Posted: Marzo 27th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, post-filosofia | 42 Comments »
di Giorgio Agamben
Nell’immediato dopoguerra il filosofo francese Alexandre Kojève aveva
suggerito la creazione di un’unione dei paesi mediterranei accomunati da
cultura e interessi. Alla luce della problematica ascesa della Germania come
potenza continentale, questa idea potrebbe tornare attuale.
Nel 1947 un filosofo, che era anche un alto funzionario del governo
francese, Alexandre Kojève, pubblicò un testo dal titolo L’impero latino,
sulla cui attualità conviene oggi tornare a riflettere. Con singolare
preveggenza, l’autore affermava che la Germania sarebbe diventata in pochi
anni la principale potenza economica europea, riducendo la Francia al rango
di una potenza secondaria all’ interno dell’ Europa continentale.
Kojève vedeva con chiarezza la fine degli stati-nazione che avevano segnato
la storia dell’ Europa: come l’ età moderna aveva significato il tramonto
delle formazioni politiche feudali a vantaggio degli stati nazionali, così
ora gli stati-nazione dovevano cedere il passoa formazioni politiche che
superavano i confini delle nazioni e che egli designava col nome di
“imperi”.
Alla base di questi imperi non poteva essere, però, secondo Kojève, un’
unità astratta, che prescindesse dalla parentela reale di cultura, di
lingua, di modi di vita e di religione: gli imperi – come quelli che egli
vedeva già formati davanti ai suoi occhi, l’ impero anglosassone (Stati
Uniti e Inghilterra) e quello sovietico dovevano essere «unità politiche
transnazionali, ma formate da nazioni apparentate». Per questo, egli
proponeva alla Francia di porsi alla testa di un “impero latino”, che
avrebbe unito economicamente e politicamente le tre grandi nazioni latine
(insieme alla Francia, la Spagna e l’ Italia), in accordo con la Chiesa
cattolica, di cui avrebbe raccolto la tradizione e, insieme, aprendosi al
mediterraneo.
La Germania protestante, egli argomentava, che sarebbe presto diventata,
come di fatto è diventata, la nazione più ricca e potente in Europa, sarebbe
stata attratta inesorabilmente dalla sua vocazione extraeuropea verso le
forme dell’ impero anglosassone. Ma la Francia e le nazioni latine sarebbero
rimaste in questa prospettiva un corpo più o meno estraneo, ridotto
necessariamente al ruolo periferico di un satellite.
Proprio oggi che l’ Unione europea si è formata ignorando le concrete
parentele culturali può essere utile e urgente riflettere alla proposta di
Kojève. Ciò che egli aveva previsto si è puntualmente verificato. Un’ Europa
che pretende di esistere su una base esclusivamente economica, lasciando da
parte le parentele reali di forma di vita, di cultura e di religione, mostra
oggi tutta la sua fragilità, proprio e innanzitutto sul piano economico.
Qui la pretesa unità ha accentuato invece le differenze e ognuno può vedere
a che cosa essa oggi si riduce: a imporre a una maggioranza più povera gli
interessi di una minoranza più ricca, che coincidono spesso con quelli di
una sola nazione, che sul piano della sua storia recente nulla suggerisce di
considerare esemplare. Non solo non ha senso pretendere che un greco o un
italiano vivano come un tedesco; ma quand’ anche ciò fosse possibile, ciò
significherebbe la perdita di quel patrimonio culturale che è fatto
innanzitutto di forme di vita. E una politica che pretende di ignorare le
forme di vita non solo non è destinata a durare, ma, come l’ Europa mostra
eloquentemente, non riesce nemmeno a costituirsi come tale.
Se non si vuole che l’ Europa si disgreghi, come molti segni lasciano
prevedere, è consigliabile pensare a come la costituzione europea (che, dal
punto di vista del diritto pubblico, è un accordo fra stati, che, come tale,
non è stato sottoposto al voto popolare e, dove loè stato, come in Francia,è
stato clamorosamente rifiutato) potrebbe essere riarticolata, provando a
restituire una realtà politica a qualcosa di simile a quello che Kojève
chiamava l'”Impero latino”.
Posted: Marzo 17th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, comune, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Walter Benjamin. Una costellazione che brilla di nuova luce
di Paolo B. Vernaglione
Giorgio Agamben, sprofondato per anni nello studio del pensiero e dell’opera di Walter Benjamin, porta alla luce il senso storico dell’opera dell’autore dei Passagen. In anni di ricerche, nel paziente lavoro archeologico di documentazione e restitutio in integrum del pensiero del più importante e necessario critico e teorico del materialismo, si dispiega una ragione costruttiva dell’intero testo vivente che costituisce l’opera di Benjamin. E’ il risultato di una scrupolosa e ahimè oggi non praticata documentazione e ricostruzione filologica dell’opera benjaminiana che ha condotto Agamben a ritrovare un significato eccedente ogni qualificazione del Benjamin “già edito”.
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Posted: Febbraio 22nd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, epistemes & società, post-filosofia, Révolution | Commenti disabilitati su Deleuze
di Fabrizio Denunzio
Nuova edizione di un saggio germinale di Gilles Deleuze dedicato al filosofo David Hume. Una teoria del rapporto tra stato e società postrivoluzionarie alimentata dal ruolo che alcuni sentimenti hanno nel costruire un nuovo ordine
Leggendo con attenzione Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume di Gilles Deleuze (nuova edizione a cura di A. Vinale, Cronopio, pp. 174, euro 16), si rimane sorprendentemente impressionati dalla volontà dell’autore di confrontarsi con il mondo delle scienze sociali. La sorpresa dipende in massima parte dalla formazione culturale di Deleuze e dal momento storico in cui compare il suo libro.
Come ricorda il curatore, a cui dobbiamo una nuova traduzione che ha il merito di emendare quella precedente di Marta Cavazza e di rendere quanto mai lucido il complesso dettato originale deleuziano, il lavoro su Hume inizia nel 1947 in occasione del conseguimento del diploma nazionale per l’insegnamento scolastico della filosofia e viene pubblicato nel 1953.
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Posted: Febbraio 16th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, comune, post-filosofia, vita quotidiana | 10 Comments »
di Marco Dotti
Furio Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo, Roma 2013
«Non è niente, sono qui, sono ancora qui». Arthur Rimbaud concludeva con queste parole la rivendicazione di un’infanzia sfrontata, in quell’«inferno che sovverte l’ordine» che per molti tratti fu la Comune di Parigi. Un ritorno a cui Rimbaud aggiunse, alla maniera di un post-scriptum, un’altra attestazione, stavolta relativa all’azzeramento di ogni senso di colpa. Fosse pure, questo senso di colpa, postumo, preventivo o soltanto preteso: «Industriali, principi, senati: a morte! Ci è dovuto», scriveva il diciottenne Rimbaud.
Era il 1872 e l’eco della Comune si poteva ancora sentire, ma i suoi giorni erano oramai proscritti dalla ripresa di un tempo storico che cannoni e baionette del generale e futuro presidente Mac-Mahon avevano saputo riattivare nel corso ordinario delle cose. Il tempo “borghese”, ritrovava così la sua scansione ritmica nel doppio coup al tavolo gioco e davanti alla macchina che garantiva serialità del lavoro.
Quanto di questo tempo era rimasto e ancora rimaneva attaccato a chi, fosse pure per poco, si era sentito animato e sconvolto dalla zona franca e comune della rivolta? Quale stratificazioni di lieux communs, di vecchi abiti scambiati per nuovi e di nuovi presi per vecchi nel corso riattivato delle cose? Quel corso delle cose che, è vicenda nota, venne interrotto solo per poche settimane dal 18 marzo alla fine di maggio del 1871, quando con la Comune si instaurò – la definizione è di Furio Jesi – «un tempo di qualità inconsueta», quasi festiva, dove ogni avvenimento sembrava accadere lì e ora, ma per sempre. Qualche mito genuino sembrava allora mostrarsi, ma presto si sarebbe ingenuamente “corrotto” al contatto con l’ombra delle grandi mitologie borghesi che già avevano marchiato la storia.
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Posted: Febbraio 14th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, philosophia, post-filosofia, vita quotidiana | 9 Comments »
di ANTONIO GNOLI
“ARRENDIAMOCI, NON POSSIAMO CONOSCERE LA REALTÀ”.
Parla il filosofo Carlo Sini mentre viene ripubblicata la sua opera che mette in discussione il pensiero occidentale.
Ho qualche dubbio che i filosofi – come si sente dire in giro – conoscano i
sentieri della felicità e ci accompagnino per mano lungo quegli ameni
percorsi. Ma un tale sospetto non deve indurre a gettarci tra le braccia dei
torturatori del concetto, dei paranoici del pensiero, attenti a che nulla
del reale sfugga alla loro occhiuta attenzione. La filosofia ha molto di
problematico, di sfuggente, soprattutto oggi in cui le certezze sono messe
in discussione alla radice. E a pensarlo, fra gli altri, con un percorso
molto originale, è Carlo Sini che sta per compiere 80 anni. Allievo di
Emanuele Barié ed Enzo Paci, per decenni professore di teoretica alla
cattedra di Milano, Sini sta pubblicando per Jaca Book la sua intera opera.
Dove ha sparso i suoi interessi: nel mondo antico, che è all’origine –
almeno in Occidente – del passaggio denso di conseguenze dall’oralità alla
scrittura; in quello moderno sovrastato da Spinoza ed Hegel e infine in
quello contemporaneo dal quale affiorano i nomi di Husserl, Peirce e
Wittgenstein.
«È un quadro veritiero, fatalmente approssimativo quello che lei riassume.
Ma in fondo l’ultima parola non è mai la nostra. Diceva Peirce: il
significato della mia vita è affidato agli altri».
Ma gli altri possono avere molti pregiudizi.
«Il che prova che la verità non è mai qualcosa di definitivo, siamo sempre
in errore. In cammino. Non a caso io parlo di “transito della verità”».
A nessuno piace l’errore. La filosofia greca e poi il cristianesimo ci hanno
insegnato a diffidare dell’errore e del peccato, suggerendo i modi per
evitarli.
«C’è in queste filosofie o visioni del mondo un’idea di perfezione che ha
provocato danni e fraintendimenti. E tutto ciò è nato dalla pretesa di
affidare alla scrittura il ruolo di cardine su cui l’Occidente ha fondato il
proprio sapere».
Prima i saperi si costituivano oralmente. Poi arriva la scrittura. Tutto
diventa più semplice. Perché diffidarne?
«Non è una diffidenza, ma la consapevolezza che l’introduzione della
scrittura modifica la nostra percezione del mondo. Il Logos, di cui parlano
i greci, non potrebbe sussistere senza la scrittura».
Perché?
«Per il semplice motivo che ogni scrittura ha un supporto che è fuori dal
corpo di chi parla. La scrittura – diversamente dall’oralità – ci pone di
fronte a un sapere oggettivo che va interpretato. Quando è la voce a
trasmettere il sapere, non c’è separazione o distanza tra ciò che diciamo e
il mondo che lo accoglie e di cui facciamo parte. Nella scrittura invece va
ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà con la scienza».
Questo è un passaggio ulteriore.
«È una continuità. Senza la scrittura alfabetica e matematica – che sono
scritture per tutti – non avremmo avuto l’universale e quindi la scienza.
L’universale – che i greci hanno chiamato Logos – ha determinato il corso
del sapere occidentale. È stata la nostra forza, la nostra potenza, ma anche
la nostra superstizione e il nostro equivoco».
Capisco la potenza, ma perché superstizione ed equivoco?
«Per la semplice ragione che sia la scienza che il senso comune pensano che
ci sia un mondo fuori di noi che possiamo conoscere».
Effettivamente è così: da un lato la realtà dall’altro noi che l’avviciniamo
e la conosciamo. Se vuole, molto rozzamente, siamo in una delle tante
versioni del realismo.
«Posizione ingenua. Perché o noi facciamo parte di quella realtà oppure è
illusorio pensare di conoscerla».
Eppure, se non riuscissi a distinguermi dalla realtà esterna, allo stesso
modo, non potrei conoscerla.
«Obiezione giusta. Nel senso che noi siamo parte della realtà pur
distinguendoci da essa. Siamo parte della verità ma non siamo la verità».
Un bel paradosso. Allora cosa siamo?
«Siamo nella differenza del sapere, o meglio siamo in ciò che chiamo
“l’essere in errore”. Verità ed errore sono in qualche modo due facce della
stessa medaglia ».
Anche la scienza partecipa della verità e dell’errore. Ne fa esperienza, nel
senso che corregge continuamente l’errore.
«Il lavoro della scienza è meraviglioso, va bene così, ne beneficiamo tutti.
Sarebbe insensato rifiutare la scoperta di una cura contro il cancro o
condannare
un treno perché copre distanze lunghe in tempi sempre più brevi. Altra cosa
è l’idea che gli scienziati per lo più si fanno del loro lavoro. Qui prevale
quello che Husserl chiamava il pregiudizio “naturalistico”. Ossia il
riferimento ingenuo e inconsistente a un misterioso mondo che è “là fuori” e
a un ancor più misterioso “qui dentro”».
Lei, insomma, mette in discussione il modo tradizionale di concepire il
dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto, la realtà e la coscienza. Dove
collocherebbe tutto ciò?
«Nella vita che si svolge e che si traduce negli innumerevoli archivi
dell’accaduto, i quali ricompongono di continuo il passato in nuovi archivi
e mappe per il futuro».
Vedo che usa la parola “archivio”. Immagino che non sia solo il deposito
delle conoscenze al quale attingiamo.
«È qualcosa di più strategico, è il modo di venire alla luce della verità
pubblica».
I filosofi hanno a volte il vizio di rispondere a una complicazione con una
complicazione ulteriore. Cos’è la verità pubblica?
«È quella, per esempio, che in questo momento io e lei pratichiamo in questa
conversazione».
Una conversazione che al lettore potrà apparire troppo tecnica.
«Un margine di oscurità è preferibile a insulse certezze. E poi distinguerei
tra competenza e sapere, anche se tra loro sono connessi. Una competenza
analitica la posso apprendere anche da un computer opportunamente
programmato; il sapere in senso complessivo non può invece fare a meno del
coinvolgimento delle emozioni corporee profonde. Si tratta di creare
un’intesa condivisa, cioè anche pubblica o comune».
Ciò che è pubblico è anche esposto al fraintendimento, al rumore mediatico,
al sentire massificato.
«Che cosa sia stato e sia nel profondo il “secolo della masse” –
l’espressione deriva da Sorel – è ancora una domanda attuale. Non abbiamo un
pensiero all’altezza del problema, io credo. Che cosa significa fare
politica, fare cultura, e quindi fare anche filosofia, in un tempo
globalizzato, massificato, mercificato e via dicendo, non l’ha chiaro
nessuno. La fiumana trascina le nostre antiche barche, ormai senza governo».
Appellarsi al passato o alla tradizione?
«Mi sembra evidente che la nostra grande tradizione storico-culturale si è
formata in società così differenti dall’attuale che la pretesa di travasare
in essa i nostri contenuti e i nostri stili di pensiero si rivela fatalmente
utopica».
Propone una variante della filosofia della crisi?
«No, ma occorre prendere atto della crisi se la si vuole affrontare. Direi
perciò che l’evidente crisi del modello capitalistico va in parallelo con la
crisi di ciò che un tempo si considerava alta cultura. Il liberalismo
politico e il liberalismo economico sono falliti nei loro propositi
esattamente come la scuola pubblica e l’universale alfabetizzazione. Non
possiamo rinunciarvi perché non conosciamo modelli più efficienti o più
realistici, ma non ne deriviamo affatto quel benessere per tutti e quella
diffusa formazione critica e liberatrice che erano attesi».
Suggerisce la rassegnazione?
«Suggerisco la consapevolezza. Ogni civiltà è destinata a tramontare: “Della
civiltà non rimarrà che un cumulo di macerie e di cenere, ma sopra le ceneri
aleggerà lo spirito”, lo ha detto Wittgenstein. Ci troviamo in mezzo a un
grande sommovimento che ci sovrasta e ci inquieta. Il nostro compito è
rimettere in gioco la verità. Disincagliarla dal dogmatismo. Non conosco
modo migliore per riprendersi il futuro».
Posted: Febbraio 5th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, kunst, post-filosofia | Commenti disabilitati su Agalma 24
DA NIETZSCHE A BREIVIK
di Mario Perniola
Anche questo numero è monografico, come il n. 5 (Magnificenza e mondo antico di Sarah F. Maclaren), il n. 18 (Strategie del bello. Quarant’anni di estetica italiana 1968-2008) e il n. 20-21 (La società dei simulacri) entrambi scritti interamente dal sottoscritto. Del testo che qui viene proposto furono pubblicate solo cinquecento copie nel 1986. E’ stata l’edizione brasiliana Ligação Direta – Estética e Política, Florianopolis, Editora UFSC, 2011, a rivelarne l’attualità. Segno che esso tratta di processi storici di durata relativamente lunga, il cui inizio è da individuarsi negli anni Sessanta del Novecento. Fu allora che avvenne una profonda cesura storica che si manifestò in tutti gli ambiti della cultura e della vita privata e collettiva. Nacque in Occidente una nuova civiltà che fu chiamata in vari modi: “società dello spettacolo”, “società dei consumi”, “società della comunicazione”, “società dei simulacri”, e così via. Tutto quello che avverrà dopo, era già in germe allora. L’estetica e la politica hanno rappresentato luoghi di osservazione privilegiati, perché essi sono stati i primi ad essere destabilizzati e destrutturati. Volendo individuare due episodi emblematici di questo profondo cambiamento, indicherei il successo mondiale della Pop Art dal 1960 in poi, e la soluzione della crisi dei missili di Cuba nell’ottobre 1962. Col primo apparve chiaro che qualsiasi cosa poteva diventare arte, col secondo che la cosiddetta Guerra Fredda tra l’USA e l’URSS non sarebbe mai diventata calda. In altre parole, non valeva la pena morire né per l’arte, né per la politica. Pochissimi si resero conto che questi due fatti avevano aperto orizzonti post-artistici e post-politici che furono poi ampiamente percorsi in moltissime direzioni nei decenni successivi fino ad oggi. Il sociologo tedesco Arnold Gehlen proprio allora aveva previsto l’avvento di un fenomeno di cristallizzazione delle società occidentali: questa è una condizione che interviene allorquando le possibilità contenute in un certo contesto sono tutte sviluppate nel loro patrimonio fondamentale. La società diventa tanto uniforme e omogenea che non ci sono più differenze culturali e personali. Secondo tale impostazione, nulla di veramente importante o di decisivo può più accadere: tutte le attività sono coinvolte in questo processo generale di restringimento e di raggrinzimento, una specie di “esonero” (Entlastung) da quell’ambizione di rapporto con l’essenziale e il decisivo, su cui si fondava la possibilità dell’azione. Si entra in una fase che è stata definita col termine di post-historia.
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Posted: Febbraio 3rd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, post-filosofia | Commenti disabilitati su Foucault
Foucault: pensare la storia della verità con Nietzsche
di Giuseppe Zuccarino
Il 2 dicembre 1970, Michel Foucault tiene la lezione inaugurale della nuova cattedra di Storia dei sistemi di pensiero, istituita per lui al Collège de France. Il testo, che è di carattere programmatico, sarà pubblicato poco tempo dopo, nella forma di un volumetto dal titolo L’ordre du discours(1). In questo scritto, fin quasi dall’esordio, il filosofo espone la sua tesi di fondo, secondo cui «in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e ridistribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità»(2).
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Posted: Gennaio 30th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: arts, critica dell'economia politica, Marx oltre Marx, post-filosofia | Commenti disabilitati su Karl Marx’s Grundrisse
di ANTONIO NEGRI
1. Cominciai a lavorare sui Grundrisse negli anni ’60. Quando cominciai ero comunista da parecchio tempo, non ancora marxista. Avevo lavorato molto su Kant, Hegel, e il neokantismo, Max Weber, Lukacs e poi, infine, all’inizio degli anni ’60, avvicinandomi ai 30 anni, avevo cominciato a leggere Il Capitale. Già prima ero passato attraverso le interpretazioni alla moda del giovane Marx: i Frühschriften li avevo letti e discussi (in Francia, in Italia, in Germania – non si può immaginare l’intensità delle emozioni sollevate da quella “scoperta”!) nel clima di un certo esistenzialismo umanistico. Ne trassi le stesse ambivalenti (se non equivoche) impressioni che avevo avute studiando il marxismo sartriano. Di conseguenza non avevo avuto difficoltà a cogliere una certa ragionevolezza nella “cesura epistemologica” che Althusser aveva proclamato. Questa cesura non rappresentava per me un elemento né rilevante né decisivo dal punto di vista filologico: lo era piuttosto (come d’altronde voleva Althusser) dal punto di vista di un’ermeneutica politica e polemica “situata” (come, appunto, in un Kampf-platz) del pensiero rivoluzionario, nell’epoca delle ultime smanie dell’hegelismo dialettico – in occidente come in oriente. Il materialismo marxiano mi sembrava divenire “intero” proprio passando attraverso questa rottura – rottura anti-umanista, nel senso che le illusioni dell’umanesimo borghese sarebbero state a quel punto definitivamente scacciate – e soprattutto nel senso che la dialettica hegeliana era effettivamente messa da parte. Per noi, educati nell’hegelismo e alle infinite variazioni della “coscienza infelice”, questo passaggio era necessario: costituiva una propedeutica alla militanza rivoluzionaria.
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Posted: Gennaio 19th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, bio, post-filosofia | Commenti disabilitati su Axel Honneth
di Emmanuel Renault
Il filosofo Axel Honneth ha da sempre sottolineato la sfida morale fra le motivazioni e giustificazioni dell’azione rivoluzionaria. Esistono molte altre letture, fino all’idea degli individui «maschere economiche» che giocano ruoli teatrali. Oggi a Roma un incontro.
La riflessione honnethiana sulle motivazioni dei conflitti sociali ha condotto ad affrontare la questione del riconoscimento in Marx in una prospettiva diversa da quella dell’opposizione habermasiana tra lavoro e interazione, contribuendo ad aprire nuovi dibattiti. In Lotta per il riconoscimento, Honneth ha proposto di distinguere, tra le motivazioni dei conflitti, delle motivazioni utilitaristiche da altre che rinviano al riconoscimento, e ha sostenuto che il giovane Marx ha tentato «di interpretare i conflitti sociali della sua epoca come una lotta morale che i lavoratori oppressi conducono per ristabilire le condizioni sociali di un pieno riconoscimento». Tra i marxisti, però, sono pochissimi a pensare che la questione del riconoscimento potrebbe chiarire l’immagine che Marx si faceva delle lotte del proletariato, o il modo in cui bisogna comprendere le lotte popolari attuali.
In questo dibattito, nel quale si intrecciano molteplici questioni, la problematica honnethiana ha consentito di prestare attenzione al fatto che i sentimenti di vergogna, disprezzo e umiliazione giocano un ruolo importante in Marx, che li riconduce alla loro origine sociale e li presenta nella loro dimensione di protesta. Nella Questione ebraica, si sostiene che la società dominata dal denaro fa del «disprezzo dell’uomo un fine in sé». Le Note su James Mill sottolineano che nella società alienata il lavoratore non soffre soltanto di povertà, ma anche di umiliazione: «chi non ha nessun credito non è giudicato semplicemente come un povero, ma anche, moralmente, come qualcuno che non merita fiducia né riconoscimento, come un paria, un uomo malvagio; oltre alle privazioni, il povero subisce l’umiliazione di abbassarsi a mendicare il credito del ricco».
[relazione]
Il testo presentato qui è a firma del giovane direttore di «Actuel Marx», la rivista francese che da tempo lavora a una riflessione spregiuticata e tuttavia rigorosa non tanto sull’opera marxiana, bensì sulla sua ricezione. In «Acutel Marx» hanno scritto e scrivono Jacques Bidet, Etienne Balibar e Michael Löwy. In anni passati si è contraddistinta nell’analisi critica del cosiddetto «marxismo analitico» di provenienza anglosassone e della filosofia di Axel Honneth sulla «teoria del riconoscimento», rappresentando una delle riviste più attente alla «renaissance» marxiana. Oggi a Roma, presso il Dipartimento di filosofia dell’Universitò La Sapienza di Roma (Villa Mirafiori, Via Carlo Fea 2, aula XII) ci sarà un seminario su «Dinamiche del riconoscimento». L’incontro, che inizierà alle ore 15, prevede una relazione introduttiva di Stefano Petrucciani a cui seguiranno gli interventi di Dephine Kolesnik, Francesco Toto, Pierre Girard e Roberto Finelli. Sabato, invece, i lavori prevedono le relazioni di Emmanuel Renault, Lucio Cortella e Eleonora Piromalli.
Posted: Gennaio 5th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: post-filosofia | Commenti disabilitati su Quel pastiche addomesticato
di Massimiliano Guareschi
Tradotto il saggio di François Cusset sulla «French Theory». Un testo sulla ricezione accademica statunitense dell’opera di alcuni filosofi francesi. Una ricostruzione che aiuta a ripensare criticamente il ruolo del radicalismo politico americano Le tesi di autori tra loro così diversi assemblate come un improbabile corpus teorico L’emergere di uno stile enunciativo assertivo teso a legittimare politiche delle identità e del riconoscimento.
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