MUTUO SOCCORSO: RITORNO AL FUTURO

Posted: Luglio 12th, 2012 | Author: | Filed under: bio, comune, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 9 Comments »

di Roberto Ciccarelli

Lo spirito degli anni Novanta sta tornando. Non quelli del XX secolo, definiti da Joseph Stiglitz gli «anni ruggenti» della bolla finanziaria che ha portato all’esplosione dei mutui subprime negli Usa e del debito sovrano in Europa, bensì gli anni Novanta del secolo precedente, l’Ottocento.

E’ un ritorno al futuro. In una crisi che aumenta la disgregazione sociale e smentisce l’ipotesi di uno Stato sociale che accompagna le persone dalla culla alla bara, si torna a parlare di mutualismo. Nel XIX secolo questa pratica permise a operai, artigiani e contadini di creare le società del mutuo soccorso, le leghe di resistenza, le camere del lavoro per garantirsi l’istruzione, le tutele sociali, l’assistenza sanitaria e i fondi contro la disoccupazione. A quel tempo, in Italia c’erano 6700 mutue (800 mila soci effettivi). In Inghilterra c’erano oltre 24 mila società (oltre 4 milioni di soci), in Francia (6200 per 842 mila soci).

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Quinto stato

Posted: Giugno 23rd, 2012 | Author: | Filed under: comune, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo | Commenti disabilitati su Quinto stato

La nostra ASPIrazione: diritti, reddito, libertà contro la subordinazione

By Quintostato on 18 aprile 2012 07:07 in furia dei cervelli / 1 comment

Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli

L’Italia è oggi un laboratorio per le nuove tecniche di dominazione sociale che combinano l’arcaico e il più moderno. L’ultima riforma della legislazione del lavoro, che porterà il nome di un ministro «tecnico» che ha già riformato il sistema previdenziale, Elsa Fornero, consoliderà i rapporti di lavoro neo-schiavisti, a fronte di ristrutturazioni capitalistiche che univano frammenti di post-fordismo, con la permanenza di legami familistici e corporativi pre-moderni:
“La ratio dell’intervento è chiara: maggiore stabilità per i giovani in ingresso barattata con una maggiore facilità (leggasi libertà) di licenziamento da parte delle imprese; incoraggiamento del lavoro dipendente; disincentivazione dei contratti a termine e a progetto mediante aumento dei relativi contributi; contrasto alle finte partite IVA mediante, forse, l’introduzione dell’obbligo di stabilizzazione; sostegno al reddito limitato nel tempo e accompagnamento al reinserimento lavorativo per il dipendente che perde l’impiego” (Rete redattori precari).

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Marazzi

Posted: Giugno 16th, 2012 | Author: | Filed under: crisi sistemica, critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo | 5 Comments »

Un ambizioso volume collettivo che aiuta a comprendere i limiti delle
spiegazioni sulla crisi economica.

Una rivisitazione lucida, estremamente dettagliata e di grande attualità di
come gli economisti, dalla prima metà dell’Ottocento fino ad oggi, hanno
studiato e interpretato le crisi e i cicli economici, ci è offerta dal
volume Crises and Cycles in Economic Dictionaries and Encyclopedias
(Abington-New York, Routledge, pp. 676). Curata da Daniele Besomi, tra i più
importanti storici del pensiero economico contemporanei, con contributi di
diciotto economisti articolati in ventotto capitoli, questo lavoro parte
dalle voci di dizionari e enciclopedie che, nel tempo, sono state assegnate
a economisti per presentare in modo «pedagogico», non solo per specialisti,
il funzionamento contraddittorio dell’economia capitalista, il suo movimento
palindromico tra espansione, recessione e crisi, con particolare attenzione
alle cause di tali ricorrenze, siano esse di tipo «esogeno» o «endogeno»,
una distinzione ancora molto presente nel modo di interpretare la crisi
scoppiata nel 2008 e tuttora in corso. Ne esce un quadro complesso e
affascinante, in cui dalle analisi della prima metà dell’Ottocento delle
molteplicità di cause prese in esame, come gli errori della politica
economica, i cattivi raccolti, o il ruolo del credito e della finanza in
tempi non ancora sospetti, si giunge ai primi tentativi di elaborazione di
teorie generali della crisi, alla sua periodicità, per finire con le più
recenti analisi sempre più tecnico-empiriche del «ciclo economico reale»
poco o punto preoccupate di render conto dei grandi temi del valore, della
redistribuzione della ricchezza e dello sviluppo economico così centrali tra
gli economisti classici.
Oltre la Legge di Say
Lo sguardo retrospettivo sulle teorie del ciclo e della crisi, sul loro
rapporto all’interno di un capitalismo in costante mutazione e espansione,
permette di fissare alcuni passaggi salienti nel modo di rappresentare i
processi contraddittori dell’accumulazione capitalistica. Il primo è la
critica della Legge di Say, di quell’identità tra offerta e domanda che, a
partire da John Stuart Mill e poi da Marx, fino a J.M. Keynes e oltre,
evidenzia nella funzione del denaro come riserva del valore, e non solo come
mezzo di scambio, la possibilità della rottura della catena degli scambi
(tesaurizzazione o, keynesianamente, «preferenza per la liquidità») e,
quindi, della possibilità della crisi come conseguenza di tale rottura degli
scambi. Wilhelm Roscher, uno degli economisti tedeschi più influenti della
seconda metà dell’Ottocento, ne parlerà nella sua «voce» (1849), non senza
farsi accusare di plagio da Marx, ma tuttavia ponendo le basi, come scrive
Harald Hagemann, alle successive analisi delle crisi. Comunque lo si
interpreti, Roscher è l’esempio, come molti degli economisti presi in esame
dagli autori di Crises and Cycles, di come lo studio della stesura di voci
di dizionari costituisca un «genere» e una sorta di spia dello spirito del
tempo, in cui alle conoscenze acquisite e alla ricerca scientifica
«storicamente determinate» si accompagna una funzione divulgativa a
beneficio di un pubblico di non addetti ai lavori.
La crisi della Legge di Say, che Marx sviluppa nel primo Libro del Capitale
sulla base della teoria del valore-lavoro e del denaro nella sua funzione di
equivalente generale, si rivelerà ben presto un rompicapo in quanto non
sufficientemente radicale. La spiegazione della crisi a partire dalla
rottura della catena degli scambi, infatti, rimanda alla possibilità della
crisi da sovrapproduzione, ma non ancora alla sua realtà. Tant’è vero che
già nel 1866 Adolf Wagner, come scrive Vitantonio Gioia, cercherà di
dimostrare che la Legge di Say e l’equilibrio fondamentale tra domanda e
offerta su cui poggia, non è necessariamente inficiata dalla presenza del
denaro, anzi la speculazione finanziaria può avere una funzione di
regolazione ottimizzando l’allocazione del capitale. La sovraspeculazione,
questa sì, porta allo squilibrio tra offerta e domanda, col credito che alla
fine diventa più caro, la crescita che si arresta e il panico, la «corsa
agli sportelli», che esplode. Le osservazioni di Wagner evocano non poche
delle odierne interpretazioni della crisi finanziaria, salvo che a tutt’oggi
non risolvono il problema del rapporto fondamentale tra domanda e offerta
posto da Say, il fatto che, quando la sovraspeculazione (l’overtrading)
collassa, la sovrapproduzione si manifesta sistematicamente con tutta la sua
forza devastante. Il venir meno della «domanda aggiuntiva» generata dalla
sovraspeculazione non riporta all’equilibrio, come logicamente ci si
dovrebbe aspettare, bensì all’eccesso dell’offerta sulla domanda, un eccesso
che in tal senso si può supporre strutturale, consustanziale al ciclo
economico.
C’è, deve esserci una causa delle crisi più profonda del ciclo economico
stesso, qualcosa che trascende il sottoconsumo, dato che le crisi, tra
l’altro, scoppiano quando il consumo è al suo livello più elevato. È quanto
Daniele Besomi e Giorgio Colacchia ricercano con grande intelligenza nel
capitolo conclusivo dedicato ai dizionari del secondo dopoguerra. «Le crisi
ricorrono perché la contraddizione è permanente e la sua risoluzione,
attraverso la crisi, è necessaria ma può solo essere temporanea». La
previsione di Albert Aftalion del 1913, secondo cui nei decenni successivi
il termine crisi (…da sovrapproduzione) sarebbe stato sostituito dal
termine business cycle, si rivelerà solo parzialmente corretta, dato che,
dopo la parentesi dei Trenta Gloriosi durante i quali non solo il termine
crisi, ma addirittura la nozione di fluttuazione economica lascerà il posto
alle teorie della crescita, a partire dagli anni Novanta si assiste al
fenomeno inverso, ossia al prevalere degli studi della crisi su quelli del
ciclo economico. L’individuazione della crisi come una categoria «autonoma»
rispetto al ciclo economico e alle sue fluttuazioni, è storicamente
dimostrabile nella differenza delle voci dei dizionari precedenti e seguenti
gli anni Novanta del secolo scorso.
Una patologia logica
La teoria marxista delle crisi, in particolare nei dizionari tedesco
orientali, aveva certamente postulato l’indipendenza della crisi dalla
teoria borghese del ciclo economico (A. Bönisch, 1970-71). La crisi è «il
punto più elevato delle contraddizioni della produzione, ma anche il punto
in cui trova la sua soluzione attraverso la distruzione estensiva delle
forze produttive». Di fatto, la crisi è la massima espressione del capitale
come rapporto sociale, un rapporto che si invera nella contraddizione tra
forze produttive e rapporti di produzione, un rapporto che, come sottolinea
Nicolò De vecchi (1982), vieta di interpretare la marxiana caduta
tendenziale del saggio del profitto come una legge naturale, appunto
indipendente da tali rapporti sociali. La natura patologica delle crisi,
l’indipendenza («logica») delle crisi dall’andamento ciclico degli affari,
verrà esplicitata, anche se non completamente sviluppata, da Pierluigi
Ciocca (1991). La via è ora aperta per una interpretazione della crisi come
evento autonomo, come espressione della immanenza della natura sociale del
capitale.


Riflessioni amichevoli nella crisi attuale

Posted: Giugno 6th, 2012 | Author: | Filed under: critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo, Révolution | Commenti disabilitati su Riflessioni amichevoli nella crisi attuale

di ANTONIO NEGRI

1. Gli uomini per i quali sento una certa simpatia, si sono battuti, in Europa, nel secolo XX, attorno a tre obiettivi: per il socialismo contro il fascismo; per una Europa unita contro lo stato-nazione; per la pace contro la guerra. I primi due di questi obiettivi, nella crisi attuale, sembrano essersi fortemente appannati, e le lotte che ora si sviluppano attorno ad essi appaiono di risultato incerto – ed i risultati di quelle già sviluppatesi o dimenticati o in solida crisi. Quanto alla pace essa c’è ancora, ma quanto malsicura!

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Il grande alibi e la grande ipocrisia

Posted: Giugno 6th, 2012 | Author: | Filed under: crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo, postgender | Commenti disabilitati su Il grande alibi e la grande ipocrisia

di Sergio Bologna

E’ finito il tempo in cui tutta la crisi del paese si poteva addossare alle responsabilità della Lega e del Cavaliere. E’ finito il Grande Alibi con il quale certi partiti e grandi organi di stampa hanno vissuto, o vegetato, coprendo le loro responsabilità storiche con le immagini marionettistiche o truci di Bossi e Berlusconi. Adesso stanno lì, mezzi nudi, e la loro pochezza è sempre più visibile. Cercano di fare un po’ lo stesso giochetto con il governo Monti, ci provano, ma è più difficile, lo hanno voluto loro, lo ha confezionato il Presidente. Come si può sconfessare una cultura, propria di quella generazione di ex comunisti, che ha sempre visto il nemico a sinistra e considerato alla stregua dell’eversione le espressioni di autonomia di pensiero che si fanno rappresentanza?

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Illusioni perdute dell’altro mondo

Posted: Giugno 2nd, 2012 | Author: | Filed under: post-filosofia, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 33 Comments »

di Pierre Macherey

Il pensiero utopico aiuta a interpretare i periodi di transizione, quando il vecchio non è ancora morto e il futuro si manifesta con difficoltà. Nella crisi attuale può infatti fornire strumenti per elaborare realistiche strategie di resistenza al neoliberismo.

A differenza di quanto avveniva appena un secolo fa, oggi non si scrivono più grandi favole utopiche: le ultime, senza dubbio, sono state quelle di H. G. Welles le quali, però, si presentavano più come racconti d’anticipazione che come utopie in senso stretto.

Perché questo declino? Molto probabilmente perché si è consumata l’aspirazione che dava la forza di credere alla virtù delle utopie, quelle che si situavano all’incrocio dell’immaginario e del reale, in questo punto d’incertezza, ma anche di speranza, in cui sembra si prolunghino l’una nell’altra. È come se questa divisione tra immaginario e reale fosse divenuta insormontabile.

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Fred Moseley

Posted: Maggio 27th, 2012 | Author: | Filed under: crisi sistemica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Fred Moseley

Intervista a Fred Moseley a cura
della redazione di CONNESSIONI (maggio 2012)

1) Quali sono le cause dell’attuale crisi economica negli USA? Questa
crisi è legata alla crisi degli anni 70?

Questa è una grande domanda proverò a rispondere anche se brevemente.
Si, penso che questa crisi sia sicuramente legata alla crisi degli anni 70.
Questa crisi è la continuazione di quella degli anni 70 e il risultato delle azioni
intraprese dai capitalisti per risolverla. Quella degli anni 70 è stata
chiaramente una crisi di profittabilità, il tasso di profitto si era ridotto di circa il
50% dai livelli del dopo guerra negli USA (e un simile andamento si è avuto in
tutti gli stati capitalisti).
Ciò che è importante sottolineare è che i capitalisti risposero a questo
imponente declino del saggio di profitto facendo tutto ciò che potevano per
ripristinare il saggio di profitto ai livelli precedenti.
Queste azioni comportarono tagli generalizzati dei salari, specialmente ai
benefit, intensificazione del lavoro, globalizzazione ed esternalizzazione della
produzione verso aree del mondo a basso salario. Tutti questi fenomeni
conosciuti nelle decadi recenti sono il risultato del tentativo capitalista di
ristabilire il saggio di profitto.

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Intervista a Maurizio Lazzarato

Posted: Maggio 16th, 2012 | Author: | Filed under: comune, crisi sistemica, critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Intervista a Maurizio Lazzarato

Sovvertire la macchina del debito infinito
Intervista a Maurizio Lazzarato*

Dopo aver pubblicato la prefazione all’edizione italiana ritorniamo su La fabbrica dell’uomo indebitato di Maurizio Lazzarato con un’intervista all’autore su alcuni nodi del suo importante pamphlet.

Nel tuo saggio, riprendendo la seconda dissertazione de La Genealogia della morale di Nietzsche e L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, fornisci una ricostruzione del neoliberalismo secondo la quale attorno al debito si produce un dispositivo di potere che informa interamente l’infrastruttura biopolitica. Parafrasando Marx potremmo dire che il debito non è una cosa ma un rapporto sociale. Quale nesso intercorre tra la relazione creditore-debitore e la proprietà?

Il rapporto creditore-debitore è un rapporto organizzato attorno alla proprietà, è un rapporto tra chi ha disponibilità di denaro e chi non ce l’ha. La proprietà piuttosto che essere dei mezzi di produzione come diceva Marx, ruota attorno ai titoli di proprietà del capitale, quindi c’è un rapporto di potere che si è modificato rispetto alla tradizione marxiana, è deterrittorializzato per dirla con Deleuze e Guattari – è a un livello di astrazione superiore, ma è comunque organizzato attorno a una proprietà: tra chi ha accesso al denaro e chi non ce l’ha.

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Intervista a Jason Read

Posted: Maggio 4th, 2012 | Author: | Filed under: comune, postcapitalismo cognitivo, Révolution | Commenti disabilitati su Intervista a Jason Read

Un’intervista al filosofo autore di un fortunato saggio su
«Micro-Politics of Capital». La solitudine di una generazione dopo che
l’esplosione della bolla speculativa delle lauree ha radicalizzato la
competizione per accedere al mercato del lavoro.

Nel profondo Maine, ora governato da un aggressivo rappresentate del Tea
Party, ci sono almeno una ventina di inziative che hanno assunto il nome di
Occupy. Tra queste, l’occupazione della University of Southern Maine, in cui
insegna ed è politicamente attivo Jason Read. Il suo importante libro The
Micropolitics of Capital (Suny Press, 2003, ora disponibile anche in formato
ebook), che ha al proprio centro la questione della produzione di
soggettività, cerca di far dialogare il marxismo «postoperaista» con
l’apparato concettuale althusseriano, pur nei diversi e spesso contradditori
rivoli in cui si sono dispersi gli allievi del maestro francese.

La conversazione con Read è partita dai motivi che sono alla base della sua
ricerca. «Sono arrivato all’operaismo dall’anarchismo diffuso nei college
americani e soprattutto attraverso la pubblicazione del testo sull’autonomia
operaia di Semiotext(e): capii che dovevo leggere Marx. Credo che sia
possibile comprendere il capitalismo, teoricamente e politicamente, solo
afferrando la produzione di soggettività nel duplice significato del
genitivo: il pensiero althusseriano permette di elaborare un discorso su
come i soggetti sono costituiti, l’operaismo ha invece colto l’altra parte,
cioè la formazione del soggetto autonomo. É necessario mettere in relazione
e in tensione queste due letture, per porre a critica l’idea dominante
secondo cui tutto è strutturato dal capitale».

Come questo duplice concetto di produzione di soggettività può spiegare da
un lato le politiche neoliberali e la loro crisi, dall’altro le lotte e il
movimento Occupy?

La cosa più semplice che si può dire del neoliberalismo è che produce una
soggettività completamente individualizzata, presunte figure
autoimprenditoriali private di ogni identificazione collettiva. Se il
capitale fisso si soggettivizza, il capitale deve gestirlo e governarlo,
rendere le soggettività isolate, competitive e incapaci di articolare le
proprie relazioni sociali. Credo che il movimento Occupy stia creando un
significato della dimensione collettiva, producendo una soggettività
politica ma in assenza di un linguaggio che articola questa soggettività. È
necessario comprendere le nuove forme in cui la ricchezza è estratta e
permea l’intera vita, dal debito alla privatizzazione dei servizi. Lo
sfruttamento non è limitato al lavoro: dobbiamo allora approfondire questi
processi per capire le soggettività e le differenti forme di resistenza allo
sfruttamento.

Qual è lo spazio per questi temi nel dibattito teorico e politico
statunitense, dentro e fuori l’università?

Questi temi non si trovano necessariamente nei contesti in cui ce li
aspetteremmo. Prendiamo l’esempio del lavoro affettivo, che connette la
teoria degli affetti a partire dala filosodia di Spinoza, il contributo del
femminismo e le trasformazioni del lavoro. Questi differenti lati sono
limitati dai confini disciplinari e mai completamente articolati. Vi è poi,
politicamente, una discussione sul lavoro affettivo rispetto al lavoro di
cura, ma uno dei maggiori problemi è, almeno negli Stati Uniti, il reciproco
isolamento di politica e teoria: solo la loro interazione è in grado di
produrre una reale trasformazione. Chi è interessato a questi temi dal punto
di vista teorico li considera questioni accademiche, sconnesse
dall’attualità politica.

Tuttavia, esistono le possibilità di superare questo reciproco isolamento.
Molta della produzione teorica del movimento Occupy, ad esempio, ha preso
corpo innanzitutto attraverso i video, i blog, i siti: è avvenuto tutto
troppo velocemente per essere compreso o catturato dal meccanismo
dell’accademia. È però necessario creare degli spazi all’interno di Occupy
per la riflessione teorica: finora sono stati riempiti dai discorsi delle
«celebrità», come Slavoj Zizek o Judith Butler. Penso invece che già stiano
prendendo corpo i luoghi della discussione e dell’autoformazione, ma devono
crescere e determinare una prassi teorica che abbia continuità.
Il reciproco isolamento di pratica teorica e pratica politica rischia di
consegnare la prima all’accademia e la seconda a un attivismo che fa
difficoltà a costruire prospettiva.

Quali sono i tentativi di costruire quella che hai chiamato un’articolazione tra produzione di sapere e organizzazione politica?

Ci sono varie esperienze in questa direzione. La sfida è andare oltre
all’evento spettacolare: Occupy ha bisogno non di domande, perché ciò
presuppone qualcuno che vi risponda e le legittimi. Diciamo allora che ha
bisogno di articolare le proprie prospettive. C’è una resistenza da questo
punto di vista, che è parte della pluralità delle lotte. Ma a un certo punto
bisogna scegliere tra la completa trasformazione della struttura economica e
sociale, oppure la semplice limitazione legale dell’azione delle banche: se
non si costruisce un confronto critico tra queste differenti prospettive, la
semplice pluralità rischia di bloccare l’azione politica.

È qualcosa che sta avvenendo oppure è un’indicazione da costruire?

Ogni movimento sociale deve produrre il proprio sapere. Occupy ha portato a
galla ciò che già esisteva – come la privatizzazione e la militarizzazione
degli spazi urbani, o la criminalizzazione degli homeless – ma che era
passato senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Molte delle leggi usate
contro Occupy sono, ad esempio, quelle contro i senza casa o chi dorme in un
parco. Penso che l’autoformazione del movimento debba muoversi verso la
critica dell’economia politica. Uno dei limiti di Occupy è il modo di
pensare la produzione e la circolazione della ricchezza. È quindi di
strategica importanza la questione del debito. Essendo un dispositivo di
moralizzazione e individualizzazione, cioè è rappresentato come una forma di
dipendenza da nascondere, è difficile costruire azione collettiva.
Il debito da consumo riguarda l’uso della carta di credito, ma anche
l’esternalizzazione dei costi dei servizi sociali e le forme di produzione
della propria esistenza: viene così mistificato il passaggio dal pubblico al
privato. Per Occupy significa svillupare un punto di vista generale sui
commons, che finora negli Stati Uniti è stato innanzitutto incentrato sulla
gestione dello spazio e sul fatto che la politica debba riguardare le
persone e non le imprese. Il passaggio è comprendere il comune come ciò che
viene prodotto collettivamente. Perciò la produzione di ricchezza è una
questione teorica centrale per andare oltre il dispositivo di moralizzazione
e individualizzazione del debito.

Il debito studentesco è anche una forma di canalizzazione delle scelte di
studio e di vita, in un certo senso è un regime di controllo dei
comportamenti futuri. Il debito è dunque un dispositivo di produzione di
soggettività…

Questo è il punto: il debito forza continuamente lo studente a sacrificare
il presente per il futuro. Gli studenti che si indebitano per andare
all’università non si chiedono a cosa sono interessati o quali sono i loro
desideri, ma semplicemente qual è lo spazio per un futuro nel mercato del
lavoro. È terribilmente vincolante ed agisce dall’alto e dal basso.
Dall’alto c’è uno spostamento dei costi dell’università dal pubblico al
privato. Nelle università pubbliche americane due terzi dei costi della
formazione erano pagati dallo Stato e un terzo dagli studenti: ora il
rapporto è rovesciato, e i costi a carico dello studente stanno
ulteriormente crescendo. C’è una trasformazione dell’università pubblica in
università del debito. Dal basso, produce un soggetto costretto a essere
interessato solo ai programmi e ai saperi che offrono la possibilità di
ripianare il debito, come medicina, giurisprudenza, business e così via.
Diminuiscono invece le domande per filosofia, sociologia, arte, le
humanities in generale. Ai docenti di queste discipline non viene detto che
non possono insegnare, ma che non ci sono domande; così filosofia viene
trasformata in etica medica. Dunque, la ristrutturazione sembra venire dal
basso, dai supposti bisogni della sovranità dei consumatori, però si tratta
di consumatori indebitati, le cui domande sono prodotte dall’università
stessa.

Tutto ciò mentre l’università cessa di essere un ascensore per la mobilità
sociale e il valore delle lauree è una bolla ormai esplosa…

Da tempo, negli Stati uniti c’è una discussione proprio sulla bolla delle
lauree dequalificate: il debito, ad esempio, ha prodotto molti più avvocati
di quanti riuscissero a trovare un lavoro. C’è dunque un’inflazione di ciò
che si immagina essere spendibile sul mercato del lavoro; molte figure
altamente specializzate non riescono a trovare un’occupazione nel campo per
cui si sono indebitate. Per tanti anni in questo paese si è detto che le
scienze di programmazione informatica avevano un alto valore, nessuno
pensava che il lavoro potesse essere esternalizzato in India a una forza
lavoro meno costosa.
La logica mercantile che sottostà alla specializzazione crea problemi di
sovrapproduzione e vede una massa di studenti che non possono ripianare il
debito e quindi devono cercare lavori che non hanno nulla a che fare con
quello che hanno studiato.
Poi c’è la retorica secondo cui quello che viene richiesto ai lavoratori
sono competenze generiche e non specializzate, la capacità di pensare
criticamente, l’intelletto in generale e non le sue specifiche forme.
Nessuno più ci crede. La specializzazione è quindi esclusivamente una forma
di disciplinamento dei lavoratori, che ti rende pronto ad accettare tutto.
Inoltre, se le lauree diventano sempre più iperspecialistiche è perché vi è
una stretta parternship tra gli interessi economici locali e le università:
se il settore assicurativo o quello finanziario o l’ospedale hanno un ruolo
importante in una città, i programmi universitari saranno costruiti di
conseguenza. Così, ti devi indebitare per la tua specializzazione, per il
tirocinio, per aggiornare le tue competenze che diventano rapidamente
obsolete.

Il debito, in particolare quello studentesco, sta diventando una questione
importante nel movimento Occupy, soprattutto con la campagna Occupy Student
Debt. Quali prospettive vedi?

Sul sito di Occupy Wall Street le persone descrivono la propria condizione
economica, i debiti contratti e quanti lavori fanno, mostrando il gap
incolmabile tra debito e salario. Quando dentro Occupy si parla di debito
c’è la preoccupazione che si possano creare divisioni: altre generazioni
sono andate a scuola dentro differenti regimi finanziari, dunque c’è il
problema di articolare la solidarietà tra queste diverse esperienze di
debito studentesco. Credo che ciò sia possibile solo comprendendo come il
debito abbia permesso la diminuzione dei salari reali. Il debito ha
consentito agli americani di percepirsi ancora come classe media, è stato un
enorme strumento di pacificazione. Puoi avere la casa, la macchina, mandare
i figli al college e finché dura, pur nella stagnazione salariale, ti senti
rappresentato e soddisfatto della società in cui vivi. Adesso che tutto ciò
è collassato, il problema è come produrre una soggettività politica del
debitore, in grado di andare oltre i processi di individualizzazione.

Quali sono, in generale, le prospettive del movimento Occupy a partire dalla
May Day?

Una grande sfida nei prossimi mesi sarò di rimanere separati dalla scadenza
elettorale, soprattutto perché il Partito democratico sta cercando di
ringiovanirsi attraverso Occupy. Il movimento si è identificato nella
tattica dell’occupazione, centrale e necessaria, capace di comporre e
mobilitare figure e spazi che vivono in una condizione di frammentazione e
precarietà. Allo stesso tempo bisogna creare altre tattiche, come hanno
fatto ad Oakland bloccando il porto. Come organizzare uno sciopero di massa
dei debitori? Come agire senza creare una centralizzazione della decisione
politica? Un movimento deve essere capace di auto-sostenersi, per tirare
fuori le persone che sono state arrestate durante gli sgomberi, creare reti
di solidarietà che consentano di avere cibo e supportare chi sciopera.
Bisogna pensare a forme di redistribuzione e riappropriazione, creare
davvero un’istituzione del comune: non una semplice protesta, ma un processo
costituente.

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SCAFFALE

Dall’etica di Spinoza alla scuola di Althusser
Laureato nel 1994, Jason Read ha conseguito il dottarato alla «State
University of New York» con una tesi su «The Production of Subjectivity:
Marx and Contemporary Continental Thought». Autore di un saggio su
«Micro-Politics of Capital» (Suny Press), Read ha pubblicato molti saggi
attorno alla filosofia di Baruch Spinoza ed è considerato uno delle figure
emergenti del pensiero critico radicale Usa. Molto attivo nel movimento
Occupy, ha scritto molti interventi e saggi su come è cambiato il sistema
universitario statunitense a partire dall’equivalente Usa del «debito
d’onore».

il manifesto


“In colpa di fronte al Dio-Capitale”

Posted: Aprile 21st, 2012 | Author: | Filed under: critica dell'economia politica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su “In colpa di fronte al Dio-Capitale”

Su LA FABBRICA DELL’UOMO INDEBITATO di Maurizio Lazzarato

Tra debito e credito passa una relazione politica, non solo economica. Che attraversa e unifica tutto il campo sociale.

ALIAS – il manifesto

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