Posted: Aprile 27th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comune, comunismo, philosophia, post-filosofia, postoperaismo | 78 Comments »
di TONI NEGRI
C’è, in questa riscrittura badiousiana della Repubblica di Platone, un richiamo al “comunismo” come forma di governo, “quinta” oltre le quattro criticate dal fondatore dell’idealismo filosofico: dunque, oltre la Timocrazia (o il governo degli eroi) e l’Oligarchia (dei principi), oltre la Democrazia e la Tirannide (sempre fra loro ciclicamente intercambiabili). Ed è un bel concetto, questo, quasi una innovazione teorica – essa ha, come molte proposte del post-moderno avuto espressione già in altri episodi della filosofia politica, come nelle varie esperienze democratiche di costruzione di comunità ecclesiali, nel Medioevo o nella Riforma, o nella “democrazia assoluta” spinoziana, o nelle stesse utopie anarchiche e socialiste della modernità. Che un solido Philosophe – ovvero un uomo dei Lumi, come a me pare Badiou – rivendichi quest’ideale, è non solo atteso ma bello. Nel suo libro che non è una trattazione sistematica della Repubblica di Platone, né un semplicemente un ammodernamento del testo, né l’esperienza di un dialogo amoroso del filosofo con Amantea (figura femminile e “repubblicana”, invenzione davvero formidabile) – nel suo libro dunque, la si legge con gioia quest’avventura ideale – solo relativamente appassita da qualche noioso esercizio antiquario.
[–>]
Posted: Aprile 23rd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, crisi sistemica, critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo, Révolution | Commenti disabilitati su Moneta del comune e reddito sociale garantito
di LAURENT BARONIAN e CARLO VERCELLONE
L’ambizione di quest’articolo è quella di gettare le basi per una concezione della moneta del comune a partire da un’interrogazione omessa dalla teoria economica dei beni comuni.
Quali sono, dunque, le condizioni capaci di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale e di favorire così lo sviluppo di forme di produzione alternative ai principi d’organizzazione sia del pubblico che del privato? Questa domanda richiede d’introdurre nella teoria del Comune il ruolo strutturante della moneta nei rapporti capitale-lavoro.
L’esame del rapporto tra moneta e comune necessita, di conseguenza, di partire da una critica della teoria dei beni comuni dalla quale la moneta, come il lavoro, sono curiosamente assenti. La ragione di quest’assenza si trova nel fatto che questa concezione naturalista dei beni comuni accetta implicitamente uno dei postulati fondatori della teoria economica standard, ovvero la neutralità della moneta, concepita come un semplice strumento tecnico che facilita gli scambi, e non come la cristallizzazione di un rapporto sociale di potere.
Su questa base, si tratterà di caratterizzare un approccio dinamico del comune al singolare nel quale la questione della moneta e delle mutazioni della divisione del lavoro occupa un posto centrale. Questo approccio fondato sulla triade lavoro-moneta-plusvalore servirà allora egualmente da filo conduttore per rianimare la controversia che aveva opposto Marx ai proudhoniani, precursori di un approccio della moneta come comune.
Infine, fonderemo il nostro ragionamento sulle teorie marxiane del circuito per mostrare che il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro.
[–>]
Posted: Aprile 9th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | 1 Comment »
di Benedetto Vecchi
Nei recenti libri di Joseph Stiglitz e Zygmunt Bauman, la crescita della
differenze sociali e di reddito è figlia dell’austerità. Come illustra in un
suo saggio, la filosofa Ilaria Possenti ne evidenzia il nesso con una
intermittenza nel mercato del lavoro.
Due sono ormai le parole ricorrenti nella politica istituzionale. In nome
loro, vengono decise politiche draconiane di austerità, che invece di
risolvere, non fanno altro che confermare una condizione di illibertà. Si
tratta di «precarietà» e «disuguaglianza», termini che dovrebbero orientare
il pensiero critico nella traversata del deserto neoliberista ma che invece
sono entrati a far parte del lessico di intellettuali, economisti
preoccupati di dimostrare che le disuguaglianze e la precarietà sono una
anomalia, una parentesi di una società che tende, grazie al buon
funzionamento del mercato, all’uguaglianza. Convinzione smentita dai dati
europei sul crescente divario di reddito esistente nelle società, uniti a
quelli sull’altrettanto crescente esercito del lavoro «atipico» e sulla
disoccupazione che ha superato la boa del dieci per cento (in Italia, le
cifre sui disoccupati oscillano tra i 3 milioni e i 3,5 milioni di senza
lavoro, mentre quelle sui precari sono oltre i 4 milioni).
Le eccezioni non mancano e vedono protagonisti piccoli gruppi intellettuali
o movimenti sociali. Preziosa nello svelare il carattere immanente delle
disuguaglianze nel capitalismo è, ad esempio, l’analisi che da anni conduce
il filosofo francese Etienne Balibar, di cui vanno segnalati, oltre il
recente Cittadinanza (Bollati Boringhieri), i volumi La proposition de
l’égaliberté e Citoyen Sujet, entrambi pubblicati dalla casa editrice Puf.
Questo nulla toglie al fatto che, tanto la precarietà che la disuguaglianza,
sono tornate a infoltire di titoli una pubblicistica impegnata nel
riproporre, in forma innovata, dispositivi keynesiani che hanno garantito al
capitalismo oltre trent’anni di sviluppo. Tra quest’ultimi vanno ricordati
il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, il tedesco Ulrich Beck, l’inglese
Anthony Giddens, il polacco Zygmunt Bauman, lo statunitense Richard Sennett,
cioè i «senza partito» ritenuti le punte di diamante del pensiero
democratico. Tra queste due posizioni, occorre affiancarne un’altra, che
sviluppi una critica alle politiche di austerità, considerando i «senza
partito» democratici interlocutori, senza rinunciare all’obiettivo di una
sintesi tra eguaglianza e libertà, all’interno di una superamento del lavoro
salariato, di cui la precarietà è solo l’ultima manifestazione, in ordine di
tempo.
La costante neoliberista
Rilevante a questo fine è prendere atto che, sia nello spazio nazionale che
in quello europeo, la condizione precaria e le disuguaglianze sono oggetto
di politiche sociali che tendono a contenere gli effetti destabilizzanti
all’interno del modello di accumulazione capitalistica neoliberista. Come ha
argomentato Maurizio Lazzarato nella raccolta di scritti da poco pubblicata
dalla casa editrice ombre corte, Il governo delle disuguaglianze è da
considerare una costante del neoliberismo, sgomberando così il campo della
retorica dello stato minimo che ha accompagnato il lungo inverno della
controrivoluzione neoliberale. Lo stato, argomenta in maniera convincente
l’autore, è lo strumento per assicurare la gestione e la legittimità delle
disuguaglianze, ma anche per plasmare un «uomo nuovo», quell’individuo
proprietario che doveva diventare il perno su cui far ruotare l’insieme
delle relazioni sociali e attorno al quale costruire un nuovo progetto di
società dove l’insieme delle tutele sociali e i diritti sociali della
cittadinanza siano merce da acquistare sul mercato della protezione sociale.
Che questo sia lo scenario che ha caratterizzato il neoliberismo non ci sono
molti dubbi. Soltanto che dal 2008 il dominante governo delle disuguaglianze
è entrato in crisi.
Il capitalismo ha visto non solo crescere la povertà, ma anche una diffusa
indisponibilità di uomini e donne a fare proprio l’incubo dell’individuo
proprietario. Indisponibilità che si è tradotta nelle forme ambivalenti del
populismo, nell’esplosione di rivolte sociali che hanno attraversato gli
Stati Uniti e l’Europa. E nella crescita, in alcuni paesi del vecchio
continente, come l’Italia, la Spagna e la Grecia, dell’astensionismo
elettorale. Ed è proprio in Europa e negli Stati Uniti che l’attenzione e la
denuncia della precarietà e delle disuguaglianze è più forte. Anche in
questo caso, le posizioni che si contendono l’arena pubblica si concentrano
sulle politiche adeguate per affrontare una «questione sociale» che viene
spesso paragonata a quella di fine Ottocento o a quella successiva alla
«grande crisi» del ’29. E se la troika europea subordina l’accesso ai
diritti sociali di cittadinanza all’accettazione della precarietà, negli
Stati Uniti le disuguaglianze sono l’esito di una economia di mercato andata
fuori controllo.
Nel suo ultimo libro – Il prezzo delle disuguaglianza, Einaudi, pp. 473,
euro 23 – Joseph Stiglitz denuncia la crescita del reddito dei dirigenti di
impresa e quello del lavoro dipendente. Il panorama sociale al di là
dell’Atlantico vede una minoranza di super ricchi e una numeroso esercito
costituito da ceto medio impoverito e working poor. Per il premio Nobel per
l’economia, se continuano così, gli Stati Uniti non solo sono destinati a un
lento declino economico, ma vedranno lo sbriciolamento delle sue stesse
fondamenta democratiche. Da qui, la sua valorizzazione di Occupy Wall
Street, cioè un movimento che ha come collante proprio la denuncia della
polarità esistente tra il 99 per cento della popolazione impoverita e il
restante un per cento. La via d’uscita proposta è il ritorno a politiche
redistributive del reddito, a un limitato intervento dello Stato in economia
per lo sviluppo delle infrastrutture necessarie a rendere competitive
imprese sempre più globali, investimenti nella formazione e politiche volte
a garantire una diffusa assistenza sanitaria.
Al di qua dell’Atlantico, gli fa idealmente eco il pamphlet di Zygmunt
Barman che denuncia la falsità della retorica dominante seconda la quale La
ricchezza di pochi avvantaggia tutti (Laterza, pp. 100, euro 9). Anche in
questo caso, il dito è puntato contro il crescente divario di reddito che
caratterizza le società europee e statunitensi. A differenza di quella
svolta da Stiglitz, ci troviamo però di fronte a un’analisi che lega
disuguaglianze e precarietà, dove il secondo termine indica l’esito di quel
dissolvimento delle istituzioni della modernità che Barman ha più volte
posto come esito dell’avvento della società liquida.
Cacciatori di innovazione
Quello che però né Stiglitz né Bauman affrontano è il venir meno del nesso
tra cittadinanza e lavoro. Nella condizione precaria, infatti, l’accesso ai
diritti di cittadinanza garantiti dallo stato nazionale è interdetto, mentre
il regime di accumulazione ha necessità di attivare un ciclo continuo di
innovazione, sempre più delegato al lavoro vivo. La precarietà, dunque, va
considerata come la condizione propedeutica affinché le imprese possano
attingere a un bacino di expertise in un mercato del lavoro che non prevede
più la stabilità nel rapporto professionale. È dunque un dispositivo che
consente la «cattura» della capacità innovativa del lavoro vivo.
In una importante analisi delle tesi di Bauman e Sennett, la filosofa
italiana Ilaria Possenti ne delinea, nel volume Flessibilità (ombre corte,
pp. 195, euro 18), alcuni dei tratti distintivi. Adattabilità a cambiamenti
repentini del processo lavorativo, gestione individuale del rischio,
sviluppo e cura delle rete sociali che consentono di poter gestire
l’intermittenza della presenza nel mercato del lavoro. Se per i
neoliberisti, tutto ciò significa diventare «imprenditori di se stessi», per
Ilaria Possenti queste sono le caratteristiche del «precario», figura
lavorativa che sembra calzare a pennello per le giovani generazioni, ma che
Sennett considera prerogative dell’antica figura dell’artigiano ritornata in
auge nel capitalismo contemporaneo.
Nei suoi ultimi scritti – L’uomo artigiano e Insieme, entrambi pubblicati da
Feltrinelli – Richard Sennett afferma che stiamo assistendo alla rivincita
del lavoro concreto sul lavoro astratto, che dovrebbe consentire di far
tornare a un livello socialmente accettabile le diseguaglianze. Ciò che non
convince dell’analisi di Sennett non è solo la sua apologia del lavoro
artigiano, ma la rimozione del fatto che sono proprio quelle caratteristiche
che egli assegna al lavoro concreto ad entrare in campo nei processi di
valorizzazione capitalistica. Più la precarietà diviene norma generale, più
il processo di espropriazione della capacità innovativa del lavoro vivo è
quindi garantito. La precarietà è cioè il dispositivo che regola i rapporti
tra capitale e lavoro vivo.
Le linee del colore, la differenziazione generazionale, la contrapposizione
tra permanenti e temporanei sono dunque da considerare forme di governance
del mercato del lavoro, scandito appunto dalla precarietà. In altri termini,
le differenziazioni generazionali, di razza e sessuali sono parte integrante
di quel governo delle disuguaglianze che, anche se in crisi, è lo sfondo
entro cui collocare il tema della precarietà.
La missione impossibile
Tutto ciò può servire a quell’attraversata del deserto che il pensiero
critico sta compiendo. Va detto che molte altre sono le acquisizioni che ha
tratto dal neoliberismo, meglio dal capitalismo contemporaneo. Tra queste,
l’impossibilità di un ritorno alle norme che regolavano il rapporto tra
capitale e lavoro nel passato. La precarietà non è infatti un incidente di
percorso, ma il presente e il futuro del lavoro vivo. L’altro aspetto che è
stato reso evidente dai movimenti sociali di questi anni è l’indisponibilità
a funzionare come oggetto passivo. Ci sono stati processi di organizzazione
del precariato, mentre il tema del reddito di cittadinanza è entrato a far
parte del lessico politico tanto in ambito nazionale che sovranazionale. Il
rischio che si corre è che precarietà e reddito siano ridotti a significanti
vuoti da riempire secondo i vincoli dettati, appunto, dal «governo delle
disuguaglianze».
In ambito europeo, ad esempio, precarietà e continuità di reddito sono temi
affrontati all’interno di politiche di workfare: si accede al reddito solo
se si è disponibili a svolgere un lavoro qualunque esso sia. La precarietà è
qui declinata secondo le politiche di austerità imposte dalla troika ai
paesi dell’Unione europea. In ambito nazionale, il reddito di cittadinanza è
relegato da forze ritenute antisistema – il movimento cinque stelle –
nell’ambito di un misero sussidio di disoccupazione al quale gli
«intermittenti» del mercato del lavoro hanno diritto, additando i dipendenti
del settore pubblico come dei «privilegiati».
La posta in gioco, tuttavia, è di prospettare il reddito di cittadinanza
come un flessibile strumento per quella mission impossible che è la sintesi
tra eguaglianza e libertà, all’interno di un superamento del regime fondato
sul lavoro salariato.
Posted: Aprile 6th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, crisi sistemica, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 2 Comments »
di ADELINO ZANINI e GIGI ROGGERO*
Pubblichiamo l’introduzione al volume “Genealogie del futuro. Sette lezioni per sovvertire il presente” (uscito in questi giorni nella collana UniNomade di ombre corte), che raccoglie il corso di autoformazione Commonware del 2012 “Da Marx all’operaismo”.
Formazione militante. Non è semplice oggi tornare a pronunciare queste parole, ancor meno tradurle in una pratica. Troppo pesante sembrerebbe l’ipoteca delle vecchie “scuole di partito” che su di esse grava. Eppure, questa è la sfida: come ripensare la formazione politica dentro le mutazioni soggettive e le pratiche di movimento contemporanee? È una sfida che UniNomade ha assunto. L’abbiamo chiamata Commonware: è un nome apparentemente criptico e volutamente ironico, scelto per dileggiare i pacchetti didattici delle aziende universitarie, i cosiddetti courseware, rovesciandone il senso dentro la libera cooperazione sociale. Non è un caso, del resto, che le sette lezioni raccolte nel presente volume si siano tenute in sede universitaria (quella di Bologna, nello specifico), simbolicamente e concretamente uno dei principali laboratori dei processi di dequalificazione del sapere critico.
[–>]
Posted: Marzo 31st, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, Révolution | 3 Comments »
di ANTONIO NEGRI
Che siamo entrati in una fase costituente, tutti lo dicono: ma costituente di che cosa? La Boldrini e Grasso, ma anche tanti altri, ripetono ad ogni entrata in scena che la Costituzione del ’48 è “la più bella costituzione del mondo” – e allora, su quale ramo dovrà appollaiarsi la civetta costituente?
In realtà continuiamo a spendere parole troppo importanti per dir poco o niente. “Costituente” è una di queste parole. Per trasformare il Senato in Camera delle autonomie, non dovrebbe esser necessario il ricorso allo spirito costituente. E neppure per fare una nuova legge elettorale, e neppure per realizzare il riconoscimento dei sindacati, e neppure per abolire le province, e tantomeno per stabilire i criteri del fiscal compact (che, d’altra parte, la Commissione europea ha già statuito), ecc.. Non sembra che in tal modo il desiderio costituente e l’ansia di corrispondere a tempi nuovi siano esaltati – ormai si parla sempre di più di “costituente” ma sempre di più si opera, in realtà, sul terreno amministrativo. Si pensi a quanto avviene sul livello europeo – se “l’Europa non è uno Stato”, non è neppure un ambito costituente, anche se ognuno dei mille produttori di norme e dei mille attori di governance che agiscono dentro il terreno comunitario, si pretendesse costituente. Iniziativa costituente significa invece creare “incidenti democratici di base”, “produzioni istituzionali di democrazia dal basso” e non determinare semplicemente atti amministrativi nell’alto dei cieli della politica dei partiti.
[–>]
Posted: Marzo 25th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, crisi sistemica, critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 6 Comments »
by Angela Mitropoulos
Contract & Contagion: From Biopolitics to Oikonomia
Angela Mitropoulos
Contract and Contagion presents a theoretical approach for understanding the complex shifts of post-Fordism and neoliberalism by way of a critical reading of contracts, and through an exploration of the shifting politics of the household. It focuses on the salient question of capitalist futurity in order to highlight the simultaneously intimate, economic and political limits to venturing beyond its horizon.
In capitalist history, as well as in philosophy, finance, migration politics, and theories of globalisation, contagions simultaneously real, symbolic and imagined recur. Where political economy understood value in terms of labour, Contract and Contagion argues that the law of value is the law of the household (oikonomia).
In this book Angela Mitropoulos takes up current and historical theories of affect, intimacy, labour and speculation to elaborate a queer, anti-racist, feminist Marxism, which is to say: a Marxism preoccupied not with the seizure of opportunity to take power, form government, or represent an identity, but a Marxism which partakes of the uncertain movements that break the bonds of fate.
“In this stunning reworking of the philosophical fibres of economy, Angela Mitropoulos provides an expansive realignment of how risk is apportioned and contingency valorised. The result is a febrile politics of debt and credit to pre-occupy the movements in and for the future.” – Randy Martin, author of Empire of Indifference: American War and the Financial Logic of Risk Management
“Angela Mitropoulos’ work moves beyond the impasses of autonomist Marxism and queer theory to forge a critical analysis of the imbrications between economy, nation-state and family. Locating the dynamic of capital in the ‘double movement’ of contract and contagion, Mitropoulos radicalizes the Marxian critique of contract while refusing the foundational nostalgias of the left. Most forcefully, Mitropoulos proposes the prism of household politics (or oikonomia) as a means of interrogating the shifting nexus between the sexual and the economic across different regimes of accumulation. Baroque and incisive, this book will unsettle the most familiar of political categories.” – Melinda Cooper, author of Life as Surplus: Biotechnology and Capitalism in the Neoliberal Era
Bio: Angela Mitropoulos is a political theorist whose corpus spans the registers of radical movements and sustained philosophical enquiry. Her writing has appeared in numerous journals, including Social Text, South Atlantic Quarterly, Mute, Cultural Studies Review, Borderlands, and ephemera; and it has been widely translated, disseminated and taught in both academic and activist contexts.
[Contract & Contagion]
Posted: Marzo 22nd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, comune, donnewomenfemmes, postgender, Révolution | Commenti disabilitati su Nous disons révolution
di BEATRIZ PRECIADO
Pare che i vecchi guru dell’Europa coloniale si stiano ostinando a voler spiegare agli attivisti dei movimenti Occupy, Indignados, handi-trans-froci-lesbiche-intersex e post-porn che non potremo fare la rivoluzione perché non abbiamo nessuna ideologia. Dicono «un’ideologia» esattamente come mia madre diceva «un marito». Bene: non abbiamo bisogno né di ideologie né di mariti. Noi, nuove femministe, non abbiamo bisogno di mariti perché non siamo donne. Così come non abbiamo bisogno d’ideologie perché non siamo un popolo. Né comunismo né liberalismo. Né ritornello catto-musulmano-ebraico. Parliamo un altro linguaggio. Loro dicono rappresentazione. Noi diciamo sperimentazione. Loro dicono identità. Noi diciamo moltitudine. Loro dicono controllare la banlieue. Noi diciamo meticciare la città. Loro dicono il debito. Noi diciamo cooperazione sessuale e interdipendenza somatica. Loro dicono capitale umano. Noi diciamo alleanza multi-specie. Loro dicono carne di cavallo. Noi diciamo saliamo in groppa ai cavalli per sfuggire insieme al macello globale. Loro dicono potere. Noi diciamo potenza. Loro dicono integrazione. Noi diciamo codice aperto. Loro dicono uomo-donna, Bianco-Nero, umano-animale, omossessuale-eterosessuale, Israele-Palestina. Noi diciamo ma lo sai che il tuo apparato di produzione della verità non funziona più. Quanti Galileo saranno necessari, questa volta, per farci reimparare a nominare le cose e noi stessi? Loro ci fanno la guerra economica a colpi di machete digitale neoliberale. Ma noi non piangeremo per la fine dello Stato-sociale – perché lo Stato-sociale era anche l’ospedale psichiatrico, il centro d’inserimento per handicappati, il carcere, la scuola patriarcale-coloniale-eterocentrata. È tempo di mettere Foucault alla dieta handi-queer e di scrivere la Morte della clinica. È tempo di invitare Marx a un atelier eco-sessuale. Non possiamo giocare lo Stato disciplinare contro il mercato neoliberale. Entrambi hanno già siglato un accordo: nella nuova Europa, il mercato è l’unica ragione di governo, lo Stato diventa un braccio punitivo la cui unica funzione è ormai di ricreare la finzione dell’identità nazionale sulla base della paura securitaria. Noi non vogliamo definirci né come lavoratori cognitivi né come consumatori farmaco-pornografici. Noi non siamo né Facebook, né Shell, né Nestlé, né Pfizer-Wyeth. Noi non vogliamo produrre francese, ma neanche europeo. Noi non vogliamo produrre. Noi siamo la rete viva decentralizzata. Noi rifiutiamo una cittadinanza definita dalla nostra forza di produzione, o dalla nostra forza di riproduzione. Noi vogliamo una cittadinanza totale definita dalla condivisione delle tecniche, dei fluidi, delle semenze, dell’acqua, dei saperi… Loro dicono la nuova guerra pulita verrà fatta con i droni. Noi vogliamo fare l’amore con i droni. La nostra insurrezione è la pace, l’affetto totale. Loro dicono crisi. Noi diciamo rivoluzione.
(Traduzione Judith Revel)
*
Nous disons RÉVOLUTION
Il paraît que les gourous de la vieille Europe coloniale s’obstinent dernièrement à vouloir expliquer aux activistes des mouvements Occupy, Indignados, handi-trans-pédégouine-intersex et postporn que nous ne pourrons pas faire la révolution parce que nous n’avons pas une idéologie. Ils disent «une idéologie» comme ma mère disait «un mari». Et bien, nous n’avons besoin ni d’idéologie ni de mari. Les nouvelles féministes, nous n’avons pas besoin de mari parce que nous ne sommes pas des femmes. Comme nous n’avons pas besoin d’idéologie parce que nous ne sommes pas un peuple. Ni communisme ni libéralisme. Ni la rengaine catholico-musulmano-juive. Nous parlons un autre langage. Ils disent représentation. Nous disons expérimentation. Ils disent identité. Nous disons multitude. Ils disent maîtriser la banlieue. Nous disons métisser la ville. Ils disent dette. Nous disons coopération sexuelle et interdépendance somatique. Ils disent capital humain. Nous disons alliance multi-espèces. Ils disent viande de cheval dans nos assiettes. Nous disons montons sur les chevaux pour échapper ensemble à l’abattoir global. Ils disent pouvoir. Nous disons puissance. Ils disent intégration. Nous disons code ouvert. Ils disent homme-femme, Blanc-Noir, humain-animal, homosexuel-hétérosexuel, Israël-Palestine. Nous disons tu sais bien que ton appareil de production de vérité ne marche plus… Combien de Galilée nous faudra-t-il cette fois pour réapprendre à nommer les choses, nous-mêmes ? Ils nous font la guerre économique à coups de machette digitale néolibérale. Mais nous n’allons pas pleurer pour la fin de l’Etat-providence, parce que l’Etat-providence était aussi l’hôpital psychiatrique, le centre d’insertion de handicapés, la prison, l’école patriarcale-coloniale-hétérocentrée. Il est temps de mettre Foucault à la diète handi-queer et d’écrire la Mort de la clinique. Il est temps d’inviter Marx dans un atelier éco-sexuel. Nous n’allons pas jouer l’Etat disciplinaire contre le marché néolibéral. Ces deux-là ont déjà passé un accord : dans la nouvelle Europe, le marché est la seule raison gouvernementale, l’Etat devient un bras punitif dont la seule fonction sera de re-créer la fiction de l’identité nationale par l’effroi sécuritaire. Nous ne voulons nous définir ni comme des travailleurs cognitifs ni comme consommateurs pharmacopornographiques. Nous ne sommes pas Facebook, ni Shell, ni Nestlé, ni Pfizer-Wyeth. Nous ne voulons pas produire français, pas plus que produire européen. Nous ne voulons pas produire. Nous sommes le réseau vivant décentralisé. Nous refusons une citoyenneté définie par notre force de production ou notre force de reproduction. Nous voulons une citoyenneté totale définie par le partage des techniques, des fluides, des semences, de l’eau, des savoirs… Ils disent la nouvelle guerre propre se fera avec des drones. Nous voulons faire l’amour avec les drones. Notre insurrection est la paix, l’affect total. Ils disent crise. Nous disons révolution.
Libération, 20 mars 2013
Posted: Marzo 17th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, comune, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Walter Benjamin. Una costellazione che brilla di nuova luce
di Paolo B. Vernaglione
Giorgio Agamben, sprofondato per anni nello studio del pensiero e dell’opera di Walter Benjamin, porta alla luce il senso storico dell’opera dell’autore dei Passagen. In anni di ricerche, nel paziente lavoro archeologico di documentazione e restitutio in integrum del pensiero del più importante e necessario critico e teorico del materialismo, si dispiega una ragione costruttiva dell’intero testo vivente che costituisce l’opera di Benjamin. E’ il risultato di una scrupolosa e ahimè oggi non praticata documentazione e ricostruzione filologica dell’opera benjaminiana che ha condotto Agamben a ritrovare un significato eccedente ogni qualificazione del Benjamin “già edito”.
[–>]
Posted: Febbraio 27th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, Marx oltre Marx, postoperaismo, Révolution | 21 Comments »
Una crisi italiana. Alla radice della teoria dell’autonomia del politico
di DARIO GENTILI
La questione dell’“autonomia del politico” esplode in Italia nel corso degli anni Settanta e rientra nel dibattito se attribuire il primato o all’organizzazione o all’autonomia, e cioè o al luogo del conflitto (Tronti, Cacciari) o alla soggettività antagonista (Negri). Tuttavia, ciò che queste posizioni hanno in comune è il fatto di poter essere comprese all’interno di un dispositivo della crisi.
L’ARTICOLO IN PDF
1. Dentro e contro: Tronti
Per limitare la questione dell’“autonomia del politico” nella tradizione filosofico-politica italiana a tre autori (Mario Tronti, Antonio Negri e Massimo Cacciari) e a un arco di tempo determinato (gli anni Settanta), prendo lo spunto iniziale da Operai e capitale. Mi riferisco in particolare al punto in cui Tronti passa dall’analisi operaista del rapporto economico classe operaia-capitale alla proposta politica. Innanzitutto, egli prende criticamente le distanze – anzi rovescia – il paradigma gramsciano (fatto proprio a suo modo da Togliatti) per la conquista dell’egemonia politica da parte della classe operaia: il passaggio politico da compiere non è tanto quello dalla classe operaia al popolo, ma, viceversa, dal popolo alla classe operaia. Lo scopo è quello di definire l’organizzazione politica operaia, il partito di parte operaia. Tronti scrive:
“Come far funzionare il popolo dentro la classe operaia è problema tuttora reale della rivoluzione in Italia. Non certo per conquistare la maggioranza democratica nel parlamento borghese, ma per costruire un blocco politico di forze sociali, da usare come leva materiale per far saltare una per una e poi tutte insieme le connessioni interne del potere politico avversario […]. Così, su questa base, dai compiti del partito rimane escluso proprio quello che sembra averlo finora caratterizzato: il compito di mediare i rapporti tra classi affini, e cioè tra ceti diversi, con tutte le loro ideologie, in un sistema di alleanze.”[1]
[–>]
Posted: Febbraio 16th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, comune, post-filosofia, vita quotidiana | 10 Comments »
di Marco Dotti
Furio Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo, Roma 2013
«Non è niente, sono qui, sono ancora qui». Arthur Rimbaud concludeva con queste parole la rivendicazione di un’infanzia sfrontata, in quell’«inferno che sovverte l’ordine» che per molti tratti fu la Comune di Parigi. Un ritorno a cui Rimbaud aggiunse, alla maniera di un post-scriptum, un’altra attestazione, stavolta relativa all’azzeramento di ogni senso di colpa. Fosse pure, questo senso di colpa, postumo, preventivo o soltanto preteso: «Industriali, principi, senati: a morte! Ci è dovuto», scriveva il diciottenne Rimbaud.
Era il 1872 e l’eco della Comune si poteva ancora sentire, ma i suoi giorni erano oramai proscritti dalla ripresa di un tempo storico che cannoni e baionette del generale e futuro presidente Mac-Mahon avevano saputo riattivare nel corso ordinario delle cose. Il tempo “borghese”, ritrovava così la sua scansione ritmica nel doppio coup al tavolo gioco e davanti alla macchina che garantiva serialità del lavoro.
Quanto di questo tempo era rimasto e ancora rimaneva attaccato a chi, fosse pure per poco, si era sentito animato e sconvolto dalla zona franca e comune della rivolta? Quale stratificazioni di lieux communs, di vecchi abiti scambiati per nuovi e di nuovi presi per vecchi nel corso riattivato delle cose? Quel corso delle cose che, è vicenda nota, venne interrotto solo per poche settimane dal 18 marzo alla fine di maggio del 1871, quando con la Comune si instaurò – la definizione è di Furio Jesi – «un tempo di qualità inconsueta», quasi festiva, dove ogni avvenimento sembrava accadere lì e ora, ma per sempre. Qualche mito genuino sembrava allora mostrarsi, ma presto si sarebbe ingenuamente “corrotto” al contatto con l’ombra delle grandi mitologie borghesi che già avevano marchiato la storia.
]>