Our Future, Our Money

Posted: Settembre 14th, 2011 | Author: | Filed under: crisi sistemica, critica dell'economia politica | Commenti disabilitati su Our Future, Our Money

“The only way to learn is by doing. [The point is] to learn in order to realize goals that were previously considered as unimaginable”, Michael Hardt and Antonio Negri.

Capitalism is ontologically (and almost economically) dead, thus we do not need the kind of transitory revolutions that characterized the relation of opposition between those who produce real value and those who simply invest capital for production to occur. Another transitory revolution would cause a temporary resurrection of capitalism: indeed, capitalism can exist only if something else, us – or the multitude, continue to fight against it. By contrast, the singularities composing the multitude should have the interest on putting their hands on the dispostifs of the State only for dismantling them. A better strategy is a non-reactionary exodus from capital towards a self sustaining, horizontally developed and cooperation-inducing G/Local multi-currency system.

There is the need for a revolutionary transition. What does this mean?

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Il lungo purgatorio che ci attende

Posted: Settembre 12th, 2011 | Author: | Filed under: BCE, crisi sistemica | 9 Comments »

di Bifo

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“L’operaio tedesco non vuol pagare il conto del pescatore greco.” dicono i pasdaran dell’integralismo economicista. Mettendo lavoratori contro lavoratori la classe dirigente finanziaria ha portato l’Europa sull’orlo della guerra civile. Le dimissioni di Stark segnano un punto di svolta: un alto funzionario dello stato tedesco alimenta l’idea (falsa) che i laboriosi nordici stiano sostenendo i pigri mediterranei, mentre la verità è che le banche hanno favorito l’indebitamento per sostenere le esportazioni tedesche.Per spostare risorse e reddito dalla società verso le casse del grande capitale, gli ideologi neoliberisti hanno ripetuto un milione di volte una serie di panzane, che grazie al bombardamento mediatico e alla subalternità culturale della sinistra sono diventati luoghi comuni, ovvietà indiscutibili, anche se sono pure e semplici contraffazioni. Elenchiamo alcune di queste manipolazioni che sono l’alfa e l’omega dell’ideologia che ha portato il mondo e l’Europa alla catastrofe:

Prima manipolazione:

riducendo le tasse ai possessori di grandi capitali si favorisce l’occupazione. Perché? Non l’ha mai capito nessuno. I possessori di grandi capitali non investono quando lo stato si astiene dall’intaccare i loro patrimoni, ma solo quando pensano di poter far fruttare i loro soldi. Perciò lo stato dovrebbe tassare progressivamente i ricchi per poter investire risorse e creare occupazione. La curva di Laffer che sta alla base della Reaganomics è una patacca trasformata in fondamento indiscutibile dell’azione legislativa della destra come della sinistra negli ultimi tre decenni.

Seconda manipolazione:

prolungando il tempo di lavoro degli anziani, posponendo l’età della pensione si favorisce l’occupazione giovanile. Si tratta di un’affermazione evidentemente assurda. Se un lavoratore va in pensione si libera un posto che può essere occupato da un giovane, no? E se invece l’anziano lavoratore è costretto a lavorare cinque sei sette anni di più di quello che era scritto nel suo contratto di assunzione, i giovani non potranno avere i posti di lavoro che restano occupati. Non è evidente? Eppure le politiche della destra come della sinistra da tre decenni a questa parte sono fondate sul misterioso principio che bisogna far lavorare di più gli anziani per favorire l’occupazione giovanile. Risultato effettivo: i detentori di capitale, che dovrebbero pagare una pensione al vecchietto e un salario al giovane assunto, pagano invece solo un salario allo stanco non pensionato, e ricattano il giovane disoccupato costringendolo ad accettare ogni condizione di precariato.

Terza manipolazione:

Occorre privatizzare la scuola e i servizi sociali per migliorarne la qualità grazie alla concorrenza. L’esperienza trentennale mostra che la privatizzazione comporta un peggioramento della qualità perché lo scopo del servizio non è più soddisfare un bisogno pubblico ma aumentare il profitto privato. E quando le cose cominciano a funzionare male, come spesso accade, allora le perdite si socializzano perché non si può rinunciare a quel servizio, mentre i profitti continuano a essere privati.

Quarta manipolazione:

I salari sono troppo alti, abbiamo vissuto al disopra dei nostri mezzi dobbiamo stringere la cinghia per essere competitivi. Negli ultimi decenni il valore reale dei salari si è ridotto drasticamente, mentre i profitti si sono dovunque ingigantiti. Riducendo i salari degli operai occidentali grazie alla minaccia di trasferire il lavoro nei paesi di nuova industrializzazione dove il costo del lavoro era e rimane a livelli schiavistici, il capitale ha ridotto la capacità di spesa. Perché la gente possa comprare le merci che altrimenti rimangono invendute, si è allora favorito l’indebitamento in tutte le sue forme. Questo ha indotto dipendenza culturale e politica negli attori sociali (il debito agisce nella sfera dell’inconscio collettivo come colpa da espiare), e al tempo stesso ha fragilizzato il sistema esponendolo come ora vediamo al collasso provocato dall’esplodere della bolla.

Quinta manipolazione:

l’inflazione è il pericolo principale, al punto che la Banca centrale europea ha un unico obiettivo dichiarato nel suo statuto, quello di contrastare l’inflazione costi quel che costi.

Cos’è l’inflazione? E’ una riduzione del valore del denaro o piuttosto un aumento dei prezzi delle merci. E’ chiaro che l’inflazione può diventare pericolosa per la società, ma si possono creare dei dispositivi di compensazione (come era la scala mobile che in Italia venne cancellata nel 1984, all’inizio della gloriosa “riforma” neoliberista). Il vero pericolo per la società è la deflazione, strettamente collegata alla recessione, riduzione della potenza produttiva della macchina collettiva. Ma chi detiene grandi capitali, piuttosto che vederne ridotto il valore dall’inflazione, preferisce mettere alla fame l’intera società, come sta accadendo adesso. La Banca europea preferisce provocare recessione, miseria, disoccupazione, impoverimento, barbarie, violenza, piuttosto che rinunciare ai criteri restrittivi di Maastricht, stampare moneta, dando così fiato all’economia sociale, e cominciando a redistribuire ricchezza. Per creare l’artificiale terrore dell’inflazione si agita lo spettro (comprensibilmente temuto dai tedeschi) degli anni ’20 in Germania, come se causa del nazismo fosse stata l’inflazione, e non la gestione che dell’inflazione fece il grande capitale tedesco e internazionale.

Ora tutto sta crollando, è chiaro come il sole. Le misure che la classe finanziaria sta imponendo agli stati europei sono il contrario di una soluzione: sono un fattore di moltiplicazione del disastro. Il salvataggio finanziario viene infatti accompagnato da misure che colpiscono il salario (riducendo la domanda futura), e colpiscono gli investimenti nella istruzione e nella ricerca (riducendo la capacità produttiva futura), quindi immediatamente inducono recessione. La Grecia ormai lo dimostra. Il salvataggio europeo ne ha distrutto le capacità produttive, privatizzato le strutture pubbliche demoralizzato la popolazione. Il prodotto interno lordo è diminuito del 7% e non smette di crollare. I prestiti vengono erogati con interessi talmente alti che anno dopo anno la Grecia sprofonda sempre più nel debito, nella colpa, nella miseria e nell’odio antieuropeo. La cura greca viene ora estesa al Portogallo, alla Spagna, all’Irlanda, all’Italia. Il suo unico effetto è quello di provocare uno spostamento di risorse dalla società di questi paesi verso la classe finanziaria. L’austerità non serve affatto a ridurre il debito, al contrario, provoca deflazione, riduce la massa di ricchezza prodotta e di conseguenza provocherà un ulteriore indebitamento, fin quando l’intero castello crollerà.

A questo i movimenti debbono essere preparati. La rivolta serpeggia nelle città europee. In qualche momento, nel corso dell’ultimo anno, ha preso forma in modo visibile, dal 14 dicembre di Roma Atene e Londra, all’acampada del maggio-giugno di Spagna, fino alle quattro notti di rabbia dei sobborghi d’Inghilterra. E’ chiaro che nei prossimi mesi l’insurrezione è destinata a espandersi, a proliferare. Non sarà un’avventura felice, non sarà un processo lineare di emancipazione sociale.

La società dei paesi è stata disgregata, fragilizzata, frammentata da trent’anni di precarizzazione, di competizione selvaggia nel campo del lavoro, e da trent’anni di avvelenamento psicosferico prodotto dalle mafie mediatiche, gestite da criminali come Berlusconi e Murdoch.

L’insurrezione che viene sarà un processo non sempre allegro, spesso venato da fenomeni di razzismo, di violenza autolesionista. Questo è l’effetto della desolidarizzazione che il neoliberismo e la politica criminale della sinistra hanno prodotto nell’esercito proliferante e frammentato del lavoro.

Nei prossimi cinque anni possiamo attenderci un diffondersi di fenomeni di guerra civile interetnica, come già si è intravisto nei fumi della rivolta inglese, ad esempio negli episodi violenti di Birmingham. Nessuno potrà evitarlo, e nessuno potrà dirigere quell’insurrezione, che sarà un caotico riattivarsi delle energie del corpo della società europea troppo a lungo compresso, frammentato e decerebrato.

Il compito che i movimenti debbono svolgere non è provocare l’insurrezione, dato che questa seguirà una dinamica spontanea e ingovernabile, ma creare (dentro l’insurrezione o piuttosto accanto, in parallelo) le strutture conoscitive, didattiche, esistenziali, psicoterapeutiche, estetiche, tecnologiche e produttive che potranno dare senso e autonomia a un processo in larga parte insensato e reattivo.

Nell’insurrezione ma anche fuori di essa dovrà crescere il movimento di reinvenzione d’Europa, ponendosi come primo obiettivo l’abbattimento dell’Europa di Maastricht, il disconoscimento del debito e delle regole che l’hanno generato e lo alimentano, e lavorando alla creazione di luoghi di bellezza e di intelligenza, di sperimentazione tecnica e politica.

La caduta d’Europa (inevitabile) non sarà un fatto da salutare con gioia, perché aprirà la porta a processi di violenza nazionalista e razzista. Ma l’Europa di Maastricht non può essere difesa.

Compito del movimento sarà proprio riarticolare un discorso europeo basato sulla solidarietà sociale, sull’egualitarismo, sulla riduzione del tempo di lavoro, sulla redistribuzione della ricchezza, sull’esproprio dei grandi capitali, sulla cancellazione del debito, e sulla nozione di sconfinamento, di superamento della territorialità della politica.

Abolire Maastricht, abolire Schengen, per ripensare l’Europa come forma futura dell’internazionale, dell’uguaglianza e della libertà (dagli stati, dai padroni e dai dogmi)

E’ probabile che il prossimo passaggio dell’insurrezione europea abbia come scenario l’Italia.

Mentre Berlusconi ci ipnotizza con i suoi funambolismi da vecchio mafioso, eccitando l’indignazione legalitaria, Napolitano ci frega il portafoglio. La divisione del lavoro è perfetta. Gli indignati d’Italia credono che basti ristabilire la legalità perché le cose si rimettano a funzionare decentemente, e credono che i diktat europei siano la soluzione per le malefatte della casta mafiosa italiana. Dopo trent’anni di Minzolini e Ferrara non ci dobbiamo meravigliare che si possa credere a favole di questo genere. Il Purgatorio che ci aspetta è invece più complicato e lungo.

Dovremo forse passare attraverso un’insurrezione legalitaria che porterà al disastro di un governo della Banca centrale europea impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari.

Sarà quel governo a distruggere definitivamente la società italiana, e i prossimi anni italiani saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. E’ meglio saperlo.

Ed è anche meglio sapere che una soluzione al problema italiano non si trova in Italia, ma forse (e sottolineo forse) si troverà nell’insurrezione europea.

10 settembre 2011


Zizek

Posted: Settembre 2nd, 2011 | Author: | Filed under: crisi sistemica | Commenti disabilitati su Zizek

Slavoj Žižek: Saccheggiatori di tutto il mondo, unitevi (Lenin + Smiths?)

La ripetizione, secondo Hegel, svolge un ruolo storico fondamentale: una cosa che accade solo una volta può essere liquidata come un caso, un evento che avrebbe potuto essere evitato se la situazione fosse stata gestita diversamente; ma il suo ripetersi è sintomo di una dinamica storica più profonda.

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resistenza

Posted: Settembre 1st, 2011 | Author: | Filed under: BCE, crisi sistemica, critica dell'economia politica | Commenti disabilitati su resistenza

Il diritto alla bancarotta come contropotere finanziario

di Andrea Fumagalli *

Solo il diritto all’insolvenza degli stati potrebbe smontare il potere finanziario. L’Euopa potrebbe cambiare le regole e unire le sue politiche fiscali Una finanza mondiale grande otto volte l’economia reale non è sopportabile e la politica monetaria aiuta la speculazione

In queste settimane di crisi finanziaria e di pressione speculativa sui paesi mediterranei, l’Europa non ha fatto una bella figura. E non poteva essere altrimenti, dal momento che la costruzione di un’Europa politica, economica e sociale è ancora lungi dall’essere raggiunta. I poteri sono in mano alla Bce, che detta legge, tramite l’asse Merkel -Sarkozy. Eppure, ci potrebbero essere gli spazi per creare le premesse della costruzione di quell’Unione europea, sociale, economica, solidale e federale che tutti auspichiamo, in grado di essere superiore agli opportunismi nazionalistici.

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crisi

Posted: Agosto 27th, 2011 | Author: | Filed under: crisi sistemica, critica dell'economia politica | Commenti disabilitati su crisi

Dietro e oltre la crisi (1)

di Guglielmo Carchedi*

La crisi finanziaria del 2007-2010 ha riacceso la discussione sulle crisi, sulla loro origine e sui loro possibili rimedi (2). Oggigiorno, la tesi più influente nella sinistra identifica le cause della crisi da una prospettiva sottoconsumista e raccomanda politiche redistributive e politiche di investimento Keynesiane come soluzioni. Questo articolo sostiene che la giusta prospettiva per capire la crisi dovrebbe essere la legge della caduta tendenziale del tasso di profitto medio (TPM) di Marx, in breve la legge. La sua caratteristica è che il progresso tecnologico diminuisce il TMP piuttosto che aumentarlo, come si pensa comunemente. Vediamo perché.

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Sassen

Posted: Agosto 18th, 2011 | Author: | Filed under: crisi sistemica, riots | 1 Comment »

Saskia Sassen: «Con i riots la storia volta pagina»

Data di pubblicazione: 17.08.2011

di Benedetto Vecchi

Il nuovo ruolo dei conflitti di strada e di piazza nel processo di trasferimento della ricchezza dai poveri ai ricchi, peculiare della fase attuale del capitalismo. Il manifesto, 17 agosto 2011

Causati anche dall’esproprio di ricchezza verso banche e enti sovranazionali, i riots inglesi segnano il limite delle democrazie liberali, qualcosa di simile al passaggio storico dal Medioevo alla modernità: che cosa resterà in piedi?

Non si sottrae alle domande. Precisa più volte il suo pensiero. Anche se vive divisa tra New York e Londra, legge attentamente i giornali per capire cosa sta accadendo nella vecchia Europa, dove ha avuto la sua educazione sentimentale alle scienze sociali, prima di spostarsi in America Latina e successivamente negli Stati Uniti. Saskia Sassen è nota per il suo libro sulle Città globali (Utet), anche se i suoi ultimi libri su Territori, autorità, diritti (Bruno Mondatori) e Sociologia della globalizzazione (Einaudi) ne hanno fatto una delle più acute studiose su come stia cambiando i rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giuridico sotto l’incalzare di una globalizzazione economica che sta mettendo in discussione anche la sovranità nazionale. Per Saskia Sassen, il capitalismo non può che essere globale. E per questo ha bisogno di istituzioni politiche e organismi internazionali che garantiscono la libera circolazione dei capitali e le condizioni del suo regime di accumulazione della ricchezza. Per questo ha sempre guardato con sospetto le posizioni di chi considerava finito lo stato-nazione. Come ha più volte sottolineato, lo stato-nazione non scompare, ma cambia le sue forme istituzionali affinché la globalizzazione prosegua, industriata, il suo corso. E allo stesso tempo ha sempre sottolineato come le disuguaglianze sociali siano immanenti al capitalismo contemporaneo. Ma l’intervista prende avvio dalle rivolte inglesi, a cui ha dedicato un articolo, scritto con Richard Sennet, e apparso sul New York Times. Articolo nel quale, fatto abbastanza inusuale per gli Stati Uniti, i due studiosi pongono la centralità della «questione sociale» per comprendere cosa stia accadendo nel Regno Unito, ma anche negli Stati Uniti e nel resto d’Europa.

La rivolta come reazione violenta alla disoccupazione; oppure come effetto del perverso fascino che esercitano le merci. Sono le due spiegazioni dominanti sulle sommosse che hanno investito Londra e altre città inglese. Qual è, invece, il suo punto di vista?

In ogni sommossa c’è uno specifico insieme di elementi che consentono allo scontento generale di convergere e prendere forma nelle azioni di strada. In Gran Bretagna ci sono tre grandi componenti che hanno provocato la rivolta a Londra, Birmingham, Liverpool, Manchester e altra città del Regno unito.

La prima componente è la strada, cioè lo spazio privilegiato da chi non ha accesso ai consolidati e codificati strumenti politici per la propria azione politica. Nelle rivolte inglesi è emersa una forte ostilità verso la polizia, incendi, distruzione della proprietà privata. Ad essere colpiti sono stati negozi o edifici gestiti, abitati da persone che vivono la stessa condizione sociale dei rivoltosi.

Il secondo elemento che ha funzionato come detonatore è la situazione economica, che vede la perdita del lavoro, di reddito, la riduzione dei servizi sociali per una parte rilevante della popolazione. Per me questo aspetto ha influito molto di più nello scatenare la rivolta più che l’uccisione di un giovane uomo di colore da parte della polizia. La disoccupazione giovanile è, nel Regno Unito, al 19 per cento. Una percentuale che raddoppia in alcune aree urbane, come quella del quartiere dove viveva il giovane ucciso.

Il terzo fattore sono i social media, che possono diventare uno strumento davvero efficace per far crescere una mobilitazione. E in Inghilterra c’è stata una successione davvero interessante nell’uso dei social media. Inizialmente Twitter e Facebook sono stati usati per informare su ciò che stava accadendo e per invitare la popolazione a scendere nelle strade. Ma la seconda notte, la parte del leone l’hanno fatta gli smartphone Blackberry, perché usano un servizio di messaggistica che non può essere intercettato dalle forze di polizia. La grande capacità dei social media di funzionare come strumento di coordinamento della rivolta è data dal fatto che la successione degli scontri appare come scandita da un preciso piano. I focolai della rivolta sono stati più di trenta, quasi che tutto sia stato pianificato e coordinato, appunto, con i social media.

Uno solo di questi fattori non spiegherebbe quattro notti di scontri, incendi, saccheggi. Presi insieme, ogni fattore ha alimentato l’altro. Inoltre, sono convinta che se usciamo da una espressione asettica come disagio sociale il disagio sociale ci troviamo di fronte a storie dove il dolore, la collera delle proprio condizioni di vita non cancellano la speranza per un futuro diverso. Queste sommosse rendono evidente una questione sociale che non può essere affrontata, come ha fatto David Cameron, come un fatto criminale.

Londra è una delle città globali da lei studiata. Una metropoli che vede una stratificazione sociale molto articolata. Città globale vuol dire povertà, precarietà nei rapporti di lavoro. Inoltre la crisi economica sta provando un impoverimento che non risparmia nessuno dei gruppi e classi sociali della popolazione, eccetto solo per quei top professional che non sanno bene cosa significa la parola crisi. Non potremmo dire che le rivolte inglese sono figlie del neoliberismo?

In tutte le città globali la povertà è una costante. Inoltre, ho spesso scritto che le dinamiche economiche, sociali e politiche insite nella globalizzazione hanno come esito una crescita di lavori sottopagati e dei cosiddetti working poors, i lavoratori poveri. Ci troviamo di fronte a una situazione dove il passaggio dalla disoccupazione a lavori sottopagati e dequalificati è continuo. Uno degli aspetti, invece, meno indagati delle global cities, e su cui sto lavorando all’interno del progetto di ricerca The Global Street, Beyond the Piazza, è il ruolo sempre più rilevante assunto dalla cosiddetta cultura di strada nel condizionare le forme di azione politica tanto a Nord che a Sud del pianeta.

I conflitti di strada sono parte integrante della storia moderna, ma erano sempre complementari alle forme politiche consolidate. Recentemente, invece, hanno assunto un ruolo più rilevante, perché l’occupazione dello spazio è espressione del potere dei movimenti sociali. Le sollevazioni dei popoli arabi, le proteste nella maggiori città cinesi, le manifestazioni in America Latina, le mobilitazioni dei poveri in altri paesi, le lotte urbane negli Stati Uniti contro la gentrification o le rivolte americane contro la brutalità della polizia sono tutti esempi di come la strada sia il veicolo del cambiamento sociale e politico.. Ma se questo appartiene al recente passato, possiamo citare anche le recenti mobilitazioni a Tel Aviv. In Europa parlate degli indignados, riferendovi alla Spagna. Ma tanto a Madrid che Tel Aviv abbiamo assistito a vere e proprie occupazioni delle piazze che sono durate giorni, settimane, sperimentando forme di organizzazioni e di decisione politica distanti da quelle dominanti nelle società. Quello che voglio sottolineare è che ci troviamo di fronte a forme di protesta che coinvolgono una composizione sociale eterogenea, dove ci sono disoccupati, ma anche lavoratori manuali di imprese che hanno conosciuto processi di downsizing e delocalizzazione, colletti bianchi, ceto medio impoverito. E sono forme di protesta che nascono e si consolidano al di fuori degli attori politici tradizionali (partiti, sindacati). Gli indignados di Madrid chiedono certo lavoro, servizi sociali, ma anche una profonda trasformazione del rapporto tra governo e governati. La piazza, la strada non sono dunque solo il luogo dove si avanzano rivendicazioni, ma anche lo spazio per rendere manifesto il potere dei movimenti sociali.

La crisi del neoliberismo ha caratteristiche drammatiche. Alcuni paesi hanno dichiarato bancarotta, altri sono arrivati sul punto di fallire (la Grecia); altri sono diventati sorvegliati speciali della Banca centrale europea che di fatto ha sospeso la loro sovranità nazionale. E le proposte per uscire alla crisi è un insieme di misure di politica economica e sociale che potremmo definire di liberismo radicale. Lei che ne pensa?

Nel mio lavoro di ricercatrice ho difficoltà ad usare il concetto di crisi per spiegare cosa sta accadendo in molti paesi, dagli Stati Uniti all’Europa. Ci troviamo in una situazione inedita, sotto molto aspetti. Ci sono certo paesi in forte difficoltà economica; altri però hanno tassi di crescita e di sviluppo impressionanti. Detto più semplicemente, stiamo assistendo a un imponente spostamento della ricchezza da una parte della società verso un’altra. E questo coinvolge le risorse finanziarie dello stato, del piccolo risparmio, delle piccole attività imprenditoriali. Una sorta di concentrazione della ricchezza nelle mani di una esigua e tuttavia ricchissima minoranza. E tutto ciò senza che tale concentrazione della ricchezza possa essere recuperata attraverso il sistema della tassazione. È questo il dramma che stanno vivendo alcuni paesi.

Non ci troviamo cioè di fronte a una realtà oscura, difficile da comprendere o al risultato di una cospirazione o di un fenomeno che per interpretare serve la cabala. La tragedia che ci troviamo a fronteggiare è che questa situazione è l’esito non di un evento naturale, ma di un processo politico dove il potere esecutivo, anche quando composto da persone oneste e integerrime, ha favorito, con leggi e decisioni, la concentrazione e l’espropriazione della ricchezza da parte di una minoranza. La Citibank negli Stati Uniti è stata salvata dal fallimento dal governo con 7 miliardi di dollari. Soldi provenienti dal prelievo fiscale, che negli Usa è molto generoso verso i ricchi. Dunque è stata salvato con i soldi della working class e del ceto medio. Se ci spostiamo in Europa, la premier tedesca Angela Merkel ha deciso di spostare una parte delle finanza statale per salvare alcune banche. In altri termini è lo stato, o alcuni organismi sopranazionali, che hanno favorito questo spostamento della ricchezza nelle mani di banche, imprese finanziarie. L’Unione europea è sì intervenuta per salvare la Grecia, ma solo perché il suo fallimento avrebbe messo in ginocchio banche e imprese finanziarie, che hanno fatto profitti attraverso il meccanismo del cosiddetto «debito sovrano». Non so se per queste imprese sia corretto parlare di crisi. Godono, tutto sommato, buona salute, visto che il potere esecutivo corre sempre in loro soccorso. Il risultato è l’impoverimento di buona parte della popolazione, che vede tagliati i servizi sociali e le pensioni.

Tutto ciò mostra i profondi limiti delle democrazie liberali. Siamo cioè di fronte a un profondo cambiamento nei rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. E tra questi e l’economia. Qualcosa di simile, nella sua profondità, è accaduto nel passaggio dal Medioevo alla modernità, quando si formarono gli stati nazionali e furono gettate le basi dello stato moderno. Quello che serve è una adeguata prospettiva storica per analizzare la realtà contemporanea. Nel libro Territori, autorità, diritti sottolineo le analogie tra quel passaggio d’epoca e la situazione attuale. Oggi, come allora, è la forma stato che viene investita da un terremoto. Capire cosa resterà in piedi, e cosa diverrà macerie serve anche a intervenire politicamente affinché tale espropriazione di ricchezza possa essere fermata.

SASKIA SASSEN
Quando le città divennero globali
I rapporti tra potere ed economia

Nata in Olanda, Saskia Sassen ha vissuto la sua adolescenza in Argentina. Gli studi, però, li ha svolti tra la Francia, l’Italia, gli Stati Uniti. Tra le sue pubblicazioni vanno ricordati: “Fuori controllo” (Il Saggiatore), “Le città globali” (Utet), “Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa” (Feltrinelli) , “Le città nell’economia globale” (Il Mulino), “Globalizzati e scontenti” (Il Saggiatore), Territorio, autorità, diritti” (Bruno Mondatori) e “Una sociologia della globalizzazione” (Einaudi). Attualmente è docente alla Columbia University di New York.


Franco Berardi “Bifo”

Posted: Agosto 11th, 2011 | Author: | Filed under: crisi sistemica, riots | Commenti disabilitati su Franco Berardi “Bifo”

London calling

pubblicata da Franco Berardi il giorno mercoledì 10 agosto 2011 alle ore 20.30

L’ultima estate all’inferno e la prima dell’insurrezione cognitaria

Ero a Liverpool il 26 ottobre 2010, quando John Osborne Ministro dell’economia del governo conservatore inglese tenne il discorso nel quale si dichiarava l’intenzione della classe politica al servizio del capitalismo finanziario inglese di devastare la società, o meglio quel che della società è rimasto dopo trent’anni di politiche neoliberiste thatcheriane e blairiane. “Cinquecentomila dipendenti pubblici saranno licenziati entro tre anni, la spesa per la sanità pubblica saranno ridotte drasticamente, le tasse universitarie saranno moltiplicate per tre” dichiarava quel giovanotto col sorriso sulle labbra. E così via.

Ascolttandolo provai una sensazione molto netta: questi quarantenni che con la ridicola formula big society spacciano il neoliberismo agonizzante come se fosse un dogma indiscutibile, sono semplicemente degli incompetenti: dilettanti allo sbaraglio. Cresciuti come polli d’allevamento nelle loro scuole d’elite non sanno nulla del mondo e pensano che sia composto soltanto di numeri, indici e listini. Quando compaiono sulla scena degli esseri umani sanno dire soltanto che sono delinquenti e chiamano l’esercito.

Almeno la signora Thatcher aveva dovuto scontrarsi con i rabbiosi minatori di Arthur Scargill, e quando dichiarava che la società è una cosa che non esiste, la figlia del droghiere sapeva che quell’affermazione provocatoria corrispondeva a una dichiarazione di guerra. Condusse la sua guerra contro la società e la vinse. Oggi la metropoli inglese è un inferno di macerie sociali dopo una guerra, nonostante i lustrini che Blair ha cinicamente chiamato Cool Britannia. Un inferno di precariato, sfruttamento schiavistico e miseria.

Osborne non pareva chiedersi: è possibile comprimere ulteriormente la vita di milioni di giovani costretti a vivere in condizioni già insopportabili? Sembrava pensare che si trattava di prendere decisioni amministrative e aspettare che la società (che tanto non esiste) si adattasse. La sera del 26 ottobre tenni una conferenza alla Biennale di Liverpool davanti a un pubblico di artisti di strada, insegnanti sottopagati, studenti che fanno lavori precari. Dissi che a mio parere l’Europa stava morendo perché non era in grado di emanciparsi dal dogma monetarista e che entro un anno la Gran Bretagna sarebbe esplosa. E’ accaduto con qualche mese di anticipo, e so per certo che è solo l’inizio.

L’inizio dell’insurrezione europea.

Qualcuno dice che questi rivoltosi non hanno ideali e si limitano a fare la spesa senza pagare. La generazione precaria è stata espropriata di tutto, anche del suo futuro. Ora inizia facendo la spesa senza pagare. Ma è anche la generazione del lavoro cognitivo. Tra i razziatori d’agosto ci sono gli studenti che il 14 dicembre occuparono il centro della city per protestare contro la politica economica che gli toglie l’università e nei mesi di primavera occuparono le banche per tenervi lezioni di microbiologia e letteratura francese, dato che le banche hanno razziato tutto e alla scuola non sono rimasti neppure gli occhi per piangere.

Chi accusa i ribelli d’agosto di essere dei violenti è in mala fede. Prima di tutto Mark Duggan è stato ucciso dai poliziotti e l’inchiesta ha dimostrato che non aveva sparato né intendeva fuggire. In secondo luogo la violenza è quella di una classe dirigente che impedisce ai giovani di studiare.

La generazione cognitiva precaria comincia la sua rivolta afferrando quel che le occorre senza chiedere permesso. Ma la rivolta non si ferma qui, perchè il lavoro precario è anche lavoro ad alto contenuto intellettuale. Ora ci solleviamo, perchè è l’unico modo per riconquistare il nostro territorio di esistenza. Poi ricostruiremo tutto secondo scienza e coscienza. perché soltanto noi, i ribelli precari e cognitivi, liberi dal dogma neoliberista, siamo in grado di farlo.

Con rapidità impressionante il castello del capitalismo finanziario sta crollando, e la civiltà sociale costruita dal lavoro e dalla scienza nei secoli passati della modernità rischia di rimanere sotto le sue macerie. Solo l’autonomia del lavoro cognitivo potrà salvare quell’eredità, e questo è il compito politico, scientifico, e poetico che siamo chiamati a svolgere.

Inizia un decennio di conflitto insurrezionale che si dispiegherà su tutto il territorio europeo.Per difendere i suoi profitti la classe finanziaria è pronta a distruggere tutto, a gettare la popolazione nella miseria, a uccidere e istaurare una dittatura militare come Cameron minaccia di fare nella metropoli inglese. Ma per la prima volta in centocinquant’anni la rivoluzione mondiale è all’ordine del giorno.

L’Europa è il luogo in cui il conflitto si manifesta nella sua forma più avanzata, anche se la recessione occidentale aprirà la strada alla rivolta di centinaia di milioni di operai dell’India e della Cina.

Paradossalmente proprio il collasso dell’Unione europea riporta l’Europa al centro del mondo. Il patrimonio che la dittatura finanziaria sta distruggendo è il patrimonio di cinque secoli di Umanesimo, Illuminismo e Socialismo. Diconoo che questa rivolta non ha ideali. Ma gli ideali sono finora serviti per fregarci.

La follia volontarista del comunismo isterico novecentesco ha lasciato alle sue spalle cinismo e paralisi del pensiero. Ora si è conclusa, come doveva, tragicamente, e i dogmatici stalinisti del ’68 si sono tramutati in dogmatici liberisti. Il fallimento del leninismo ha lasciato campo libero al dogmatismo neoliberista che sta devastando il pianeta. Ma il collasso d’Europa riporta il dramma della lotta fra le classi nel punto in cui lo vide Marx: Londra è in fiamme.

Un passaggio gigantesco della storia del mondo, più grande di quanto fu il ’17, il 68 e l’89, per gli effetti che esso produrrà nel bene o nel male nella storia umana, si sta svolgendo per così dire, senza parole. Il pensiero fa scena muta. Assorbiti dal dogmatismo servile, e nella migliore delle ipotesi ridotti alle forme miopi del giornalismo gli intellettuali non pensano, e non sanno immaginare oltre la presente apocalisse. Ma qualcuno deve assumersi questo compito.

Quel che sta accadendo in questi mesi cambia definitivamente il corso delle nostre vite, e la prospettiva storica e politica in cui ci troviamo. La storia del capitalismo borghese moderno è finita e al suo posto vediamo delinearsi una forma di dittatura finanziaria, portatrice di barbarie e di miseria. Si tratta di un mutamento che modifica le nostre prospettive esistenziali. Potremo fingere di non saperlo potremo cercare di trovare rifugio nella sfera individuale ma la barbarie ci perseguiterà dovunque, come miseria e come violenza.

Oppure potremo arruolarci nell’insurrezione che immagina forme sociali libere dal ricatto del salario e della crescita obbligatoria.

Prima che la situazione precipitasse abbiamo costruito una scuola europea per l’immaginazione sociale.

La consideriamo un nucleo dal quale irradiare progetti di conoscenza e di innovazione autonomi dalla catastrofe del capitalismo finanziario.

Nei prossimi mesi ci impegneremo nell’organizzazione di seminari sceptici capaci di accompagnare immaginativamente l’insurrezione.

SCEPSI è un nucleo di pensiero e di immaginazione, nel cuore dell’insurrezione europea.


la decima estate

Posted: Agosto 6th, 2011 | Author: | Filed under: crisi sistemica | 2 Comments »

pubblicata da Franco Berardi il giorno sabato 6 agosto 2011 alle ore 18.46

La decima estate del nuovo millennio ci porta due novità.

Prima: la guerra infinita dichiarata dall’Occidente contro il resto del mondo è persa in ogni suo scenario. Perfino la guerra afghana, quella che non si poteva perdere, è persa. E la guerra nordafricana iniziata da poco è già una catastrofe. Ma per quanto persa la guerra non può finire perché per l’appunto è infinita. Nessuno ha il coraggio di dirlo: al Qaida ha vinto una guerra impensabile, grazie al fatto che l’Occidente non è stato in grado di pensarla e si è lasciato trascinare in un abisso di demenza.

Seconda novità: il collasso finanziario ingovernabile si trasforma in progressivo smantellamento delle strutture civili della società.

La borghesia, dominante nell’epoca moderna, era una classe territorializzata: il suo potere si fondava sull’espansione della prosperità di un territorio e di una parte maggioritaria della popolazione. La sua prosperità dipendeva dall’espansione produttiva e dal benessere sociale.

La classe che ha conquistato il potere negli anni della globalizzazione è una classe deterritorializzata e virtuale. A rigore non possiamo neppure parlarne come di una classe. E’ piuttosto un pulviscolo di interessi che si aggregano e si disgregano continuamente: il mercato finanziario è luogo mobile e immateriale nel quale si condensano e si disperdono movimenti a carattere sempre più spesso puramente distruttivo.

Il mercato azionario un tempo era indicatore di spostamenti della ricchezza reale. Grazie agli effetti della globalizzazione digitale e alla polverizzazione degli scambi, ora il gioco si è completamente rovesciato. Non la creazione di ricchezza, ma la sua dissipazione è la tecnica con cui si arricchisce la classe trasversale della finanza.

La tecnica predatoria consiste nell’aggredire un territorio (un’impresa, una struttura sociale, una popolazione, una nazione), dissolverne la consistenza produttiva, privatizzarne i guadagni e socializzarne le perdite, per poi abbandonare quel territorio non appena, sempre più rapidamente, l’addensamento predatorio lo ha spolpato.

La politica, i governi, le sinistre esistono ormai soltanto per convincere le popolazioni terrorizzate ad accettare di lavorare sempre più in fretta per salari sempre più scarsi allo scopo di ricostituire un capitale che la classe finanziaria si appresta a predare domattina. Se crediamo nella leggenda della crescita siamo in trappola. No lavoriamo e i governi – di destra o di sinistra non fa nessuna differenza – consegnano il malloppo fresco fresco fresco ai “mercati” che lo dissolvono per trasformarlo in capitale finanziario.

Non credo ci siano molte possibilità di uscirne vivi. Fukushima è un dito puntato verso l’orizzonte del futuro planetario. La sola speranza è abbandonare il campo, farsi da parte mentre tutto sprofonda, e ricostituire le strutture della vita sociale in uno spazio che non interagisca in alcun modo con la follia predatoria del capitalismo nella sua fase agonica, che forse durerà mille anni.

Esiste questo luogo? Non esiste. Il compito politico del tempo che viene è crearlo.