Posted: Maggio 20th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su W. Benjamin e l’omino con la gobba
di Raffaele K. Salinari
Il dybbuk e il dybbukim
C’è un personaggio che accompagna, nascosto nel profondo permanente ed immutabile degli archetipi infantili, tutta la vita di Walter Benjamin; un «chi è» che troviamo armeggiante nei nascondigli immaginali in cui il filosofo dei Passages ha voluto esplicitamente collocare la scaturigine del suo pensiero. Un essere metaforico che si nasconde nel buio più recondito da cui originano le sue folgoranti intuizioni, e che da quella postazione gli disamina la visione delle cose.
Questo personaggio ha solo una speciale richiesta, che fa per perpetrarsi nel tempo e nel ricordo di altre generazioni, eternizzare la sua essenza mutandone la forma, come avviene per ogni immortalità simbolica: chiede che il suo nome resti segreto. In caso contrario egli sparirebbe, e con lui il mondo che lo ospita. È il dybbuk di Walter Benjamin: l’«omino con la gobba», Das bucklicht Männlein, che troviamo nascosto anche nell’automa giocatore di scacchi della prima Tesi sul concetto di storia. “È noto che sarebbe esistito un automa costruito in un modo tale da reagire ad ogni mossa di un giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria.
Un manichino vestito da turco, con una pipa in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di specchi veniva data l’illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato. In verità c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino.
Un corrispettivo di questo marchingegno si può immaginare nella filosofia. Vincere sempre deve il manichino detto «materialismo storico». Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere”.
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Posted: Maggio 16th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, comunismo, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | 356 Comments »
di Mona Chollet
da “Le Monde Diplomatique”, maggio 2013
Si lavora e, in cambio, si ricevono soldi. Questa logica è così ben impressa nella mente, che la prospetti- va di garantire un reddito di base incondizionato, cioè di versare a ciascuno una somma mensile sufficiente a permettergli di vivere, indipendentemente dall’attività lavorati- va, sembra un’aberrazione. Siamo ancora convinti di dover strappare a una natura arida e ingrata i mezzi per la sussistenza individuale; ma la realtà è ben diversa.
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Posted: Maggio 16th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: General | Commenti disabilitati su A differenza dell’Italian Theory
di Marco Assennato
In un’intervista del 1965, condotta da Alain Badiou, Michel Foucault accenna all’opportunità di rischiare una storia puramente evenemenziale del pensiero, capace di constatare una serie di fatti in una certa misura grezzi che operano nell’essere stesso della filosofia determinandone articolazioni, posizioni, e innovazioni decisive. Ora, è nella temperie di questo rischio che andrebbe a mio avviso discussa l’ipotesi proposta da Dario Gentili nel suo recente e fortunato Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (il Mulino, 2012). Tentare, sotto il segno di Foucault, una storia fattuale della filosofia italiana dell’ultimo trentennio, al fine di lumeggiare su alcuni limiti attuali del bel paese.
Eppure, ciò è possibile unicamente a condizione di non indugiare di fronte al necessario affondo deciso evocato da Nicolas Martino a proposito del conflitto che oppone la cosiddetta Italian Theory al pensiero della differenza. Ricostruire fattualmente il percorso che porta dall’operaismo di Tronti alla biopolitica di Negri, Agamben ed Esposito, passando per il pensiero negativo, significa scoprire che non si tratta per nulla affatto d’un ciclo unico, ma quantomeno d’una serie di linee divergenti e differenti, piantate nell’essere stesso d’una stagione politica intensa. In breve: del giudizio sull’Italia tra 1968 e 1977.
Perché questo è l’indicibile dell’Italian Theory: questa congerie di fatti grezzi, che battono il ritmo delle lotte operaie e studentesche, l’esplosione del conflitto in fabbrica prima e nella società poi, l’occupazione delle città, la riappropriazione di porzioni sempre più estese della ricchezza sociale da parte del corpo largo del capitale variabile, sulla soglia di uno dei più potenti passaggi di modernizzazione del sistema politico e produttivo che la storia italiana abbia mai conosciuto. Eppure senza quei fatti, duri come pietre, senza il rischio – che alcuni hanno voluto correre e altri rifuggire – di riconoscere quei fatti come portatori di un necessario ripensamento di tutte le categorie del nostro pensiero politico, non si coglie la cifra estroflessa del pensiero italiano. E non se ne comprendono neppure le attuali difficoltà. Riconoscere, a differenza dell’Italian Theory, la nuova composizione del lavoro vivo ha significato, in quegli anni, porre il problema dell’esaurimento della forma costituzionale del dopoguerra e affermare la necessità d’una rottura costituente all’altezza della trasformazione dei rapporti sociali e produttivi.
Rifuggire dal rischio di quel riconoscimento, al contrario, ha costretto altri a rinchiudersi nelle nostalgiche teorie del tramonto della politica, a soffocare nelle maglie d’acciaio del pensiero negativo ogni forma di conflitto, a svestire il bios in nuda vita schiacciata dallo Stato d’eccezione. E oggi significa ridurre il comune prodotto dalla cooperazione immateriale a munus, dono di morte. Communitas, ha scritto Roberto Esposito, deve essere trattenuta al di qua di ogni pretesa di effettuazione storico-empirica. Come se, esauritosi il compromesso keynesiano, tramontati gli Stati Nazionali con il loro pendant di partiti e sindacati, svilita la forza di legge della carta fondamentale della repubblica antifascista, nessun’altra forma costituente potesse essere affermata. E non siamo, ancora oggi, in questo vicolo cieco?
Ma questa è storia di alcuni. Non di tutti. Per comprenderla basterebbe compulsare gli atti del convegno padovano che chiuse la stagione del primo operaismo, pubblicati dagli Editori Riuniti nel 1978 sotto il titolo Operaismo e centralità operaia: giusto per gustare la piroetta di Tronti e Cacciari, compiuta all’ombra della vibrante soddisfazione di Giorgio Napolitano, vero sacerdote di quella messa cantata in onore della Forma-Stato. O riprendere i saggi e le polemiche che hanno segnato la ricezione politica del pensiero di Michel Foucault a partire dalla pubblicazione, nel 1977, di Microfisica del potere. Se i movimenti degli anni Settanta vi trovarono un’analitica delle relazioni sociali come rapporti di potere da spezzare, rovesciare e ricostruire attraverso linee di soggettivazione politica innovative, gli “intellettuali di area comunista”, quelli più vicini al PCI, ne ridussero la ricchezza a metafisica del potere, mito dell’alterità e dell’alternativa, in un mondo in cui presto la compianta Margaret Thatcher avrebbe spiegato che di alternative, proprio non ce ne sono.
Il conflitto teorico odierno passa per un bivio: da una parte la biopolitica affermativa, dall’altra il biopotere negativo. Così è sin dagli anni Settanta. Da una parte un contesto, tutto italiano, che riconosce nel Negative Denken, tra Heidegger e Bataille, l’unico strumento per pensare il politico e dall’altra una tradizione europea, con la quale i movimenti sociali sono in dialogo costante, che cerca ancora un pensiero positivo, sperimentale, esperienziale, affermativo. L’affondo critico che Gentili manca, o maschera attribuendo a Esposito la posizione terminale della sua storia del pensiero italiano, consiste in questo: che il dispositivo foucaultiano non può essere ridotto a Gestell (come fa Agamben sulla scorta di Heidegger), che la soggettività non è sub-jectum – della tecnica o del politico, pure sempre alimentati da una origine, da un possibile, da un potenziale che mai arriva ad effettuarsi (come sostiene Cacciari), che il comune della produzione non è munus derivato dalla uccidibilità generalizzata degli uomini, non chiama alcuna immunizzazione (secondo la traiettoria di Esposito).
A differenza dell’Italian Theory, biopolitica significa ricostruire le trame dell’autonomia relativa del capitale variabile nel dispositivo di produzione, organizzare le forze della cooperazione produttiva contro la cattura del biopotere, ripensare pratiche e poteri costituenti efficaci per uscire dalla penuria dell’inverno triste della politica italiana.
Posted: Maggio 11th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: Archivio, au-delà, Révolution, situationism, surrealism | Commenti disabilitati su Bruciare Debord? A partire da un libro di Anselm Jappe
di Alessandro Simoncini
Persistenze dello spettacolo nel nuovo ordine penitenziale. Una premessa
«Bisogna bruciare Debord?«. Si apre con questa domanda il Guy Debord di Anselm Jappe (Roma, Manifestolibri 2013 → QUI), assai opportunamente ristampato per i tipi della Manifestolibri e pubblicato in prima edizione italiana nel 1992 dalle Edizioni Tracce. Iniziava allora la litania della fine della storia: ogni alternativa alla società del capitale, della merce, del valore e del lavoro comandato doveva cessare di essere concepibile e, nelle intenzioni dei teorici del nuovo ordine, perfino desiderabile. Oltre venti anni dopo, la fine della storia non riesce ancora a finire. Anzi, nella temperie di una crisi acutissima ed ormai permanente – una crisi economica globale che si svolge nel contesto di una transizione geo-politica segnata dalla fine del “secolo americano” -, nuove sfibrate versioni della vecchia litania danno forma ad un discorso-zombie sulla “giustizia dei mercati” che si affatica a fornire una sempre più instabile parvenza di verità alla variante finanziarizzata e neoliberale dell’accumulazione capitalista. Fin dalla sua nascita e per tutti gli anni ’80, ’90 e ‘00, l’espansione finanziaria è stata supportata e riprodotta dalle forme di quell’ordine “spettacolare integrato”che Debord aveva posto al centro della sua radicale indagine nei Commentari sulla società dello spettacolo (1988).
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Posted: Maggio 8th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, bio, donnewomenfemmes, postgender, Révolution | Commenti disabilitati su Carla Lonzi: critica d’arte e femminista. Note introduttive
di GIOVANNA ZAPPERI
Relazione introduttiva alla giornata di studi Carla Lonzi : critique d’art et féministe / Art Critic and Feminist, organizzata dal gruppo di ricerca Travelling Féministe/Travelling Feminism alla Maison Rouge di Parigi [http://travellingfeministe.org/blog/], con interventi di Lucia Aspesi, Sabeth Buchmann, Chiara Fumai, Elisabeth Lebovici, Griselda Pollock, Dora Stiefelmeier, Franceso Ventrella e Giovanna Zapperi.
Carla Lonzi, figura emblematica del femminismo italiano degli anni settanta, è stata anche un’importante critica d’arte nell’Italia degli anni sessanta. Autoritratto, pubblicato nel 1969 e ora tradotto per la prima volta in francese,[i] è un libro-montaggio nel quale Lonzi smantella la critica d’arte et inventa una scrittura basata sulla soggettività, sullo scambio e sulla non-linearità. Questa giornata di studio prende le mosse dalla traiettoria discordante di Carla Lonzi, che abbandona l’arte per il femminismo, per interrogare i rapporti tra pratica artistica e femminismo a partire da una prospettiva minoritaria e poco conosciuta fuori dall’Italia. L’interesse per Carla Lonzi è stato fino ad ora essenzialmente limitato al contesto italiano e ci sembra sia venuto il momento di fare dialogare i suoi scritti con un insieme di teorie e di pratiche femministe transnazionali. Si tratterà infatti di rileggere l’esperienza di Carla Lonzi attraverso una serie di questioni che riguardano sia la storia del femminismo che quella dell’arte intesa come ambito sessuato. A partire da una lettura femminista di Autoritratto, cercheremo di situare Lonzi in un contesto storico ed epistemologico che permetta di pensare le potenzialità dei suoi scritti per una revisione femminista della storia dell’arte e la loro attualità per un femminismo a venire.
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Posted: Maggio 5th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, arts, lacanism | Commenti disabilitati su Slavoj Zizek on David Lynch
In chapter 15 of Seminar XI, Lacan introduces the mysterious notion of the “lamella”: the libido as an organ without body, the incorporeal and for that very reason indestructible life substance that persists beyond the circuit of generation and corruption.(1) It is no accident that commentaries on this passage are rare (for all practical purposes nonexistent); the Lacan with whom we are confronted in this passage does not have a lot in common with the usual figure of Lacan which reigns in the domain of cultural studies. The Lacan of the lamella is “Another Lacan,” as Jacques-Alain Miller put it, a Lacan of drive not desire, of the real not the symbolic.
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Posted: Maggio 4th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, crisi sistemica, critica dell'economia politica, Révolution | 4 Comments »
di Etienne Balibar
E ancora una volta, allarme generale! La vecchia «coppia» franco-tedesca, motore o freno a seconda dei pareri, è sull’orlo dell’implosione. Va detto ai nostri vicini quel che si meritano, anche se stanno per diventare i nostri padroni, o dobbiamo iniziare a pensare per noi, ad accettare i compromessi che dovrebbero evitare il peggio? Credo che sarebbe meglio capire che cosa stia succedendo rispetto all’ensemble europeo, le cui componenti, tutte, insieme si sgretoleranno o si salveranno. La costruzione europea si è bloccata sull’ostacolo del bilancio. Per l’opinione pubblica, è screditata. Ciononostante esiste un sistema politico unico, né nazionale né davvero federale, ma che accumula gli effetti negativi di ogni livello e che ormai comanda tutto. Risulta chiaro, osservando le recenti evoluzioni d’Italia e Francia.
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Posted: Maggio 2nd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: epistemes & società, post-filosofia | 2 Comments »
di Fabrizio Denunzio
L’ambivalente rapporto di Michel Foucault con Kant e con la teoria critica dei francofortesi. Quello che appare come un problema di filologia svela invece un nodo tutt’ora irrisolto nella politica della trasformazione della realtà. Un sentiero di lettura a partire dal volume «Che cos’è l’Illuminismo?» da poco pubblicato dalla casa editrice Mimesis.
Nel 1784 la «Berlinische Monatsschrift», un periodico tedesco di larga diffusione, pubblica la risposta di Kant alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo? A duecento anni di distanza, nel 1984, Michel Foucault, in un libro curato da Paul Rabinow, suo allievo americano, pubblica un saggio dallo stesso titolo e, sulla scia di Kant, risponde alla domanda attualizzandone il significato.
I due testi appaiono ora assieme nel libretto edito da Mimesis, Kant-Foucault, Che cos’è l’illuminismo? (pp. 47, euro 3,90). L’operazione editoriale, di per sé interessante perché offre la partitura originale di un testo classico (quello settecentesco kantiano) con la sua esecuzione contemporanea (quella novecentesca foucaultiana), si espone, però, ad un doppio limite. Il primo, quello di confinare il Foucault pensatore dell’Illuminismo kantiano a questo solo saggio, il secondo di occultare il reale obiettivo perseguito dal filosofo francese: offrire una visione dell’Illuminismo sostanzialmente diversa da quella culturalmente egemonica affermatasi con la Dialettica dell’illuminismo di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. Detta in breve, mettendo mano alla questione dell’Illuminismo Foucault chiarisce i suoi rapporti con la Scuola di Francoforte e la teoria critica della società da essa inventata.
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Posted: Aprile 29th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comunismo, crisi sistemica, Révolution | 9 Comments »
di Slavoj Zizek
Nelle ultime pagine della sua monumentale “Seconda guerra mondiale”, Winston
Churchill riflette sull’enigma di una decisione militare: dopo che gli
specialisti (economisti e esperti militari, psicologi, metereologi)
propongono le loro analisi, qualcuno deve assumersi la responsabilità più
semplice e proprio per questa ragione più difficile, quella di convertire
questa complessa moltitudine in un semplice si o no. Dovremmo attaccare,
dobbiamo continuare ad aspettare, eccetera. Questo atto, che non può mai
essere in tutto e per tutto razionale, è quello di un Comandante. Compito
degli esperti è quello di presentare la situazione nella sua complessità,
compito del Comandante è quello di semplificarla in una secca decisione. Il
Comandante è necessario soprattutto in situazioni di profonda crisi. La sua
funzione è quella di sancire un’autentica spaccatura: una spaccatura fra
coloro che vogliono tirare avanti con la vecchia visione del mondo e coloro
che sono consapevoli del necessario cambiamento. L’unica strada per una vera
unità è l’identificazione di una tale spaccatura, e non quella fatta di
compromessi opportunistici. Prendiamo un esempio che sicuramente non è
problematico: la Francia nel 1940. Persino Jacques Duclos, seconda
personalità del Partito Comunista Francese, ammise in una conversazione
privata che se in quel momento si fossero tenute libere elezioni in Francia,
il Maresciallo Petain avrebbe vinto col 90% dei voti. Quando De Gaulle, con
un gesto storico, rifiutò l’accettazione dell’armistizio con i tedeschi e
continuò la resistenza, egli affermò di essere lui, e non il regime di
Vichy, l’unico a parlare in nome della vera Francia (in nome di tutta la
vera Francia, non solo in nome della maggioranza dei francesi). Ciò che
stava dicendo era profondamente vero anche se democraticamente una tale
affermazione era non solo senza legittimazione alcuna, ma era chiaramente in
contrapposizione con l’opinione della maggioranza dei francesi. Margaret
Thatcher, la signora che non era fatta per arretrare, era un Comandante di
questo tipo. Rimanendo ferma sulle sue posizioni all’inizio percepite come
folli, gradualmente trasformò la sua singolare pazzia in norma comunemente
accettata. Quando fu chiesto alla Thatcher quale era stato il suo più grande
successo, lei prontamente rispose: “Il New Labour”. E aveva ragione: il suo
trionfo fu che persino i suoi nemici politici adottarono le sue basi
economiche, il vero trionfo non è la vittoria sul nemico, esso avviene
quando il nemico stesso inizia ad usare il tuo linguaggio, così che le tue
idee costituiscono la base dell’intero campo di battaglia. Ora, cosa rimane
oggi dell’eredità della Thatcher?
L’egemonia neoliberista sta chiaramente frantumandosi. La Thatcher, forse,
era l’unica vera thatcheriana: lei credeva veramente nelle sue idee. Il
neoliberismo odierno, al contrario, “finge solamente di credere in se stesso
e chiede che il mondo finga la stessa cosa” (per citare Marx). In breve,
oggi, il cinismo si mostra apertamente. Richiama il crudele scherzo di
Lubitch in “Essere o non essere”: quando gli fu chiesto dei campi di
concentramento tedeschi nella Polonia occupata, l’ufficiale responsabile del
campo, Ernhardt, ribatté: “Noi facevamo il concentramento, e i polacchi la
campeggiatura”. La stessa cosa non si adatta bene per la bancarotta della
Enron nel gennaio 2002 (e per tutto il crollo finanziario che ne seguì), che
può essere interpretata come una sorta di commentario ironico sul concetto
di “società del rischio”? Migliaia di impiegati che persero il loro lavoro e
i loro risparmi erano certamente esposti a un rischio, ma senza alcuna vera
possibilità di scelta: il rischio appariva loro come un cieco destino.
Coloro che, al contrario, effettivamente avevano la possibilità di
controllare i rischi e di intervenire nella situazione (i top manager),
minimizzarono i loro rischi vendendo le loro azioni prima della bancarotta.
Così è vero che noi viviamo in una società fatta di scelte rischiose, ma
alcuni (i manager di Wall Street) compiono le scelte, mentre altri (le
persone comuni che pagano i loro mutui) si assumono i rischi. Una delle più
strane conseguenze del crollo finanziario e delle misure prese per reagirvi
(enormi somme di denaro impiegate per salvare le banche) è stata il revival
del lavoro di Ayn Rand, una di quelli che si possono chiamare, senza timore
di sbagliarsi, ideologi del capitalismo radicale e sostenitori della
rapacità. Secondo alcune relazioni, ci sono già segnali che lo scenario
descritto ne “La rivolta di Atlante” (lo sciopero dei capitalisti creativi)
sia in atto. John Campbell, deputato repubblicano, ha detto: “I vincenti
stanno iniziando a scioperare. Sto vedendo, in alcuni casi, una sorta di
protesta da parte delle persone che creano lavoro, che si stanno ritirando
dalle loro ambizioni poiché vedono che loro potrebbero essere puniti per
queste”. L’assurdità di una tale reazione è del tipo di quelle che
distorcono completamente la situazione: la maggior parte delle somme
stanziate per il salvataggio stanno finendo esattamente nelle tasche dei
“titani” senza regole descritti da Rand che hanno fallito nelle loro
fantasie creative e ci hanno portato sull’orlo del collasso. Non sono i
grandi geni creativi che stanno aiutando le pigre persone comuni, sono i
cittadini comuni che pagano le tasse che stanno aiutando i fallimentari
“geni creativi”. L’altro aspetto dell’eredità thatcheriana additato dai suoi
critici di sinistra è stato quello dell'”autoritarismo” della sua
leadership, la sua mancanza del senso di collaborazione democratica. Su
questo punto, comunque, le cose sono più complesse di quanto potrebbero
apparire. Le proteste che stanno attraversando l’Europa convergono in una
serie di richieste che, nella loro spontaneità e ovvietà, formano una sorta
di “ostacolo epistemologico” all’appropriato confronto con la presente crisi
del nostro sistema economico. Queste effettivamente possono essere lette
come una versione popolarizzata delle idee di Deleuze: le persone sanno cosa
vogliono, sono capaci di scoprirlo e di formulare le loro richieste, ma solo
attraverso il loro impegno e la loro continua attività. Così abbiamo bisogno
di una democrazia partecipativa, non solo di una democrazia rappresentativa
con i suoi rituali elettorali che interrompono ogni quattro anni la
passività degli elettori; abbiamo bisogno dell’auto-organizzazione delle
moltitudini, non di un Partito leninista centralizzato con un leader,
eccetera. Questo mito dell’auto-organizzazione diretta e non rappresentativa
è l’ultima trappola, la più profonda illusione che deve cadere, la più
difficile a cui rinunciare. Si, in ogni processo rivoluzionario ci sono
momenti estatici di solidarietà collettiva in cui migliaia, centinaia di
migliaia di cittadini occupano insieme un luogo pubblico, come piazza Tahrir
due anni fa. Si, ci sono momenti di intensa partecipazione collettiva
durante i quali le comunità locali animano dibattiti e discutono, in cui le
persone vivono sotto un permanente stato di emergenza, prendendo le cose con
le loro mani, senza leader che li guidino. Ma questi momenti non durano, e
la “stanchezza” qui non è solo un fatto psicologico, è una categoria
dell’ontologia sociale.
La grande maggioranza delle persone, me compreso, vuole essere passivo e
vuole poter contare su un efficiente apparato statale che garantisca
l’andamento dell’intero edificio sociale, così che io possa condurre le mie
occupazioni in pace. Walter Lippmann scrisse nel suo “Opinione pubblica” del
1922 che le masse di cittadini devono essere guidate da una “classe
specializzata i cui interessi oltrepassino il livello dell’immediatezza”.
Questa classe di elite deve agire come un “macchinario conoscitivo” che
aggiri la sconfitta principale della democrazia, l’impossibile ideale del
cittadino onnicompetente. Questo è il modo in cui le nostre democrazie
funzionano. Con il nostro consenso. Non c’è nulla di misterioso in ciò che
Lippmann ha scritto, è un fatto lapalissiano; il mistero risiede nel fatto
che noi, sapendo questo, continuiamo il gioco. Noi agiamo come se stessimo
decidendo liberamente ma in realtà non solo accettiamo ma addirittura
domandiamo che un’invisibile ingiunzione (inscritta nella stessa forma della
nostra libertà di parola) ci dica cosa fare e pensare. “Le persone sanno ciò
che vogliono”, no, loro non lo sanno, e non vogliono saperlo. Hanno bisogno
di una buona elite, che è poi il motivo per cui un vero politico non solo
sostiene gli interessi dei cittadini, ma è anche lo strumento attraverso il
cui essi scoprono ciò che realmente vogliono. Nella lotta fra
un’auto-organizzazione della moltitudine contro l’ordine gerarchico
sostenuto dal riferimento a un leader carismatico, notare l’ironia di come
il Venezuela, un paese lodato da molti per il suo tentativo di sviluppare
esperimenti di democrazia diretta (concili locali, cooperative, fabbriche
autogestite), è anche un paese il cui presidente era Hugo Chavez, leader
forte e carismatico come pochi: è come se fosse in atto la regola freudiana
della trasposizione. Per far sì che gli individui superino se stessi, e si
impegnino in prima persona come agenti politici, è necessario il riferimento
a un leader, un leader che permetta loro di tirarsi fuori dalle paludi come
il barone di Munchausen, un leader che si pensa sappia ciò che essi
vogliono. E’ in questo senso che Alain Badiou ha recentemente fatto notare
come i sistemi orizzontali minino la classica figura del Comandante, ma allo
stesso tempo diano luogo a nuove forme di dominazione che sono molto più
forti di quelle del classico Comandante. La tesi di Badiou è che un soggetto
ha bisogno di un Comandante per elevarsi sopra la sua condizione di “animale
umano” e per praticare la fedeltà a un Evento-Verità. “Il Comandante è colui
che aiuta l’individuo a divenire soggetto. Sarebbe a dire che se uno ammette
che il soggetto emerge nella tensione fra l’individuale e l’universale,
allora è ovvio che l’individuale necessita di una mediazione, e quindi di
un’autorità, per progredire su questa strada. Bisogna rinnovare la posizione
del Comandante, non è vero che si può farne a meno, persino e specialmente
in una prospettiva di emancipazione.” Badiou non ha paura di opporre il
necessario ruolo del Comandante alla nostra sensibilità democratica: “Questa
funzione capitale del leader non è compatibile con la predominante atmosfera
democratica, ed è per questo che io sono impegnato in una dura lotta contro
questa atmosfera (dopo tutto, uno deve iniziare dall’ideologia).”
Dovremmo seguire senza paura il suo suggerimento: per risvegliare
effettivamente gli individui dal loro dogmatico “sonno democratico”, dalla
loro cieca fiducia nelle forme istituzionalizzate della democrazia
rappresentativa, gli appelli all’auto-organizzazione non sono abbastanza: è
necessaria una nuova figura di Comandante. Ciò richiama i famosi versi della
poesia di Rimbaud “A una Ragione”: “Un tocco del tuo dito sul tamburo
scarica tutti i suoni e dà inizio alla nuova armonia./Un tuo passo, è la
leva degli uomini nuovi e il loro segnale di partenza/la tua testa si volge
di là: il nuovo amore! La tua testa si volge di qua: il nuovo amore!”. Non
c’è assolutamente nulla di intrinsecamente fascista in questi versi. Il
supremo paradosso delle dinamiche politiche è che un Comandante è necessario
per tirar fuori gli individui dalla palude della loro inerzia e per
motivarli verso la lotta emancipatoria e auto-trascendente per la libertà.
Ciò di cui abbiamo bisogno noi oggi, in questa situazione, è di una Thatcher
della sinistra: un leader che ripeta i comportamenti della Thatcher nella
direzione opposta, trasformando l’intero campo di presupposti condivisi
dall’elite politica odierna di tutti i principali orientamenti.
Posted: Aprile 27th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comune, comunismo, philosophia, post-filosofia, postoperaismo | 78 Comments »
di TONI NEGRI
C’è, in questa riscrittura badiousiana della Repubblica di Platone, un richiamo al “comunismo” come forma di governo, “quinta” oltre le quattro criticate dal fondatore dell’idealismo filosofico: dunque, oltre la Timocrazia (o il governo degli eroi) e l’Oligarchia (dei principi), oltre la Democrazia e la Tirannide (sempre fra loro ciclicamente intercambiabili). Ed è un bel concetto, questo, quasi una innovazione teorica – essa ha, come molte proposte del post-moderno avuto espressione già in altri episodi della filosofia politica, come nelle varie esperienze democratiche di costruzione di comunità ecclesiali, nel Medioevo o nella Riforma, o nella “democrazia assoluta” spinoziana, o nelle stesse utopie anarchiche e socialiste della modernità. Che un solido Philosophe – ovvero un uomo dei Lumi, come a me pare Badiou – rivendichi quest’ideale, è non solo atteso ma bello. Nel suo libro che non è una trattazione sistematica della Repubblica di Platone, né un semplicemente un ammodernamento del testo, né l’esperienza di un dialogo amoroso del filosofo con Amantea (figura femminile e “repubblicana”, invenzione davvero formidabile) – nel suo libro dunque, la si legge con gioia quest’avventura ideale – solo relativamente appassita da qualche noioso esercizio antiquario.
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