Non trovo le parole per salutare Antonio Caronia e questo sarà un pessimo post, ma non so fare altrimenti.
Inutile ricordare quanto gli dobbiamo. Personalmente quasi tutta la distopia infinita: Gibson, Dick, Ballard. E poi le visioni sui postumani. In mezzo “i supereroi con superproblemi”, Frank Miller del Batman, The Dark Night e Alan Moore di Watchmen. Nel passaggio dei primissimi anni ’90, io pivellino universitario provinciale a Roma, a leggerlo in fanzine fichissime, rivistone teoriche e a smanettare per improbabili BBS, da analfabeta cibernetico quale ero e sono.
Delimitare un’ontologia del presente, ricominciare dalla critica come strumento “povero” per dirla con Benjamin, fare della critica il fuoco delle preoccupazioni e degli addensamenti di pensiero come delle dispersioni e delle traiettorie di esodo dalla infelice esistenza nel capitalismo, sembra essere il contenuto più adeguato del giornalismo filosofico.
Con questa intervista a Toni Negri, si apre su globalproject.info una nuova finestra che proporrà con continuità a partire da oggi inedite occasioni di analisi, approfondimento e formazione teorico-politica.
E proprio le caratteristiche della fase “post-austerity”, che si sta affacciando dopo sei anni di gestione capitalistica della crisi, in Europa e nella relazione tra questo spazio e gli scenari globali, saranno al centro del lavoro di queste prime settimane.
A partire, ad esempio, dalle tensioni che hanno investito nelle ultime ore i mercati delle cosiddette “economie emergenti”. E’ il sistema nei cambi ad entrare, per la prima volta dall’inizio della crisi, in fibrillazione, quasi ad indicare come forse sui rapporti valutari il capitale finanziario abbia cominciato a giocarsi la partita per la stabilizzazione e il rilancio delle dinamiche di accumulazione. Provare a comprendere che cosa stia succedendo sarà una delle sfide che MM si prepara ad affrontare.
1. Se dovesse individuare delle qualità fondamentali per definire la trama del lavoro cognitivo oggi emergente, cosa indicherebbe?
Per identificare le qualità rilevanti del lavoro cognitivo, bisogna innanzitutto capire che cosa è e dove lo troviamo, nei processi produttivi di oggi. Bisogna innanzitutto distinguere il lavoro cognitivo con cui abbiamo a che fare ai nostri giorni (nel contesto della modernità) dal lavoro energetico-muscolare del passato (riferito ai modelli provenienti dall’epoca pre-moderna). In linea generale, possiamo chiamare lavoro cognitivo ogni forma di lavoro che – come output utile – produce conoscenza, usando questa conoscenza sia per generare significati o legami dotati di valore (per gli interlocutori a cui sono rivolti), sia, in altri casi, per governare e avviare trasformazioni materiali realizzate da macchine e da energia artificiale.
Il processo di messa a valore della vita procede in modo sempre più veloce. Oltre alla cattura e all’espropriazione quotidiana del general intellect, elementi sempre più sofisticati della cooperazione sociale costituiscono ambiti di sfruttamento e di accumulazione biocapitalistica. In particolar modo, i social network con i nuovi algoritmi recentemente inseriti, sono in grado di personalizzare le nostre relazioni sociali, creando enormi riserve di “big data” funzionali alla creazione di banche dati per la diffusione di nuove forme di bio-marketing e di potenti strumenti di sussunzione della vita. Ma tali algoritmi possono essere utilizzati anche per fini alternativi. Nel workshop “Algorithm and Capital”, che si è tenuto al Goldsmith College di Londra, lo scorso 21 gennaio, si è discusso anche di moneta digitale, delle sue potenzialità e limiti. Qui presentiamo l’intervento di Giorgio Griziotti.
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Non si tratta più di decidere se bisogna arrivare o meno, alle pratiche dell’ingegneria biologica, ma di cosa fare con queste tecniche. La lotta è ormai portata sulle alternative paradigmatiche del bios e la moltitudine è chiamata a scontrarsi sull’idea e la realtà, modello, linguaggio di corpo che vuol destinare al General Intellect.
Toni Negri “Desiderio del mostro: dal circo al laboratorio alla politica” 2001[1]
L’uso delle tecnologie è l’asse portante della metamorfosi indotta dalla fusione di vita e lavoro caratteristica del capitalismo cognitivo. Una metamorfosi che investe la coppia innato/acquisito, dove quest’ultimo nel darwinista nature vs nurture[2] è il “nutrimento” dell’ambiente, dalla terra madre alla parola.
Per più di un secolo il dibattito speculativo sul binomio alimenta filosofia, psicologia, ricerca medica e scienze umane e fonda l’organizzazione disciplinare della società compresa quella del regime nazista che ne fa il perno della sua ontologia distruttrice.
Anticipazioni. Un estratto della conferenza che il filosofo del linguaggio terrà al Festival delle scienze, all’Auditorium di Roma, venerdì 24, alle ore 16.30
Platone aveva una scarsa considerazione della democrazia. Riteneva che la politica fosse un’arte ed era convinto che per comprendere l’essenza di quell’arte bisognasse avere delle competenze. Il filosofo ha sempre sostenuto che non c’è alcuna speranza che la moltitudine possa conseguire le abilità richieste per governare, poiché viene facilmente ingannata dai sofisti. Da ciò ne è conseguito, per il pensatore greco, un rifiuto netto per la democrazia come sistema di potere praticabile. È «probabile che le origini della tirannia si trovino proprio in un regime democratico e in nessun altro luogo» (Platone, La Repubblica). Un giusto sistema di governo deve insediare al potere i filosofi, sono loro gli unici in grado di comprendere l’essenza delle cose.
Platone aveva ragione a considerare le sue opinioni incompatibili con la democrazia. L’idea che i cittadini non siano capaci di dare giudizi sull’amministrazione pubblica, che l’economia e la politica siano aree di competenza, come il campo medico, è qualcosa di profondamente antidemocratico. Cosa è necessario dunque per una democrazia al fine di evitare la minaccia che si «trasformi in tirannia»? Secondo quanto affermato da molti studiosi, la democrazia esige una cittadinanza informata, qualcuno che possa impegnarsi in dibattiti pubblici motivati su questioni politiche. È uno standard elevato.
Un’idea più «modesta» dei requisiti necessari alla democrazia è tuttavia difendibile: i cittadini devono avere una ragionevole capacità nel riconoscere quando un’azione politica viene fatta nel loro interesse. La visione di Platone è antidemocratica perché parte dal presupposto che anche questo livello sia troppo alto. La moltitudine sarà sempre ingannata dalla propaganda e dalla falsa retorica, indotta a votare contro i propri interessi.
Una profonda comprensione di come il linguaggio venga utilizzato per insidiare la democrazia stessa è, quindi, essenziale in ogni stato democratico.
Non è necessaria nessuna specializzazione in filosofia del linguaggio o in linguistica per riuscire a individuare alcuni usi della propaganda. Per esempio, è pratica comune negli Stati Uniti dare un nome fuorviante ai disegni di legge. Quello del 2001, che ha permesso alle forze governative di violare la Costituzione degli Stati Uniti, con lo spionaggio dei suoi cittadini, senza un mandato, è stato chiamato «Patriot Act», un nome che ha indebolito la possibilità di fare opposizione.
Più di recente, nel novembre 2013, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato la legge «Swap Regulatory Improvement Act». Il nome del disegno di legge suggeriva che quel dispositivo avrebbe dovuto migliorare la regolamentazione del mercato nel campo dei derivati, lo stesso che provocò il crollo del sistema finanziario mondiale nel 2008 e obbligò al salvataggio di grandi istituzioni finanziarie in Usa. Eppure, scritto quasi interamente dalla megabanca Citigroup, il disegno di legge permette proprio alle banche di utilizzare i depositi assicurati dal governo federale per speculare sul mercato dei derivati. Tutela in tal modo le stesse banche: saranno infatti nuovamente «salvate» se i mercati dei derivati, ancora una volta, subiranno un collasso. È questo in realtà l’unico «miglioramento normativo» che il disegno di legge propone.
La strategia è particolarmente diffusa nella politica economica, in cui le parole utilizzate per raccontare ciò che sta accadendo con gli Stati vengono prelevate dai contesti che descrivono le finanze di una famiglia normale. La parola «debito» è diversa se applicata all’Unione europea, che può stampare la propria moneta, piuttosto che ad una famiglia, che non può farlo. Ma un capofamiglia, che si identifica in colui che cerca di evitare di debito, può essere ingannato e appoggiare politiche che, di fatto, vanno contro gli interessi della sua famiglia; l’imbroglio sta nell’incapacità di comprendere che «debito» significa qualcosa di molto differente se riguarda un governo o una unione politica.
Ci sono poi forme più sottili di propaganda, per le quali un’analisi dettagliata del linguaggio e dell’uso linguistico risulta assai utile. I linguisti distinguono tra ciò che è presupposto da un enunciato e il punto focale del medesimo. Chi è in disaccordo, deve accettare prima i presupposti di quell’enunciato. Se affermo: «È Giovanni che ha risolto il problema», e qualcuno non è d’accordo, deve suggerire che un altro abbia agito. È difficile dire «no» e voler con ciò asserire che il problema non sia stato affatto risolto. L’espressione «È Giovanni che ha risolto il problema» fa presumere che qualcuno lo abbia comunque districato.
Allo stesso modo: «È stato il presidente Obama a causare il disastro», ci dice qualcosa circa il suo tentativo di ampliare l’accesso alle cure sanitarie, ma ipotizza che la legge sanitaria sia catastrofica, affermando però che la causa è proprio il presidente Obama (piuttosto che le assicurazioni sanitarie). L’attenzione al dibattito in linguistica circa il «presupposto» è essenziale per comprendere a fondo cosa stia accadendo.
Un altro tipo di esempio. Lo slogan di canale Fox descrive l’emittente come «imparziale ed equilibrata». Ma è abbastanza ovvio, anche al suo stesso pubblico, che il canale Fox News non sia né l’uno né l’altro. La ragione per cui sfoggia questo slogan è quello di invitare a pensare che non esiste qualcosa che sia giusto ed equilibrato — che non vi è alcuna possibilità di dare notizie obiettive, esiste solo la propaganda. Lo scopo è quello di insinuare che tutti i media siano generalmente insinceri. Gli effetti di un tale pregiudizio sono evidenti nelle società in cui i media statali usano il linguaggio soltanto come un meccanismo di controllo, invece che come fonte di informazione. I cittadini che crescono in uno stato in cui le autorità distribuiscono esclusivamente propaganda non sviluppano alcuna domestichezza con i meccanismi della fiducia.
Quindi, anche se i membri di quella società hanno accesso a notizie attendibili, magari via Internet, non si fidano. Sono addestrati al sospetto. Senza fiducia, non vi è alcun modo, per qualsiasi speaker, di essere preso sul serio nel pubblico dominio. Il risultato di questo atteggiamento? È una società in cui le distinzioni tra politici e clowns svaniscono.
Uno Stato democratico è quello in cui l’ingresso delle persone comuni nelle scelte politiche le rende legittime. Ma la diffusione e l’accettazione della propaganda da parte dei politici e dei media mina la pregnanza della loro partecipazione. Se l’opinione pubblica è stata disorientata dalla propaganda costruita da chi detiene il potere, l’entrata in politica dei cittadini è irrilevante e lo stato non democratico. Uno Stato democratico necessita una cittadinanza sempre vigile, in grado di monitorare e punire i suoi politici e i media quando piegano il linguaggio ad un meccanismo di controllo, dimenticando che è invece una fonte di informazione.
Le Nouvel Observateur: Nel 1990 ha pubblicato Gender Trouble (trad. it., Questione di genere), testo che ha segnato l’irruzione, nel dibattito intellettuale, della “teoria del gender”. Di cosa si tratta?
Judith Butler: Intanto ritengo importante precisare di non aver inventato gli “studi di genere” (gender studies): la categoria di “genere” era infatti già in uso dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti, sia all’interno della ricerca sociologica, sia in quella antropologica. In Francia, invece, in particolare sotto l’influsso di Lévi-Strauss, si è preferito parlare di “differenze sessuali”. La cosiddetta “teoria del gender” prende dunque piede solo tra gli anni Ottanta e Novanta, innestandosi proprio all’incrocio tra l’antropologia statunitense e lo strutturalismo francese.
Democrazia dimezzate. In nome della sicurezza il neoliberismo più radicale convive con l’interventismo statale nella vita sociale. Un’anticipazione dall’ultimo numero di «Le Monde Diplomatique» in edicola con «il manifesto» da domani. Nella terra di nessuno al confine tra pubblico e privato avviene la demolizione della vita politica. Videosorveglianza e tracciabilità del Dna individuale sono le nuove tecnologie del controllo
La formula «per ragioni di sicurezza» («for security reasons», «pour raisons de sécurité») funziona come un argomento autorevole che, tagliando corto in ogni discussione, permette di imporre prospettive e misure che non si accetterebbero senza di essa. Bisogna opporgli l’analisi di un concetto dall’apparenza anodino, ma che sembra aver soppiantato ogni altra nozione politica: la sicurezza.
Si potrebbe pensare che lo scopo delle politiche di sicurezza sia prevenire i pericoli, i disordini, persino le catastrofi. Una certa genealogia fa infatti risalire l’origine del concetto al proverbio romano Salus pubblica suprema lex («La salvezza del popolo è la legge suprema»), iscrivendolo così nel paradigma dello stato di emergenza. Pensiamo al senatus consultum ultimum e alla dittatura a Roma; al principio del diritto canonico secondo cui Necessitas non habet legem («La necessità non ha affatto legge»); ai comitati di salute pubblica durante la Rivoluzione francese; alla costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII° (1799), che evoca i «disordini che minaccerebbero la sicurtà dello stato»; o ancora all’articolo 48 della costituzione di Weimar (1919), fondamento giuridico del regime nazional-socialista, che ugualmente menzionava la «sicurezza pubblica».
Per quanto corretta, questa genealogia non permette di comprendere i dispositivi di sicurezza contemporanei. Le procedure di emergenza mirano una minaccia immediata e reale che bisogna eliminare sospendendo per un tempo limitato le garanzie della legge; le «ragioni di sicurezza» di cui si parla oggi costituiscono al contrario una tecnica di governo normale e permanente.
Il buon timoniere
Molto più che nello stato di emergenza, Michel Foucault consiglia di cercare l’origine della sicurezza contemporanea negli albori dell’economia moderna, in François Quesnay (1694–1774) e i fisiocratici. (…)
Uno dei principali problemi che allora i governi dovevano affrontare era quello delle carestie e della fame. Fino a Quesnay, provarono a prevenirli creando granai pubblici e vietando l’esportazione dei cereali. Ma queste misure preventive avevano degli effetti negativi sulla produzione. L’idea di Quesnay fu di ribaltare il procedimento: anziché provare a prevenire le carestie, bisognava lasciare che esse si verificassero, con la liberalizzazione del commercio interno e esterno, per governarle una volta verificatesi.
«Governare» riprende qui il suo senso etimologico: un buon pilota – colui che tiene il timone, non può evitare la tempesta ma, se essa sopraggiunge, deve essere capace di guidare la sua barca.
È in questo senso che bisogna compredere la formula che si attribuisce a Quesnay, ma che in verità egli non ha mai scritto: «Lasciar fare, lasciar passare». Lungi dall’essere solamente il motto del liberismo economico, essa designa un paradigma di governo che situa la sicurezza – Quesnay evoca la «sicurezza dei fattori e degli aratori» – non nella prevenzione dei disordini e dei disastri, ma nella capacità di canalizzarli in una direzione utile.
Bisogna misurare la portata filosofica di questo rovesciamento che sconvolge la tradizionale relazione gerarchica tra le cause e gli effetti: poiché è vano o ad ogni modo costoso governare le cause, è più sicuro e più utile governare gli effetti. L’importanza di questo assioma non è trascurabile: esso regge le nostre società, dall’economia all’ecologia, dalla politica estera e militare fino alle misure di sicurezza e di polizia. È ancora esso che permette di comprendere la convergenza altrimenti misteriosa tra un liberismo assoluto in economia e un controllo securitario senza precedenti.
Orizzonti biometrici
Prendiamo due esempi per illustrare questa apparente contraddizione. Quello dell’acqua potabile, innanzitutto. Benché si sappia che presto essa mancherà su una grande parte del pianeta, nessun paese conduce una politica seria per evitarne lo spreco. Invece, vediamo svilupparsi, ai quattro angoli del globo, le tecniche e gli stabilimenti per il trattamento delle acque inquinate – un grande mercato in divenire.
Consideriamo ora i dispositivi biometrici, che sono uno degli aspetti più inquietanti delle tecnologie securitarie attuali. La biometria è comparsa in Francia nella seconda metà del XIX secolo. Il criminologo Alphonse Bertillon (1853–1914) si basò sulla fotografia segnaletica e sulle misure antropometriche al fine di costituire il suo «ritratto parlato», che utilizza un lessico standardizzato per descrivere gli individui su una scheda segnaletica. Poco dopo, in Inghilterra, un cugino di Charles Darwin e grande ammiratore di Bertillon, Francis Galton (1822–1911), mise a punto la tecnica delle impronte digitali. Ora, questi dispositivi, chiaramente, non permettevano di prevenire i crimini, ma di sorprendere i criminali recidivi. Ritroviamo qui ancora la concezione securitaria dei fisiocrati: è solo dopo che un crimine è stato compiuto che lo Stato può intervenire. (.…)
Il governo della popolazione
L’estensione progressiva a tutti i cittadini delle tecniche di identificazione una volta riservate ai criminali agisce immancabilmente sulla loro identità politica. Per la prima volta nella storia dell’umanità, l’identità non è più funzione della «persona» sociale e della sua riconoscibilità, del «nome» e della «fama», ma di dati biologici che non possono avere alcun rapporto con il soggetto, come gli arabeschi insensati che il mio pollice tinto di inchiostro ha lasciato su un foglio o l’ordine dei miei geni nella doppia elica del Dna. Il fatto più neutro e più privato diventa così il veicolo dell’identità sociale, sottraendogli il suo carattere pubblico.
Se criteri biologici che non dipendono per niente dalla mia volontà determinano la mia identità, allora la costruzione di un’identità politica diviene problematica. Quale tipo di relazione posso io stabilire con le mie impronte digitali o il mio codice genetico? Lo spazio dell’etica e della politica che eravamo abituati a concepire perde di senso ed esige di essere ripensato da cima a fondo. Mentre i cittadini greci si definivano mediante l’opposizione tra il privato e il pubblico, la casa (sede della vita riproduttiva) e la città (luogo della politica), il cittadino moderno sembra piuttosto evolvere in una zona di indifferenziazione tra il pubblico e il privato, o, per impiegare le parole di Thomas Hobbes, tra il corpo fisico e il corpo politico.
Questa indifferenziazione si materializza nella videosorveglianza delle strade nelle nostre città. Questo dispositivo ha conosciuto lo stesso destino delle impronte digitali: concepito per le prigioni, è stato progressivamente esteso ai luoghi pubblici. Ora uno spazio videosorvegliato non è più un’agorà, non ha più alcun carattere pubblico; è una zona grigia tra il pubblico e il privato, la prigione e il foro. Una tale trasformazione dipende da una molteplicità di cause, tra le quali occupa un posto particolare la deriva del potere moderno verso la biopolitica: si tratta di governare la vita biologica dei cittadini (salute, fecondità, sessualità, ecc.) e non più solo di esercitare una sovranità su un territorio. Questo spostamento della nozione di vita biologica verso il centro della politica spiega il primato dell’identità fisica sull’identità politica. (…)
Nei suoi corsi al Collège de France come nel suo libro Sorvegliare e Punire, Foucault accenna una classificazione tipologica degli Stati moderni. Il filosofo mostra come lo Stato dell’Ancien régime, definito come uno stato territoriale o di sovranità, il cui motto era «far morire e lasciar vivere», evolva progressivamente verso uno Stato della popolazione, dove la popolazione demografica si sostituisce al popolo politico, e verso uno stato di disciplina, il cui motto si inverte in «Lasciar vivere, e lasciar morire»: uno Stato che si occupa della vita dei sudditi al fine di produrre corpi sani, docili e ordinati.
Lo Stato in cui viviamo oggi in Europa non è uno stato della disciplina, ma piuttosto – secondo la formula di Gilles Deleuze – uno «Stato del controllo»: esso non ha come scopo ordinare e disciplinare, ma gestire e controllare. Dopo la violenta repressione delle manifestazioni contro i G8 di Genova, nel luglio 2001, un funzionario della polizia italiana dichiarò che il governo non voleva che la polizia mantenesse l’ordine, ma che gestisse il disordine: l’uomo non sapeva quanto avesse ragione. Da parte loro, alcuni intellettuali americani che hanno provato a riflettere sui cambiamenti costituzionali indotti dal Patriot act e la legislazione post-11-settembre preferiscono parlare di «Stato di sicurezza» (security state). (…)
Potenze destituenti
Ponendosi sotto il segno della sicurezza, lo Stato moderno esce dal campo della politica per entrare in una no man’s land di cui si percepisce male la geografia e le frontiere e per il quale il carattere concettuale ci manca. Questo Stato, il cui nome rimanda etimologicamente a una assenza di preoccupazione (securus: sine cura) può al contrario solo renderci più preoccupati dei pericoli che fa correre alla democrazia, poiché una vita politica vi è divenuta impossibile: ora democrazia e vita politica sono – almeno nella nostra tradizione – divenuti sinonimi.
Di fronte a un tale Stato, bisogna ripensare alle strategie tradizionali del conflitto politico. Nel paradigma securitario, ogni conflitto e ogni tentativo più o meno violento di rovesciare il potere forniscono allo Stato l’occasione di governarne gli effetti a beneficio di interessi che gli sono propri. È ciò che mostra la dialettica che associa strettamente terrorismo e risposta dello stato in una spirale viziosa.
La tradizione politica della modernità ha pensato i cambiamenti politici radicali sotto la forma di una rivoluzione che agisce come il potere costitutivo di un nuovo ordine costituito. Bisogna abbandonare questo modello per pensare piuttosto a una potenza puramente destituente, che non potrebbe essere rilevata dal dispositivo di sicurezza e precipitata nella spirale viziosa della violenza. Se si vuole arrestare la deriva antidemocratica dello Stato di sicurezza, il problema delle forme e dei mezzi di una tale potenza destituente costituisce proprio la questione politica essenziale che avremo bisogno di pensare nel corso degli anni a venire.
Pubblichiamo l’editoriale di Roberto Finelli al n. 5 della rivista di filosofia on line Consecutio Temporum , dal titolo Karl Marx e il suo deficit originario.
1. Ciò che di Marx oggi non è più possibile accettare non è certamente la critica dell’economia – che invece trova sempre più conferme – quanto l’antropologia e la filosofia della storia che ne consegue. In buona parte dell’opera di Marx c’è infatti un deficit profondissimo di analisi e comprensione della soggettività, che ha avuto conseguenze assai negative nelle storie dei movimenti operai e delle emancipazioni sociali che si sono richiamate al marxismo.
Quando si commemorano delle nascite, delle morti od altri anniversari che risalgono a più di un secolo prima, l’oggetto del ricordo è, le più volte, già diventato un pezzo da museo collocato fra i reperti di un passato morto e che non solleva più la minima emozione. Pagine culturali dei quotidiani, dignitari della cultura ed amministratori della storia possono celebrare il loro “avvenimento” appoggiandosi piacevolmente sulle teche dentro le quali dormono i documenti cui riferirsi, documenti che una volta galvanizzavano le folle.