Deleuze

Posted: Aprile 8th, 2012 | Author: | Filed under: au-delà, post-filosofia, Révolution | Commenti disabilitati su Deleuze


Moebius

Posted: Marzo 11th, 2012 | Author: | Filed under: arts, au-delà | Commenti disabilitati su Moebius

http://www.youtube.com/watch?v=QyF2bad0f2o

Elegante e azzardato come «un fiore che attira le api»

di Thomas Martinelli

Con un nome d’arte dal fascino intrigante, quello di Moebius, Jean Giraud lascia un segno indelebile nel fumetto internazionale, sia di genere (il western Blueberry, firmato con lo pseudonimo Gir), sia fantascientifico d’autore appunto come Moebius. Ma rinchiuderlo in due soli filoni sarebbe sbagliato e ingrato per chi ha fecondato in ogni direzione l’immaginario disegnato dell’ultimo quarto del XX secolo. Illustratore fine, autore di pietre miliari del fumetto internazionale, influenza discreta nel cinema di fantascienza (Alien e Blade runner di Ridley Scott, Il quinto elemento di Luc Besson), l’artista d’oltralpe il cui alter ego richiama i paradossi grafico-geometrici di Escher, è giustamente ritenuto uno dei principali artefici del rinnovamento del fumetto europeo e mondiale degli anni ’70. Elegante e sofisticato, spettacolare, azzardato, luccicante come acciaio e d’impatto rock duro, punk, metallico, il suo segno s’insinua nell’immaginario post-sessantottino soprattutto sulle pagine raffinate di Métàl Hurlant, la cui prima sconcertante, mostruosa, aliena copertina è disegnata appunto da Moebius. Pseudonimo con il quale per più di 30 anni ha siglato le sue opere più fantastiche e surreali quali Arzach, Il garage ermetico, la saga dell”Incal, mentre per la parte più realistica e concreta, rappresentata soprattutto dal popolarissimo western Blueberry, riservava l’altro pseudonimo di Gir, alias Jean Giraud.

Conversando con me a Napoli una decina di anni fa con aria divertita e trasognata al limite della distrazione, Jean Giraud rideva leggero come le figure di linea chiara che da tempo amava disegnare firmandosi come Moebius. E come aveva fatto anche in precedenti interviste, rispondeva in modo casuale e enigmatico, lasciando come nelle sue storie la possibilità a qualsiasi sviluppo. Di fronte alla domanda se era giunto a un punto d’arrivo o se la ricerca continuava, così rispose: «Non sto cercando nulla. Cerco di aprire le cose che vengono e sono difatti abbastanza passivo. È la stessa cosa per gli incontri e gli amori: sono piuttosto come un fiore che attira le api. Non so, ma veramente non cerco niente. Cerco solo di fare del mio meglio».
Fecondatore dell’immaginario collettivo, a volte poteva dare la sensazione di non controllare tutto ciò che produceva, ma è un aspetto che lui stesso rivendicava: «Senza dubbio, è questo il gioco ed è ciò che lo rende abbastanza puro. C’è solo un’emissione naturale, come una radiazione o un raggio di sole. Il sole non cerca di irradiare alcunché, lo fa semplicemente, e non solo in direzione della Terra ma illumina dappertutto. Non c’è alcun merito in questo, ma è una funzione naturale». Non è detto che a un’intervista successiva avrebbe detto esattamente così, e in questo l’apice della sua opera gli corrispondeva.


Agamben

Posted: Febbraio 28th, 2012 | Author: | Filed under: au-delà, post-filosofia | 7 Comments »

intervista a Giorgio Agamben

a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 8 febbraio 2011)

Giorgio Agamben. «Nella nostra cultura esistono due modelli di esperienza della parola. Il primo modello è di tipo assertivo: due più due fa quattro, Cristo è risorto il terzo giorno, i corpi cadono secondo la legge di gravità. Questo genere di proposizioni sono caratterizzate dal fatto che rimandano sempre a un valore di verità oggettivo, alla coppia vero-falso. E sono sottoponibili a verifica grazie a un’adeguazione tra parole e fatti, mentre il soggetto che le pronuncia è indifferente all’esito.
Esiste però un altro, immenso ambito di parola del quale sembriamo esserci dimenticati, che rimanda, per usare l’intuizione di Foucault, all’idea di “veridizione”. Lì valgono altri criteri, che non rispondono alla separazione secca tra il vero e il falso. Lì il soggetto che pronuncia una data parola si mette in gioco in ciò che dice. Meglio ancora, il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento».
Giustiniano, mosaico nella chiesa di San VItale a Ravenna

 

Il senso profondo del credere andrebbe dunque ricercato proprio qui?
«Certamente. Anche se, nel corso del tempo, il trionfo del primo modello, quello assertivo, ha di fatto cancellato il secondo. Mi fanno sorridere i confronti, oggi molto in voga, tra credenti e non credenti: veri e propri dialoghi tra sordi, visto che preti e scienziati condividono da versanti opposti lo stesso modello di verità. Poco importa che si discuta di leggi fisiche o teologiche, che naturalmente si elidono tra loro. Si tratta in ogni caso di proposizioni assertive. La confusione tra ciò che possiamo credere, sperare e amare e ciò che siamo tenuti a considerare vero, oggi ci paralizza».
Quando sarebbe stato cancellato il secondo tipo di esperienza con la parola?
«Nella tradizione dell’Occidente, è stato Aristotele ad affermare che la filosofia deve occuparsi soltanto delle proposizioni che possono risultare vere o false. Eppure esisteva ed esiste un’altra esperienza della parola: quella della promessa, della preghiera, del comando, dell’invocazione, che è stata esclusa dalla riflessione filosofica. Naturalmente, ciò non significa che essa non abbia continuato ad agire: il diritto e la religione si fondano su di essa».
Un esempio?
«Il più importante di tutti: San Paolo, che definendo la parola della fede, non fa riferimento a criteri di verità, ma parla di vicinanza tra cuore e labbra. È significativo che, tranne una volta, egli usi sempre l’espressione, da lui inventata, “credere in Gesù Cristo” e non, come sarebbe stato normale in greco, credere che Gesù è il figlio unigenito di Dio, eccetera. -La differenza è sostanziale. La Chiesa, attraverso i suoi concili, ha cercato di fissare la fede in dogma, in un’esperienza di tipo assertivo. E così si è smarrito un tratto fondamentale della natura umana, che esige una fede estranea a una logica puramente fattuale. La vera fede non aderisce a un principio prestabilito ed è singolare che proprio la Chiesa, che doveva preservare questa idea, se ne sia dimenticata. Da qui la formula “Credo perché è assurdo”».
Quali sono i riflessi negativi di tale logica assertiva sulla nostra vita sociale?
«Infiniti. Pensi all’etica: si afferma che per agire bene bisogna disporre di un sistema di credenze prefissato. Dunque, agirebbe bene soltanto colui che ha una serie di principi a cui deve conformarsi. È il modello kantiano, ancora imperante, che definisce l’etica come dovere di obbedire a una legge. Quando lavoravo sull’idea di “testimonianza”, mi colpì la storia di una ragazza che, sottoposta a tortura dalla Gestapo, aveva rifiutato di rivelare i nomi dei suoi compagni. A chi più tardi le chiese in nome di quali principi era riuscita a farlo, rispose soltanto “l’ho fatto perché così mi piaceva”. L’etica non significa obbedire a un dovere, significa mettersi in gioco: in ciò che si pensa, si dice e si crede».
Anche perché, travolta la credenza nell’infallibilità di quella certa legge, rimane un campo di rovine.
«Prima o poi accade a tutte le credenze di tipo oggettivo. E difatti: le credenze politiche si sono letteralmente sbriciolate, quelle teologico-religiose si fossilizzano in dogmi contrapposti. Per quanto riguarda quelle scientifiche, esse risultano completamente irrelate rispetto alla vita etica dei singoli individui».
In Credere e non credere Nicola Chiaromonte formula una domanda secca: si può credere da soli?
«È una domanda pertinente. Che io riformulerei in questo modo: com’è possibile condividere una verità o una fede che non siano di tipo assertivo? Io penso che questo accada nei territori dell’esistenza in cui ci si mette in gioco personalmente. Se la veridizione è lasciata ai margini e il solo modello della verità e della fede diventano la scienza e il dogma, la vita diventa invivibile. Di qui l’indifferenza e lo scetticismo generalizzato, oltre che la tetraggine sociale dilagante. Soltanto procedendo a ritroso, ricercando quella diversa esperienza di parola, si può tornare al rapporto originario con la verità, irriducibile a qualunque sua istituzionalizzazione.
Le faccio un esempio: la scienza guarda al passaggio dal primate all’uomo parlante unicamente in termini cognitivi, come se fosse soltanto una questione di intelligenza e di volume cerebrale. Ma non c’è solo questo aspetto. La trasformazione deve essere stata altrettanto gigantesca dal punto di vista etico, politico, sensibile. L’uomo non è solo homo sapiens. È un animale che, a differenza degli altri viventi, i quali non sembrano dare importanza al loro linguaggio, ha deciso di correre fino in fondo l’azzardo della parola. E da qui è nata la conoscenza, ma anche la promessa, la fede, l’amore, che esorbitano la dimensione puramente cognitiva».
È una strada ancora aperta?
«L’uomo non ha ancora finito di diventare umano, l’antropogenesi è sempre in corso. Menandro ha scritto: “com’è grazioso – cioè capace di gratuità – l’uomo quando è veramente umano”. È questa gratuità che dobbiamo riscoprire. Tanto più che i modelli di credenza che ci vengono proposti non ci persuadono più. Sono, come diceva Chiaromonte, mantenuti a forza, in malafede».
Proviamo dunque a perimetrare il novero di queste credenze più genuine, anche se sotterranee, sommerse.
«Prendiamo la politica: perché non interroga finalmente la vita delle persone? Non la vita biologica, la nuda vita, che oggi è continuamente in questione nei dibattiti spesso vani sulla bioetica, ma le diverse forme di vita, il modo in cui ciascuno si lega a un uso, a un gesto, a una pratica. Ancora: perché l’arte, la poesia, la letteratura, sono museificate e relegate in un mondo a parte, come se fossero politicamente e esistenzialmente irrilevanti?».
Anche lo scrittore russo Alexandr Herzen lamentava a suo modo la cancellazione dell’esperienza vitale soggettiva. Affermando che crediamo in tutto, tranne che in noi stessi.
«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco, nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla “cura di sé”, sulla “pratica di sé”. Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».

Agamben

Posted: Febbraio 18th, 2012 | Author: | Filed under: au-delà, epistemes & società | Commenti disabilitati su Agamben

Se la feroce religione del denaro divora il futuro

«Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire
come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà».

La Repubblica, 16 febbraio 2012

Per capire che cosa significa la parola “futuro”, bisogna prima capire che
cosa significa un´altra parola, che non siamo più abituati a usare se non
nella sfera religiosa: la parola “fede”. Senza fede o fiducia, non è
possibile futuro, c´è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa.
Già, ma che cos´è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza
delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava
appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli
apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza
di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri
cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza,
guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente
davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco di
credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da
mesi di capire: pistis, ” fede” è semplicemente il credito di cui godiamo
presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le
crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è
sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste
ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco
il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un futuro esiste nella
misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre
speranze.

Ma la nostra, si sa, è un´epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola
Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza
convinzione. Quindi un´epoca senza futuro e senza speranze – o di futuri
vuoti e di false speranze. Ma, in quest´epoca troppo vecchia per credere
veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne
è del nostro credito, che ne è del nostro futuro?

Perché, a ben guardare, c´è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno
del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis,
tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca – la trapeza tes
pisteos – è il suo tempio. Il denaro non è che un credito e su molte
banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non – chissà perché, forse
questo avrebbe dovuto insospettirci – sull´euro), c´è ancora scritto che la
banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito. La
cosiddetta “crisi” che stiamo attraversando – ma ciò che si chiama “crisi”,
questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il
capitalismo del nostro tempo – è cominciata con una serie sconsiderata di
operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine
di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole,
che il capitalismo finanziario – e le banche che ne sono l´organo principale
– funziona giocando sul credito – cioè sulla fede – degli uomini.

Ma ciò significa, anche, che l´ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale
il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che
sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla
lettera. La Banca – coi suoi grigi funzionari ed esperti – ha preso il posto
della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce
la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se
stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di
lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo
il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso
(persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro
sovranità). In questo modo, governando il credito, governa non solo il
mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più
corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è
perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto
il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.

Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica
resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene
che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi
tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle
varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è di smettere di
guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece
lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e
soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse,
ritrovare la propria libertà. L´archeologia – non la futurologia – è la sola
via di accesso al presente.

Giorgio Agamben


Buddha

Posted: Gennaio 16th, 2012 | Author: | Filed under: au-delà, General | Commenti disabilitati su Buddha

«Io considero la posizione dei re e dei governanti come quella dei granelli di polvere. Osservo tesori di oro e di gemme come se fossero mattoni e ciottoli. Guardo le più belle vesti di seta come cenci strappati. Vedo le miriadi di mondi dell’universo come i piccoli semi di un frutto, e il più grande lago dell’India come una goccia d’olio sul mio piede. Mi accorgo che gli insegnamenti del mondo sono l’illusione di maghi. Distinguo il più elevato concetto di emancipazione come un broccato d’oro in un sogno, e considero il sacro sentiero degli illuminati come fiori che si schiudano ai nostri occhi. Vedo la meditazione come il pilastro di una montagna, il Nirvana come un incubo delle ore diurne. Considero il giudizio del bene e del male come la danza serpentina di un drago, e il sorgere e il tramontare delle credenze come null’altro che le tracce lasciate dalle quattro stagioni»


Ti auguro tempo per vivere

Posted: Gennaio 1st, 2012 | Author: | Filed under: anthropos, au-delà, Earth | Commenti disabilitati su Ti auguro tempo per vivere

Non ti auguro un dono qualsiasi,
Ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo Fare e il tuo Pensare,
non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.
Ti auguro tempo, non per affrettarti e correre,
ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perchè te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti
e non soltanto per guardarlo sull’orologio.
Ti auguro tempo per toccare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo, per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stesso,
per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo,
tempo per la vita.

http://www.youtube.com/watch?v=PkkYnBleJOA&feature=share


Dopo

Posted: Dicembre 31st, 2011 | Author: | Filed under: arts, au-delà | Commenti disabilitati su Dopo

Io rinascerò senza cuore,
sempre nello stesso universo,
portando sempre la stessa testa,
le stesse mani,
forse di colore diverso,
ma tutto ciò non mi consolerà affatto.

Sarò crudele e solitario
e mi nutrirò di serpi
e di insetti crudi.

Non parlerò con nessuno,
se non con parole d’insetto
o di nude serpi,
con parole che, mio malgrado, vivranno, rideranno.

Réne Daumal


Il suicidio ai tempi della crisi

Posted: Dicembre 17th, 2011 | Author: | Filed under: au-delà, bio | Commenti disabilitati su Il suicidio ai tempi della crisi

By Valerio Monteventi

“Ammazzarsi di lavoro”, mai metafora è diventata una realtà così tragica così come quella che ha legato la morte alla attività lavorativa.

Pur di fronte a un aumento della disoccupazione e della cassa integrazione, in Italia, il bilancio delle vittime è già superiore a quello del 2010: alla fine di ottobre i morti sul lavoro erano 460 contro i 441 dello stesso periodo dell’anno scorso.

Ma la morte arriva sempre più frequente, causata anche dalla crisi e dalla perdita del lavoro. Si tratta delle cosiddette “morti lente”, morti per suicidio provocate dalla disoccupazione e dalla precarietà, lente perché non avvengono improvvisamente, seguono un travaglio che accompagna il soggetto per giorni e per mesi prima di arrivare alla tragica scelta.

[…]


nuda vita

Posted: Dicembre 11th, 2011 | Author: | Filed under: au-delà, Marx oltre Marx | Commenti disabilitati su nuda vita

Il “nudo” e il “sacro”. La biopolitica di Giorgio Agamben
nov21 by sentierierranti

di Fabio Milazzo

“La storia della ratio governamentale, la storia della ragione governamentale e la storia delle contro condotte che le si sono opposte non possono essere dissociate l’una dall’ altra.”

Michel Foucault, “Sicurezza, territorio e popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), p.365.

Un concetto.

Nel 1979 Michel Foucault rese celebre il concetto di “biopolitica” dedicandogli un intero corso al Collège de France[1].

Durante il ciclo di lezioni Foucault cercò di dimostrare la correlazione tra il liberalismo, l’economia e il governo. L’economia, con il liberalismo, diventa il paradigma orientante le pratiche di governo.

“ Mi sembra che l’analisi della biopolitica non si possa fare senza aver compreso il regime generale di questa ragione governamentale di cui vi sto parlando, regime generale che si può chiamare questione di verità, in primo luogo della verità all’interno della ragione governamentale, e di conseguenza se non si comprende bene di che cosa si tratta in questo regime che è il liberalismo, (…) e una volta che avremo saputo che cos’è questo regime governamentale chiamato liberalismo potremo sapere cos’è la biopolitica”[2].

[…]


Jacques Rancière

Posted: Dicembre 10th, 2011 | Author: | Filed under: au-delà, kunst | Commenti disabilitati su Jacques Rancière

«La rupture, c’est de cesser de vivre dans le monde de l’ennemi»

Interview avec «Aisthesis», le philosophe Jacques Rancière trace une contre-histoire de la modernité et pointe la contradiction politique qui est au cœur de celle-ci.

Par ERIC LORET

Cette interview est la version longue et illustrée de celle parue dans le «Cahier Livres» du 17 novembre.

Chaque chapitre d’Aisthesis, le nouvel essai de Jacques Rancière, commence par un texte critique. Tantôt plus canonique, avec Winckelmann à propos du torse du Belvédère, tantôt beaucoup moins : ainsi quand Théodore de Banville étudie les frères Hanlon Lees, stars du mime autour de 1879. Il y a aussi : Mallarmé écrivant sur la Loïe Fuller, Maeterlinck sur le Solness d’Ibsen, le dossier de presse de la Sixième Partie du monde de Dziga Vertov (1926), etc. Quatorze «scènes» que Jacques Rancière explore dans ce livre majeur, fourmillant, où l’on apprend à chaque page (par exemple, à faire tenir des enfants-oiseaux sur le dos d’un hippopotame ; ou, plus difficile, comment passer d’un vase de Gallé à Die Glückliche Hand de Schonberg) et qui déroule une pensée politique toujours aussi décapante. L’auteur nous recevait chez lui la semaine dernière pour commenter son essai.

[…]