Dieci tesi contro il capitalismo predatorio

Posted: Marzo 21st, 2013 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, crisi sistemica, epistemes & società, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Dieci tesi contro il capitalismo predatorio

di Jean-Claude Lévêque

art1

I

Il capitalismo contemporaneo è la forma estrema dello stesso, ovvero il capitalismo nella sua fase discendente, ancora inedita nei suoi effetti complessivi. La «servitù del debito» è uno dei suoi modi di oppressione e controllo delle masse, ma non il solo.

Si può a ragione parlare di «capitalismo predatorio» o di «Capitalismo assoluto» (Preve), anche se entrambe le definizioni paiono ancora insufficienti per coglierne le caratteristiche dominanti. Il dibattito attuale (considero come posizioni interessanti e opposte quelle di Dardot/Laval, di Bidet, di Lazzarato, Negri, Zizek, Badiou, di Aglietta e di Lévy) stenta a trovare una strategia di uscita dal dominio del capitale finanziario, per ragioni teoriche e ideologiche. Si fanno delle analisi convincenti- anche se non sempre-, ma quello che risulta pressoché impossibile (forse soprattutto perché, in generale, non si tiene conto di Lenin) è trovare un modo per opporsi efficacemente alla retorica intransigente della classe dominante.

La strategia dei capitalisti sembra invece molto più efficace nello spuntare le armi dei movimenti che vi si oppongono. La constante criminalizzazione di qualsiasi forma di opposizione e l’affermazione constante e martellante dell’assenza di alternative lasciano poco spazio ai movimenti.2

Un’altra caratteristica del capitalismo predatorio è la sua connivenza con le mafie mondiali, che ormai spesso appare assolutamente evidente, sebbene negata dai media di regime.

I metodi dei «pirati legalizzati» e dei «pirati fuorilegge» spesso coincidono, sia nei modi che nei risultati ottenuti. Il velo fuorviante della retorica dei “diritti umani” serve solo a occultare il fatto che di essi è stato fatto strame.

[–>]


Toni Negri: l’abdicazione del papa tedesco

Posted: Febbraio 16th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Toni Negri: l’abdicazione del papa tedesco

di TONI NEGRI

Più di vent’anni fa uscì l’enciclica Centesimus Annus, del Papa polacco, in occasione del centenario della Rerum Novarum – era il manifesto riformista, fortemente innovatore, di una Chiesa che si voleva ormai sola rappresentante dei poveri dopo la caduta dell’impero sovietico. A quel documento, i miei compagni parigini di Futur Antérieur ed io dedicammo un commento che era insieme un riconoscimento ed una sfida: lo intitolammo “La V Internazionale di Giovanni Paolo II” (riprendiamo il documento qui sotto).

[–>]


Furio Jesi e il tempo della festa

Posted: Febbraio 16th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, comune, post-filosofia, vita quotidiana | 10 Comments »

di Marco Dotti

Furio Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo, Roma 2013

il-rituale-del-serpente

«Non è niente, sono qui, sono ancora qui». Arthur Rimbaud concludeva con queste parole la rivendicazione di un’infanzia sfrontata, in quell’«inferno che sovverte l’ordine» che per molti tratti fu la Comune di Parigi. Un ritorno a cui Rimbaud aggiunse, alla maniera di un post-scriptum, un’altra attestazione, stavolta relativa all’azzeramento di ogni senso di colpa. Fosse pure, questo senso di colpa, postumo, preventivo o soltanto preteso: «Industriali, principi, senati: a morte! Ci è dovuto», scriveva il diciottenne Rimbaud.

Era il 1872 e l’eco della Comune si poteva ancora sentire, ma i suoi giorni erano oramai proscritti dalla ripresa di un tempo storico che cannoni e baionette del generale e futuro presidente Mac-Mahon avevano saputo riattivare nel corso ordinario delle cose. Il tempo “borghese”, ritrovava così la sua scansione ritmica nel doppio coup al tavolo gioco e davanti alla macchina che garantiva serialità del lavoro.

Quanto di questo tempo era rimasto e ancora rimaneva attaccato a chi, fosse pure per poco, si era sentito animato e sconvolto dalla zona franca e comune della rivolta? Quale stratificazioni di lieux communs, di vecchi abiti scambiati per nuovi e di nuovi presi per vecchi nel corso riattivato delle cose? Quel corso delle cose che, è vicenda nota, venne interrotto solo per poche settimane dal 18 marzo alla fine di maggio del 1871, quando con la Comune si instaurò – la definizione è di Furio Jesi – «un tempo di qualità inconsueta», quasi festiva, dove ogni avvenimento sembrava accadere lì e ora, ma per sempre. Qualche mito genuino sembrava allora mostrarsi, ma presto si sarebbe ingenuamente “corrotto” al contatto con l’ombra delle grandi mitologie borghesi che già avevano marchiato la storia.

]>


Carlo Sini

Posted: Febbraio 14th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, epistemes & società, philosophia, post-filosofia, vita quotidiana | 9 Comments »

di ANTONIO GNOLI

“ARRENDIAMOCI, NON POSSIAMO CONOSCERE LA REALTÀ”.

Parla il filosofo Carlo Sini mentre viene ripubblicata la sua opera che mette in discussione il pensiero occidentale.

Ho qualche dubbio che i filosofi – come si sente dire in giro – conoscano i
sentieri della felicità e ci accompagnino per mano lungo quegli ameni
percorsi. Ma un tale sospetto non deve indurre a gettarci tra le braccia dei
torturatori del concetto, dei paranoici del pensiero, attenti a che nulla
del reale sfugga alla loro occhiuta attenzione. La filosofia ha molto di
problematico, di sfuggente, soprattutto oggi in cui le certezze sono messe
in discussione alla radice. E a pensarlo, fra gli altri, con un percorso
molto originale, è Carlo Sini che sta per compiere 80 anni. Allievo di
Emanuele Barié ed Enzo Paci, per decenni professore di teoretica alla
cattedra di Milano, Sini sta pubblicando per Jaca Book la sua intera opera.

Dove ha sparso i suoi interessi: nel mondo antico, che è all’origine –
almeno in Occidente – del passaggio denso di conseguenze dall’oralità alla
scrittura; in quello moderno sovrastato da Spinoza ed Hegel e infine in
quello contemporaneo dal quale affiorano i nomi di Husserl, Peirce e
Wittgenstein.

«È un quadro veritiero, fatalmente approssimativo quello che lei riassume.
Ma in fondo l’ultima parola non è mai la nostra. Diceva Peirce: il
significato della mia vita è affidato agli altri».

Ma gli altri possono avere molti pregiudizi.

«Il che prova che la verità non è mai qualcosa di definitivo, siamo sempre
in errore. In cammino. Non a caso io parlo di “transito della verità”».
A nessuno piace l’errore. La filosofia greca e poi il cristianesimo ci hanno
insegnato a diffidare dell’errore e del peccato, suggerendo i modi per
evitarli.

«C’è in queste filosofie o visioni del mondo un’idea di perfezione che ha
provocato danni e fraintendimenti. E tutto ciò è nato dalla pretesa di
affidare alla scrittura il ruolo di cardine su cui l’Occidente ha fondato il
proprio sapere».

Prima i saperi si costituivano oralmente. Poi arriva la scrittura. Tutto
diventa più semplice. Perché diffidarne?

«Non è una diffidenza, ma la consapevolezza che l’introduzione della
scrittura modifica la nostra percezione del mondo. Il Logos, di cui parlano
i greci, non potrebbe sussistere senza la scrittura».

Perché?

«Per il semplice motivo che ogni scrittura ha un supporto che è fuori dal
corpo di chi parla. La scrittura – diversamente dall’oralità – ci pone di
fronte a un sapere oggettivo che va interpretato. Quando è la voce a
trasmettere il sapere, non c’è separazione o distanza tra ciò che diciamo e
il mondo che lo accoglie e di cui facciamo parte. Nella scrittura invece va
ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà con la scienza».

Questo è un passaggio ulteriore.

«È una continuità. Senza la scrittura alfabetica e matematica – che sono
scritture per tutti – non avremmo avuto l’universale e quindi la scienza.
L’universale – che i greci hanno chiamato Logos – ha determinato il corso
del sapere occidentale. È stata la nostra forza, la nostra potenza, ma anche
la nostra superstizione e il nostro equivoco».

Capisco la potenza, ma perché superstizione ed equivoco?

«Per la semplice ragione che sia la scienza che il senso comune pensano che
ci sia un mondo fuori di noi che possiamo conoscere».

Effettivamente è così: da un lato la realtà dall’altro noi che l’avviciniamo
e la conosciamo. Se vuole, molto rozzamente, siamo in una delle tante
versioni del realismo.

«Posizione ingenua. Perché o noi facciamo parte di quella realtà oppure è
illusorio pensare di conoscerla».

Eppure, se non riuscissi a distinguermi dalla realtà esterna, allo stesso
modo, non potrei conoscerla.

«Obiezione giusta. Nel senso che noi siamo parte della realtà pur
distinguendoci da essa. Siamo parte della verità ma non siamo la verità».

Un bel paradosso. Allora cosa siamo?

«Siamo nella differenza del sapere, o meglio siamo in ciò che chiamo
“l’essere in errore”. Verità ed errore sono in qualche modo due facce della
stessa medaglia ».

Anche la scienza partecipa della verità e dell’errore. Ne fa esperienza, nel
senso che corregge continuamente l’errore.

«Il lavoro della scienza è meraviglioso, va bene così, ne beneficiamo tutti.
Sarebbe insensato rifiutare la scoperta di una cura contro il cancro o
condannare
un treno perché copre distanze lunghe in tempi sempre più brevi. Altra cosa
è l’idea che gli scienziati per lo più si fanno del loro lavoro. Qui prevale
quello che Husserl chiamava il pregiudizio “naturalistico”. Ossia il
riferimento ingenuo e inconsistente a un misterioso mondo che è “là fuori” e
a un ancor più misterioso “qui dentro”».

Lei, insomma, mette in discussione il modo tradizionale di concepire il
dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto, la realtà e la coscienza. Dove
collocherebbe tutto ciò?

«Nella vita che si svolge e che si traduce negli innumerevoli archivi
dell’accaduto, i quali ricompongono di continuo il passato in nuovi archivi
e mappe per il futuro».

Vedo che usa la parola “archivio”. Immagino che non sia solo il deposito
delle conoscenze al quale attingiamo.

«È qualcosa di più strategico, è il modo di venire alla luce della verità
pubblica».

I filosofi hanno a volte il vizio di rispondere a una complicazione con una
complicazione ulteriore. Cos’è la verità pubblica?

«È quella, per esempio, che in questo momento io e lei pratichiamo in questa
conversazione».

Una conversazione che al lettore potrà apparire troppo tecnica.

«Un margine di oscurità è preferibile a insulse certezze. E poi distinguerei
tra competenza e sapere, anche se tra loro sono connessi. Una competenza
analitica la posso apprendere anche da un computer opportunamente
programmato; il sapere in senso complessivo non può invece fare a meno del
coinvolgimento delle emozioni corporee profonde. Si tratta di creare
un’intesa condivisa, cioè anche pubblica o comune».

Ciò che è pubblico è anche esposto al fraintendimento, al rumore mediatico,
al sentire massificato.

«Che cosa sia stato e sia nel profondo il “secolo della masse” –
l’espressione deriva da Sorel – è ancora una domanda attuale. Non abbiamo un
pensiero all’altezza del problema, io credo. Che cosa significa fare
politica, fare cultura, e quindi fare anche filosofia, in un tempo
globalizzato, massificato, mercificato e via dicendo, non l’ha chiaro
nessuno. La fiumana trascina le nostre antiche barche, ormai senza governo».

Appellarsi al passato o alla tradizione?

«Mi sembra evidente che la nostra grande tradizione storico-culturale si è
formata in società così differenti dall’attuale che la pretesa di travasare
in essa i nostri contenuti e i nostri stili di pensiero si rivela fatalmente
utopica».

Propone una variante della filosofia della crisi?

«No, ma occorre prendere atto della crisi se la si vuole affrontare. Direi
perciò che l’evidente crisi del modello capitalistico va in parallelo con la
crisi di ciò che un tempo si considerava alta cultura. Il liberalismo
politico e il liberalismo economico sono falliti nei loro propositi
esattamente come la scuola pubblica e l’universale alfabetizzazione. Non
possiamo rinunciarvi perché non conosciamo modelli più efficienti o più
realistici, ma non ne deriviamo affatto quel benessere per tutti e quella
diffusa formazione critica e liberatrice che erano attesi».

Suggerisce la rassegnazione?

«Suggerisco la consapevolezza. Ogni civiltà è destinata a tramontare: “Della
civiltà non rimarrà che un cumulo di macerie e di cenere, ma sopra le ceneri
aleggerà lo spirito”, lo ha detto Wittgenstein. Ci troviamo in mezzo a un
grande sommovimento che ci sovrasta e ci inquieta. Il nostro compito è
rimettere in gioco la verità. Disincagliarla dal dogmatismo. Non conosco
modo migliore per riprendersi il futuro».


Verso una primavera europea?

Posted: Novembre 28th, 2012 | Author: | Filed under: crisi sistemica, General, Révolution, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Verso una primavera europea?

di Ulrich Beck, da Repubblica, 25 novembre 2012

“Siamo piazza per protestare contro la legge che taglia i finanziamenti alla scuola pubblica: come facciamo ad andare avanti se nella nostra scuola non ci sono abbastanza banchi?”.
Così uno studente di Torino giustificava la sua partecipazione allo sciopero europeo della scorsa settimana. Giusto un anno e mezzo fa siamo stati spettatori di una primavera araba con la quale assolutamente nessuno aveva fatto i conti. Di colpo, regimi autoritari crollarono sotto la spinta dei movimenti democratici di protesta organizzati dalla “Generation Global”. Dopo la primavera araba potrebbe arrivare un autunno, un inverno o una primavera europea? Gli scioperi delle ultime settimane ne sono stati i segnali? Naturalmente, negli ultimi due o tre anni abbiamo visto ragazzi di Madrid, Tottenham o Atene protestare contro gli effetti delle politiche neo-liberali di risparmio e attirare l’attenzione sul loro destino di generazione perduta. Tuttavia, queste manifestazioni erano in qualche modo ancora legate al dogma dello Stato nazionale. La gente si ribellava nei singoli paesi alla politica tedesco-europea del rigore, adottata dai diversi governi.

[–>]


Per farla finita con Shylock. Dalla scuola del privatus alla scuola del comune

Posted: Novembre 27th, 2012 | Author: | Filed under: epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Per farla finita con Shylock. Dalla scuola del privatus alla scuola del comune

di GIROLAMO DE MICHELE

Shylock – My meaning in saying he is a good man is to have you understand me that he is sufficient.

William Shakespeare, Merchant of Venice, act I, sc. 3

In un’epoca di parallela crisi dello Stato sociale e dei dispositivi di governance, la coppia pubblico-privato ha quasi insensibilmente assunto un significato dipendente dal valore evocativo e simbolico dei due termini dell’endiade, più che dal reale rapporto tra le cose che le due parole designano. L’enfasi posta sul “privato”, amplificata dal campo semantico che comprende pratiche designate da termini quali “privatizzazione” e “privacy“, ha l’effetto di rimandare ipso facto a un’immagine mentale correlata al termine “pubblico”, che evoca l’elefantiasi dell’apparato statale, la burocratizzazione dei processi decisionali, l’inefficienza delle procedure, i costi elevati, l’oppressione fiscale: non a caso si è parlato, in anni recenti, di passaggio dal Welfare al Wolfare State. L’egemonia culturale esercitata per un trentennio dalle destre, a partire dalla new right thatcheriana e reaganiana, ha prodotto la fede nella ovvietà e naturalezza di un frame che, anche se declinato in termini di opposizione o di difesa dei beni e servizi da parte dei sostenitori del “pubblico”, evoca comunque in prima battuta la famiglia di metafore correlate al campo del “privato”; questo campo viene poi ribattuto dalla metafora del detentore della decisione nei due campi semantici. Seguendo l’intuizione di George Lakoff, per cui il messaggio politico si esemplifica nella metafora di un modello della figura paterna che in definitiva rimane impigliato nella coscienza neuronale,[1] è plausibile che la forza dei sostenitori del modello privato, nell’uso del frame pubblico/privato, sia nell’immagine del padre severo ma efficiente, che si rimbocca le maniche e prende le decisioni essenziali, contrapposto a quello del padre impiccione e moralista, che si immischia di ogni cosa e finisce con lo scontentare tutti i membri della famiglia.

[–>]


discorso DELLA verità

Posted: Novembre 25th, 2012 | Author: | Filed under: comune, postcapitalismo cognitivo, Révolution, vita quotidiana | 4 Comments »


Shameless Disaster Capitalism

Posted: Novembre 12th, 2012 | Author: | Filed under: anthropos, crisi sistemica, vita quotidiana | 6 Comments »

By Naomi Klein, The Nation

12 November 12

Yes that’s right: this catastrophe very likely created by climate change-a crisis born of the colossal regulatory failure to prevent corporations from treating the atmosphere as their open sewer-is just one more opportunity for more deregulation.

he following article first appeared in the Nation. For more great content from the Nation, sign up for their email newsletters here.

Less than three days after Sandy made landfall on the East Coast of the United States, Iain Murray of the Competitive Enterprise Institute blamed New Yorkers’ resistance to big-box stores for the misery they were about to endure. Writing on Forbes.com, he explained that the city’s refusal to embrace Walmart will likely make the recovery much harder: “Mom-and-pop stores simply can’t do what big stores can in these circumstances,” he wrote.

[–>]


Foucault

Posted: Settembre 29th, 2012 | Author: | Filed under: anthropos, post-filosofia, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Foucault

INTRODUZIONE ALLA VITA NON FASCISTA

Illustrazioni di Clifford Harper Cvvvbvvvnvvvdz

Préface di Michel Foucault alla traduzione americana del libro: Gilles Deleuze et Félix Guattari,
L’Anti-Oedipe : capitalisme et schizophrénie, Viking Press, New York, 1977; cfr.: Michel Foucault,
Dits et Ecrits II, 1976-1988, Paris, Gallimard, 2001 (1a ediz.: 1994), p. 133-136. Il titolo è nostro.
Traduzione in italiano: Carmine Mangone
Translated in English by Robert Hurley, Mark Seem, and Helen R. Lane

Introduzione alla vita non fascista


classi medie

Posted: Settembre 2nd, 2012 | Author: | Filed under: crisi sistemica, epistemes & società, vita quotidiana | 7 Comments »

QUAL È IL POTERE DELLE CLASSI MEDIE?
Tra sottomissione e ribellione

di DOMINIQUE PINSOLLE *

Corteggiate dal potere a Parigi come a Pechino, a Mosca o a Washington, le classi medie dominano al centro di tutte le strategie politiche. In periodi di crisi, oscillano tra solidarietà con le classi popolari e alleanza con l’alta borghesia. Questo gruppo particolare, dalle frontiere incerte, ha visto la sua immagine cambiare radicalmente nell’immaginario sociale, il piccolo proprietario dai ristretti orizzonti ha ceduto il passo al giovane laureato appassionato di Internet. Dall’Unità popolare cilena dell’inizio degli anni ’70 alle mobilitazioni contro Vladimir Putin, dalle lotte anticoloniali alle rivolte arabe, a quali alleanze hanno fatto ricorso le classi medie per proporre progetti progressisti? E cosa comportano le trasformazioni di queste frange intermedie quando favoriscono una rapida ascesa, come in Cina o, al contrario, un declassamento brutale, come in Spagna?

[–>]