LA FURIA DEI CERVELLI
Posted: Dicembre 6th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: postcapitalismo cognitivo | 7 Comments »di Sergio Bologna
VITA DA FREE LANCE
Dall’università al Teatro Valle, un nomadismo metropolitano disincantato per difendere una forma di vita indipendente.
«La furia dei cervelli», un saggio che passa in rassegna le forme del
lavoro della conoscenza.
Meglio un cervello furioso di uno fuggitivo? Questo libro di Giuseppe
Allegri e Roberto Ciccarelli, per quanto il gioco di parole del titolo –
La furia dei cervelli, manifestolibri, pp. 167, euro 18 – possa farlo
pensare, non si occupa di giovani talenti che emigrano, ma del tema
dell’indipendenza. Di grande attualità perché mai ci fu un periodo della
storia del capitalismo dove il concetto di indipendenza ha subito tante
offese. L’idea moderna di stato sovrano è nata con le grandi monarchie
del Quattrocento, è stata il fondamento dell’idea di stato finché il
concetto roussoviano di patto sociale non l’ha soppiantata. Da allora
solo il pensiero marxista dell’estinzione dello stato ne ha
rappresentato il contraltare. Ma solo il capitalismo contemporaneo,
attraverso i suoi meccanismi finanziari, è riuscito a realizzarla
mandando in frantumi non l’idea ma la consistenza della sovranità. Si
chiude oggi un ciclo di seicento anni di storia. E che resta dell’idea
di indipendenza? Forse resta, viene alla luce, la sua versione migliore,
quella dell’indipendenza e della sovranità delle comunità autogovernate.
Ma c’è un livello successivo (o antecedente) ed è quello del lavoro. Il
lavoro indipendente è una brutta bestia, è qualcosa che la storia del
capitalismo e del socialismo ha guardato con sospetto, perché non è un
lavoro salariato. È un lavoro «atipico», «non standard», dunque non va
inserito nei sistemi di previdenza e sicurezza sociale. Ma al tempo
stesso viene assunto a modello sul quale far convergere poco a poco il
lavoro salariato del nuovo Millennio.
Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri hanno affrontato il tema dei
lavoratori della conoscenza come dovrebbe sempre essere affrontato: a
partire da un movimento reale, sia pure localizzato, sia pure di breve
durata, ma reale, da un conflitto aperto, non solo immaginato. Non è
possibile parlare di lavoro, qualunque esso sia, artigianale, creativo,
industriale, forzato, femminile, senza parlare di conflitto. Le analisi
puramente «tecniche», per quanto brillanti o approfondite, per quanto
interessanti o stimolanti, sembrano lasciare sempre il discorso a metà.
Dopo averle lette ci si chiede sempre: e allora? Se la condizione è
quella descritta che succede, dove avviene il cambiamento? Qual è il
momento in cui il soggetto prende consapevolezza di quella condizione?
Per gli autori il punto di partenza è il movimento della «pantera»,
1990. Quanto fossero coscienti gli studenti di allora di «fare storia»
semplicemente perché la loro era la prima protesta argomentata della
nuova Italia, della Seconda Repubblica, non è dato di sapere. Di certo
ne sono consapevoli i due autori e questo rende particolarmente
apprezzabile il loro sforzo. Non sarà mai abbastanza l’impegno
pedagogico per sottolineare che il 1989/90 rappresenta la chiusura del
ciclo storico che si era aperto nel 1943/45 con la fine del fascismo.
Nasce una nuova compagine statale che porta in sé le stimmate del dramma
che stiamo vivendo oggi. Ciccarelli e Allegri scrivono: «nel 1990 il
movimento degli studenti comprese le finalità della trasformazione
neo-liberista dell’economia della conoscenza». Detto in soldoni:
capirono che sarebbero stati loro la categoria più beffata. Il loro
antenato non è la figura di intellettuale proletarizzato
dell’iconografia rivoluzionaria, ma il flaneur parigino che sogna e
soggettivamente pratica una quotidianità fuori dagli schemi del lavoro
salariato. L’incursione nella storia delle avanguardie artistiche
dell’Ottocento e del primo Novecento è suggestiva. Ma gli autori vanno
ancora a ritroso, al Seicento, per trovare le tracce di quello che
chiamano il Quinto Stato, gli indipendenti, mercanti o artisti o
artigiani o professionisti, quelli che Foucault definiva come coloro che
possiedono «l’arte di essere governati di meno». Considerati il diavolo
oppure disprezzati, secondo le epoche. Il tentativo di trovare una
genesi storica di quello che viene descritto come fenomeno
post-fordista, post-moderno, rappresenta uno degli aspetti più
interessanti del libro.
La parte finale è interamente dedicata a quelli che comunemente
chiamiamo «i movimenti» (i precari, gli universitari, il teatro Valle
ecc.). La lettura che ne viene data è complessa, perché si cerca di
rintracciare all’interno di quei movimenti il processo costituente del
nuovo ceto o, meglio, della nuova modalità di esistenza propria del
post-moderno. Rimane l’incognita del rapporto con il fare politica, con
quell’agire sociale che è in grado di contrastare i meccanismi del
potere. La sproporzione tra i mezzi a disposizione degli uni e degli
altri sembra oggi tale da togliere ogni plausibilità a un discorso sul
conflitto, cioè su un comportamento che costringa l’avversario a tenerne
conto, a sentirsi impegnato a difendersi. La sproporzione sembra tale
che l’idea stessa del conflitto appare obsoleta. In realtà questi sono
termini propri della società del salario, il cosiddetto «rapporto di
forze» è un tipico paradigma dell’epoca fordista, è stato anche il più
potente giustificativo dell’opportunismo. Qui ci troviamo in un altro
sistema di valori, in un sistema dove quello che viene classificato come
conflitto, in realtà è quel semplice istinto di sopravvivenza che noi
chiamiamo istinto di libertà.