“Siamo pronti anche ad altri interventi non convenzionali”, dichiara solenne Draghi dalla Reggia di Capodimonte a Napoli. I banchieri applaudono all’eroe della faccia espansiva dell’austerity: da Intesa San Paolo/Banconapoli a Unicredit, è tutto un inno allo sforzo erculeo del banchiere buono per vincere l’idra a doppia testa della recessione e del debito. Intanto, i manifestanti della benemerita mobilitazione Block Bce decidono, con una schivata intelligente, di sciamare per il quartiere Sanità, dove il corteo non ha alcuna difficoltà a farsi capire. Lì hanno le idee molto chiare sulla natura della crisi: un enorme processo di estrazione e di concentrazione di ricchezza, che distrugge quel che resta del welfare, impone precarietà, traduce l’instabilità finanziaria in un tentativo continuo di rafforzamento del comando.
The communism of capital? What could this awkward turn of phrase mean, and what might it signify with regards to the state of the world today? Does it merely describe a reality in which communist demands are twisted to become productive of capital, a capitalist realism supplemented by a disarmed communist ideology? Or does the death of the capitalist utopia mean that capital cannot contain the antagonism expressed by Occupy and other movements anymore, and therefore must confront communism upfront?
1. “Il movimento del valore d’uso”. Così, in un articolo pubblicato sul primo numero di “Metropoli” (Prima pagano, meglio è), Franco Piperno definiva i comportamenti sociali che avevano violentemente acquisito visibilità e forza attorno al ’77: “queste nuove forme di vita che pretendono di usare tutta la ricchezza disponibile e intendono lavorare solo quando attività e bisogno coincidono”. Era il 1979, era passato da poco aprile, e Piperno scommetteva sulla continua moltiplicazione ed espansione di una “domanda selvaggia di una vita quotidiana degna di essere vissuta”, a un tempo esito e motore del lungo Sessantotto italiano. Si cercherebbe invano nell’articolo di Piperno una “teoria” del valore d’uso, ma il riferimento alla categoria è di per sé significativo. Anche al di fuori dell’Italia, negli anni Sessanta e Settanta, non erano mancati usi originali del concetto di valore d’uso (se mi si passa il bisticcio). Ne menziono soltanto uno, in qualche modo suggerito dal riferimento alla “vita quotidiana” da parte di Piperno. Henri Lefebvre costruì interamente la sua teoria dell’urbano attorno alla connessione tra uso, valore d’uso e “opera”, distinguendo quest’ultima dal “prodotto”, legato a doppio filo al valore di scambio. La storia dell’industrializzazione è, nella prospettiva di Lefevbre, storia dell’esplosione e della catastrofe dell’urbano, lacerato nella sua natura appunto di “opera” dalla generalizzazione dello scambio, dal divenire merce del suolo e dalla rottura dello specifico rapporto tra potere e collettività che aveva caratterizzato la città tradizionale. Erano semmai le lotte urbane, unificate dalla rivendicazione al “diritto alla città”, a ricollegarsi su basi completamente nuove alla città come “opera”: queste lotte e queste pratiche di appropriazione apparivano coerentemente a Lefebvre come un movimento del valore d’uso.
Nel 1991, cadde il Muro di Berlino e l’Unione Sovietica era sul punto di esalare l’ultimo respiro. L’euforia della vittoria si spandeva fra coloro che erano sempre stati, o almeno da qualche tempo, convinti che il libero mercato e la democrazia occidentale fosse l’ultima parola nella storia. Fra la sinistra radicale, inclusi coloro che non avevano mai nutrito alcuna illusione circa “il socialismo attualmente esistente”, c’era molta costernazione. Era davvero impossibile superare il capitalismo? Era necessario limitarsi d’ora in poi a fare solo occasionali modeste riforme? In tale contesto, la comparsa di un libro scritto in tedesco, intitolato “Il crollo della modernizzazione: dalla caduta del socialismo da caserma alla crisi economica mondiale” (Kurz 1991) poteva non sembrare bizzarro. Non di meno, questo libro, pubblicato da una grande casa editrice, ebbe un sostanziale impatto su una recentemente “riunita” Germania.
(Domanda). Ormai diversi anni fa, alcuni tuoi scritti riguardanti l’oggetto di questa intervista sono stati raccolti in un testo il cui titolo, Dalla fabbrica alla metropoli, rimanda all’adagio secondo cui la metropoli sta alla moltitudine come, una volta, la fabbrica stava alla classe operaia. Vorrei oggi parlare con te di cosa le trasformazioni, i movimenti e la crisi globale di questi anni ci dicono rispetto all’analisi della metropoli intesa come griglia analitica attraverso cui è possibile rileggere e interpretare molte categorie di lettura del presente. Recentemente – in particolare nell’intervento Per la costruzione di coalizioni moltitudinarie in Europa – hai fatto cenno all’esigenza di sottoporre a verifica critica alcune categorie consolidate dell’esperienza post-operaista: vorrei chiederti anzitutto se ritieni che anche questo schema di lettura del rapporto fra metropoli e moltitudine debba essere sottoposto a verifica e aggiornamento.
Non passa giorno senza che il governo francese dichiari fedeltà alle strategie economiche più liberiste: «politica dell’offerta», tagli alla spesa pubblica, stigmatizzazione degli «sprechi» e degli «abusi» nella previdenza sociale. Tanto che il padronato esita sulla condotta da tenere. E la destra confessa il proprio imbarazzo davanti a un tale livello di plagio…
Il faut avoir sérieusement forcé sur les boissons fermentées, et se trouver victime de leur propension à faire paraître toutes les routes sinueuses, pour voir, comme s’y emploie le commentariat quasi-unanime, un tournant néolibéral dans les annonces récentes de François Hollande [1]. Sans porter trop hauts les standards de la sobriété, la vérité appelle plutôt une de ces formulations dont Jean-Pierre Raffarin nous avait enchantés en son temps : la route est droite et la pente est forte — mais très descendante (et les freins viennent de lâcher).
Per cominciare ringrazio tutti per aver letto il libro e «Materiali foucaultiani» per aver organizzato il forum! Non è una cosa scontata!
1. Non sostengo che la morale del debito sostituisce quella del consumo. Trattando del debito dicevo che la “crisi” mette in primo piano la colpa legata al debito, ma questo non esclude le altre morali, le fa invece funzionare insieme.
Nell’introduzione all’edizione italiana dicevo che le differenti morali (la morale del lavoro, la morale del consumismo, la morale del debito) convivono in maniera più contraddittoria di prima del 2007. L’esempio della «televisiun che ha la forza di un leun», con il suo discorso significante colpevolizzante (i giornali televisivi) e le semiotiche della pubblicità che spinge a un consumo compulsivo e frustrante, voleva mostrare questa coesistenza.
Come può il compagno Chicchi dire che la morale della colpa non funziona più, quando tutte le “riforme di struttura” hanno al loro centro e come obiettivo principale il mercato del lavoro?
Intervista a cura di Beppe Caccia – Metropolitan Multiversity
Abbiamo intervistato Christian Marazzi a Lugano, nei giorni della tempesta che ha investito le valute delle potenze economiche emergenti e all’indomani del referendum con cui oltre il 50 per cento degli elettori svizzeri hanno chiesto misure restrittive nei confronti dell’immigrazione proveniente dai paesi dell’Unione Europea. Ne è venuta fuori una lettura originale e stimolante delle politiche monetarie seguite dalla Federal Reserve Bank americana e dalla Banca Centrale Europea, nel quadro dell’evoluzione della crisi finanziaria globale. E alcune utili indicazione per i movimenti sociali costituenti in Europa.
Anche nella comunicazione dominante, la narrazione della “ripresa” ha sostituito la retorica dei “sacrifici”: dalle “lacrime e sangue” dell’austerity si è passati a descrivere l’apertura di un nuovo ciclo, di una nuova fase economica di superamento della crisi. Quanto c’è di reale in questo discorso, guardando ovviamente alle diverse aree economiche e politiche del pianeta? Un discorso vale sicuramente per gli Stati Uniti, un discorso vale per le cosiddette “economie emergenti”, un discorso vale per l’Europa. Ma possiamo dire che la crisi è entrata in una nuova fase e che questa è caratterizzata, in qualche modo, da una “ripresa”?