolge e travolge la «vita activa». E allo stesso tempo ha rivelato la miseria di quella figura dell’individuo proprietario che ha tenuto banco per oltre un quindicennio.
La crisi dei mutui subprime, così quella del debito sovrano ha però mandato in frantumi proprio l’idealtipo dell’individuo proprietario. La sua fine non può che rallegrare. E suonano patetici gli inviti a ricostruirlo, magari mitigato da qualche intervento regolatore dello stato, ricondotto così alla sua funzione pastorale perché esercita un controllo e un potere di interdizione rispetto ai comportamenti che mettono a rischio un nuovo quadro di compatibilità. Nell’Europa del debito sovrano è questo il refrein che viene declamato con convinzione dalle diplomazie e dai governi nazionali, mai così esautorati dall’esercizio della propria sovranità. E questo svuotamento della sovranità nazionale e il commissariamento dei governi nazionali avviene perché la posta in gioco nel vecchio continente è alta e riguarda proprio la gestione della crisi. Le politiche di austerità cercano di ripristinare quel dispositivo che vede la finanza come strumento di governo del processo di accumulazione, di processi produttivi fortemente flessibili e piegati a strategie di innovazione di prodotto e di processo che hanno nella cooperazione sociale produttiva la loro linfa vitale. In altri termini, la via d’uscita dal neoliberismo è un neoliberismo più radicale (la finanziarizzazione della «vita activa»). E’ in questo contesto che molte anime belle del riformismo continentale lanciano grida d’allarme sul fatto che il neolibrismo è nemico giurato della democrazia, dimenticando tuttavia che le basi sono state gettate in quella conferenza di Lisbona dove la «società della conoscenza» veniva indicata come il passo successivo alle politiche tatcheriane che aveva imperversato a Ovest dell’Elba sin dagli anni Ottanta del Novecento.
Condizione necessaria per la società della conoscenza è quella precarietà nei rapporti di lavoro che ha preso il posto del lavoro a tempo indeterminato come norma dominante. Una precarietà che plasma i rapporti sociali, creando non pochi equivoci all’interno del pensiero critico e delle cosiddette pratiche di movimento. Condizione prevalentemente giovanile, sostengono alcuni. Condizione che attiene solo ad alcune figure del lavoro vivo (knowledge worker, freelance, la sequenza può essere molto lunga). Più semplicemente norma dominante. Dunque il precariato non come classe in divenire, ma come figura dominante di tutto il lavoro vivo, anche quando è a tempo indeterminato.
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Ma se questo è il fondale, d’altronde ampiamente noto, in cui collocare l’azione dei movimenti sociali, ben diverso è il palcoscenico vero e proprio. Qui vediamo articolare diversamente l’impoverimento, la finanziarizzazione del welfare state, perché tutto accade in presenza di cooperazione sociale produttiva, sapere, conoscenza messi al lavoro. E’ infatti difficile affermare apoditticamente che nelle economie capitaliste è in atto un processo di impoverimento assoluto, né che i fenomeni sociali possono essere ricondotti a un semplice declassamento delle condizioni di status che colpisce il novantanove per cento della popolazione, operando così, tramite una semplice constatazione della riduzione del reddito, una ricomposizione sociale del lavoro vivo che si pone invece come il nodo teorico, e dunque politico, ogni volta che un movimento sociale si trova nella condizione di dover fare i conti con la bestia nera del capitalismo cognitivo, cioè quella permanente destrutturazione e ricombinazione delle forze produttive, anche quando si tratta di affrontare il riscaldamento globale o il saccheggio delle terre da parte delle multinazionali agro-alimentari. Sia ben chiaro, non c’è nessuna possibilità di ripristinare nessuna ortodossia, né basta stringere le spalle, perché la crisi comporta una semplificazione della realtà. Più semplicemente, è proprio la crisi che pone al centro della scena il comune, che costituisce l’apriori e il prodotto della cooperazione sociale. Dunque i movimenti sociali occupano un palcoscenico dove grandi sono le possibilità di libertà, di democrazia radicale, ma anche dove è massimo il rischio di intraprendere strada già note che si sono rivelate vicoli ciechi.
E’ indubbio che gli indignati, e con caratteristiche diverse Occupy Wall Street, costituiscono una felice combinazione di critica alla dittatura della finanza e sperimentazione di una democrazia radicale che assume fino in fondo i mutamenti della forma stato prodotti dalla controrivoluzione liberale. Il diritto all’insolvenza, il rifiuto di pagare la crisi economica sono certo temi che incontrano consenso, mettendo in difficoltà governi nazionali e istituzioni sovranazionali. Ma il rischio è che anche queste esperienze cadano nella trappola di agire come un’opinione pubblica, cioè una variabile dipendente del sistema di potere.
Rischio molto alto, che pone la discussione su un altro piano. Anche in questo caso, va compiuto quel movimento del pensiero che afferma l’autonomia dei movimenti sociali, senza rifiutare di fare i conti con l’eterogeneità, la frammentazione dei movimenti sociali, che ormai hanno un andamento degli sciami che si formano, mostrano la loro potenza per poi disperdersi senza riuscire mai a cogliere i processi di costituzione e di dissoluzione dello sciame. E dunque lasciano da parte le lamentazioni delle letture sociologiche dei movimenti, un riflesso autoconsolatorio rispetto alle difficoltà di misurarsi con questa matassa di sfide teoriche e politiche , da parte delle pratiche di movimento. La posta in gioco è assumere la potenza dello sciame con la necessaria continuità politica, organizzativa dei movimenti sociali.
In tempi neanche tanto lontani, il tema di cosa differenzi un movimento sociale dalle forme novecentesche dell’azione politica è stato, per chi scrive, felicemente risolto attraverso una formulazione che recitava così: il movimento è lo spazio dove vengono politicizzati i rapporti sociali. Una formula, obietterebbe il solito informato. Più concretamente un programma di lavoro, una sfida teorica, che inanella tutti i nodi che i movimenti sociali si trovano a dover sciogliere. Cosa significa, ad esempio, bloccare i flussi di merci, informazioni,vdi lavoro vivo in una metropoli? Senza superare i confini nazionali, basterebbe ricordare l’esperienza dell’Onda o la proposta dello sciopero precario per segnalare che il problema è molto più cogente di quanto possa apparire. Oppure, la constatazione che i movimenti sociali riescono sì a rompere il monopolio della decisione politica, ma che spesso corrono ripristinano, in forme spurie, la democrazia rappresentativa o quella strana dimensione del politico che è la costruzione di un universale, che riassuma tutti i particolarismi, come sostiene la critica della ragione populista quando assegna a un potere esecutivo il momento della sintesi di alleanze sociali nate nella contingenza e dalla sommatoria delle singole debolezze.
Non si tratta di puntare l’indice verso questa o quella esperienza, ma di riconoscere le potenzialità dei movimenti, di riprendere il cammino quando è stato interrotto. Di fare cioè quell’esercizio che si base sull’ottimismo della ragione e della volontà, lasciando agli orfani del quarto stato e dell’altro movimento operaio la triste pratica della realpolitik e alle facili dicotomie che stabiliscono il confine tra sterili mimesi dell’insurrezione e una robusta e predefinita proposta politica che deve solo disfarsi degli ultimi residui passivi di un passato consegnato agli archivi. Più semplicemente, i movimenti sono sempre sul confine della rivolta e del ripiegamento negli angusto spazio concesso all’opinione pubblica. In fondo, non era stato detto, non molto tempo fa, che i tumulti erano proprio la forma prevalente dell’insubordinazione che allude tanto all’insurrezione che al rinnovamento della democrazia radicale nella Repubblica?
Il 15 Ottobre non è stata dunque una occasione persa, né una aggressione a un corteo, ma il condensato politico, e dunque teorico, di ciò che attiene al presente e al futuro dei movimenti. Un presente e un futuro il cui esito è ovviamente incerto.
Posted: Novembre 5th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Zizek: l’illusione della democrazia
Le proteste a Wall street e di fronte alla cattedrale di St. Paul a Londra hanno in comune “la mancanza di obiettivi chiari, un carattere indefinito e soprattutto il rifiuto di riconoscere le istituzioni democratiche”, ha scritto Anne Applebaum sul Washington Post. “A differenza degli egiziani di piazza Tahrir, a cui i manifestanti di Londra e New York si richiamano apertamente, noi abbiamo istituzioni democratiche”. Se si riduce la rivolta di piazza Tahrir a una richiesta di democrazia di tipo occidentale, come fa Applebaum, diventa ridicolo paragonare le proteste di Wall street a quelle in Egitto: come possono i manifestanti occidentali pretendere ciò che già hanno? Quello che la giornalista sembra non vedere è un’insoddisfazione generale per il sistema capitalistico globale, che in luoghi diversi assume forme diverse.
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