Riflessioni sul Manifesto per una Politica Accelerazionista

Posted: Febbraio 11th, 2014 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, comune, digital conflict, epistemes & società, Global, postcapitalismo cognitivo, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Riflessioni sul Manifesto per una Politica Accelerazionista

di TONI NEGRI

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Il Manifesto per una Politica Accelerazionista (MPA) comincia con un’ampia constatazione della drammaticità della crisi attuale – cataclisma … ma anche negazione del futuro, imminente apocalisse. Non spaventatevi, qui non c’è davvero nulla di teologico-politico. Chiunque ne sia attratto non si metta a questa lettura. E non c’è neppure un altro dei scibolet attuali – meglio, è solo accennato: il collasso del sistema climatico del pianeta: importante, sì, ma del tutto subordinato alle politiche industriali e affrontabile solo sulla base della critica di queste.

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Giocare il gioco dell’Italian Theory?

Posted: Febbraio 8th, 2014 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, BCE, comunismo, critica dell'economia politica, epistemes & società, Marx oltre Marx, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Giocare il gioco dell’Italian Theory?

di MARCO ASSENNATO

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Giocare il gioco dell’Italian Theory? Note sullo stato della filosofia italiana – 4

A fine gennaio si è tenuto a Parigi un convegno sull’Italian Theory, organizzato dall’Université Paris-Ouest Nanterre e dalla Sorbona1. L’asse del convegno, coordinato da Silvia Contarini, Davide Luglio e Federico Luisetti, era dubitativo: L’Italian Theory existe-t-elle? La domanda potrebbe essere ripensata così: esiste un capitolo specifico della storia del pensiero europeo, geograficamente e cronologicamente circoscritto e relativamente omogeneo dal punto di vista tematico, capace tuttavia di offrire una proposta teorica sulla quale incardinare un dibattito utile a sciogliere alcune questioni urgenti per la filosofia contemporanea? attorno a tale questione si è prodotto un fitto confronto tra Roberto Esposito, Toni Negri, Sandro Mezzadra e gli altri partecipanti all’incontro. Com’è facile intuire, la questione è sbilanciata su molteplici incognite, senza sciogliere le quali, tuttavia, nessuna “unità storiografica” può reggere alla verifica teorica.

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neomutualismo

Posted: Febbraio 7th, 2014 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, comune, comunismo, crisi sistemica, epistemes & società, vita quotidiana | Commenti disabilitati su neomutualismo

di VALERIO GUIZZARDI

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Nota introduttiva – “Neomutualismo”

Neomutualismo apparve, nella primavera del 1999, sulle pagine della rivista di movimento «Banlieues», testata senza fissa periodicità che si collocava nella galassia dell’autonomia diffusa italiana, sforzandosi di operare una ricognizione critica della prospettiva postoperaista. L’orizzonte era quello dei conflitti che attraversavano l’università e si riversavano nei territori della fabbrica diffusa e del terziario avanzato. Redatto in forma anonima ma in realtà realizzato da Valerio Guizzardi, uno dei redattori della rivista, lo scritto qui riproposto compone una storia disinvolta del movimento cooperativo italiano e delle pratiche di mutualismo a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo ventennio del Ventesimo secolo.

La scelta di ospitare una lunga riflessione su forme organizzative considerate “riformiste” può apparire discutibile e perfino equivoca. Tanto più se riferita a certi cliché storiografici o al senso comune della sinistra rivoluzionaria e dei movimenti antagonisti. E perfino se rapportata alla linea del contenitore editoriale che la ospitava. O se paragonata agli esiti infami della cooperazione in Italia (mostrati con chiarezza dalle straordinarie lotte dei lavoratori della logistica).

Tuttavia, in quell’ultimo scorcio di Novecento, che Novecento non era già più, si ragionava su varie ipotesi di ricomposizione di quell’intellettualità di massa – «talvolta integrata in reti produttive avanzate, talatra precaria e “dai piedi scalzi”» – considerata da molti il «bandolo di tutte le matasse». Erano i tempi in cui andavano dispiegandosi pienamente gli effetti di un nuovo modello produttivo: il postfordismo o paradigma dell’accumulazione flessibile. Da più parti si riscontrava come l’agire comunicativo, i saperi e la conoscenza permeassero la produzione. Frammentato, inchiodato alla coincidenza di tempo di vita e tempo di lavoro, disperso e atomizzato, il lavoro intellettuale di massa veniva considerato il nuovo soggetto posto nel punto più avanzato dello sviluppo del capitale. Almeno così si diceva.

In quegli anni fu anche coniata la formula “impresa politica autonoma”, alludendo a un insieme di pratiche che andavano da un’interazione conflittuale col mercato a una fuoriuscita ingegnosa e intraprendente dai vincoli del lavoro subordinato, a forme di produzione autonoma di reddito. Era un’illusione, e nel volgere di pochi anni un cognitariato sempre più precario, o – meglio – un nuovo proletariato, si ritrovò ricacciato nella più classica delle contraddizioni: quella tra capitale e lavoro.

Alla fine dei Nineties, decennio dominato dall’euforia e da retoriche mobilitanti che scommettevano sugli infiniti margini d’innovazione da parte del capitale e sui conseguenti spazi di autonomia da costruire e organizzare, Neomutualismo tracciava uno spettro di riferimenti, diverso e parallelo, alludendo alle remote forme di mutualismo e cooperazione praticate da operai e braccianti. Ne richiamava lo specifico di classe, sottolineandone – al contempo – il carattere di resistenza e lo spirito antagonista: quanto più crescevano e si diffondevano le forme della cooperazione, tanto più dilagavano le lotte. Lo scritto, inoltre, tentava di delineare una temporalità complessa che legava bisogni impellenti e concretissime esigenze dell’oggi a un quadro di trasformazione della società. Last but not least: volgeva una certa pedanteria dell’indagine storiografica in virtù linguistica, rinunciando – ad esempio – all’impiego del sostantivo à la page “impresa”, pur aggettivato in modo alternativo, e risignificando allusivamente un lessico composto da parole come “leghe di resistenza”, “società di mutuo soccorso”, “cooperative di produzione, lavoro, consumo e abitazione”. C’era qualcosa di vagamente lungimirante in questo guardare indietro, e altrove. Non a caso, oltre lo spartiacque simbolico dell’anno 2000, di quelle imprese politiche autonome rimarranno solo macerie.

Di certo, il saggio risente del periodo in cui fu scritto. Il quadro in cui si sviluppano ricostruzione storica e ragionamento politico è quello della riappropriazione dei nessi amministrativi dal basso, opzione in voga negli anni Novanta che puntava sulla determinazione di un welfare municipale. E si percepisce con forza il richiamo all’esodo intraprendente, altra suggestione che – forse – non ha retto alla prova degli anni Zero, né saputo sciogliere l’intricato nodo del politico, e del potere.

Ad ogni modo, al pari del recente romanzo di Valerio Evangelisti Il sole dell’avvenire (leggi l’intervista), Neomutualismo offre importanti spunti di riflessione per ragionare sulle condizioni, sulle pratiche ricompositive, sulla resistenza quotidiana e sulle forme di lotta d’un proletariato senza diritti né fissa occupazione, che passa da un lavoro all’altro in una condizione di perenne intermittenza.

Sembrano gli echi di un passato lontanissimo. Oppure, ad ascoltare con attenzione, può assomigliare alla colonna sonora del presente.

PS: Lo scritto contiene un apparato di note piuttosto importante che contengono non solo gli opportuni riferimenti alle fonti bibliografiche ma anche, e soprattutto, approfondimenti alle argomentazioni proposte. Ciò consente al lettore, volendo, due modi di lettura: o più velocemente del testo per una prima valutazione narrativa per poi passare alle note con calma, oppure tutto insieme per una lettura più complessa e ragionata.

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Il lavoro dell’astrazione. Sette tesi provvisorie su marxismo e accelerazionismo

Posted: Febbraio 2nd, 2014 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, comune, comunismo, crisi sistemica, critica dell'economia politica, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Il lavoro dell’astrazione. Sette tesi provvisorie su marxismo e accelerazionismo

di Matteo Pasquinelli

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1. Il capitalismo è un oggetto di elevata astrazione, il comune è una forza di ancor più grande astrazione.

La nozione di lavoro astratto di Marx identificò per la prima volta il motore centrale del capitalismo, ovvero la trasformazione del lavoro in equivalente generale. In seguito, Sonh-Rethel (1970) individuò la stretta relazione che passa storicamente tra astrazione del linguaggio, astrazione della merce e astrazione del denaro. Nella cosiddetta ‘introduzione’ ai Grundrisse (scritta nel 1857) Marx chiarisce l’astrazione come metodologia di analisi che emergerà solo dieci anni più tardi nella pagine del Capitale (1867). Come ricordano in molti (Ilyenkov 1960), in Marx il concreto è un risultato, è un prodotto del processo di astrazione: la realtà capitalistica, così come quella rivoluzionaria, è una invenzione. “Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione” (Marx 1857: 101). L’astrazione è sia la tendenza del capitale, sia il metodo del Marxismo. L’operaismo viene quindi a strappare l’astrazione dal doppiopetto del capitale per ricucirla addosso alla tuta del proletario: astrazione è sia il movimento del capitale, sia il movimento della resistenza ad esso.

Negri (1979: 66) muove l’astrazione al centro del metodo della tendenza antagonista come processo di conoscenza collettiva: “il processo dell’astrazione determinata è tutto dentro l’illuminazione collettiva, proletaria, è quindi un elemento di critica e una forma di lotta”. In qualche modo, l’idea del comune nasce come progetto epistemico.

Marx, Karl (1857). Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie. Moscow: Verlag für fremdsprachige Literatur, 1939. Traduzione: Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Torino: Einaudi, 1976.

Ilyenkov, E. Vassilievich (1960). La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx. Milano : Feltrinelli, 1961.

Sohn-Rethel, Alfred (1970). Geistige und körperliche Arbeit. Frankfurt (Main): Suhrkamp. Traduzione: Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Milano, Feltrinelli, 1977.

Negri, Antonio (1979). Marx oltre Marx: Quaderno di lavoro sui Grundrisse. Milano: Feltrinelli.

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Antonio Caronia

Posted: Febbraio 1st, 2014 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, digital conflict, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, posthumanism, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Antonio Caronia

di Giuseppe Allegri

Non trovo le parole per salutare Antonio Caronia e questo sarà un pessimo post, ma non so fare altrimenti.

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Inutile ricordare quanto gli dobbiamo. Personalmente quasi tutta la distopia infinita: Gibson, Dick, Ballard. E poi le visioni sui postumani. In mezzo “i supereroi con superproblemi”, Frank Miller del Batman, The Dark Night e Alan Moore di Watchmen. Nel passaggio dei primissimi anni ’90, io pivellino universitario provinciale a Roma, a leggerlo in fanzine fichissime, rivistone teoriche e a smanettare per improbabili BBS, da analfabeta cibernetico quale ero e sono.

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Qui per ascoltare le sue lezioni a Brera.


Biorank: Algoritmi e trasformazioni del bios nel capitalismo cognitivo

Posted: Gennaio 23rd, 2014 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, posthumanism, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Biorank: Algoritmi e trasformazioni del bios nel capitalismo cognitivo

di Giorgio Griziotti

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Il processo di messa a valore della vita procede in modo sempre più veloce. Oltre alla cattura e all’espropriazione quotidiana del general intellect, elementi sempre più sofisticati della cooperazione sociale costituiscono ambiti di sfruttamento e di accumulazione biocapitalistica. In particolar modo, i social network con i nuovi algoritmi recentemente inseriti, sono in grado di personalizzare le nostre relazioni sociali, creando enormi riserve di “big data” funzionali alla creazione di banche dati per la diffusione di nuove forme di bio-marketing e di potenti strumenti di sussunzione della vita. Ma tali algoritmi possono essere utilizzati anche per fini alternativi. Nel workshop “Algorithm and Capital”, che si è tenuto al Goldsmith College di Londra, lo scorso 21 gennaio, si è discusso anche di moneta digitale, delle sue potenzialità e limiti. Qui presentiamo l’intervento di Giorgio Griziotti.

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Non si tratta più di decidere se bisogna arrivare o meno, alle pratiche dell’ingegneria biologica, ma di cosa fare con queste tecniche. La lotta è ormai portata sulle alternative paradigmatiche del bios e la moltitudine è chiamata a scontrarsi sull’idea e la realtà, modello, linguaggio di corpo che vuol destinare al General Intellect.

Toni Negri “Desiderio del mostro: dal circo al laboratorio alla politica” 2001[1]

L’uso delle tecnologie è l’asse portante della metamorfosi indotta dalla fusione di vita e lavoro caratteristica del capitalismo cognitivo. Una metamorfosi che investe la coppia innato/acquisito, dove quest’ultimo nel darwinista nature vs nurture[2] è il “nutrimento” dell’ambiente, dalla terra madre alla parola.

Per più di un secolo il dibattito speculativo sul binomio alimenta filosofia, psicologia, ricerca medica e scienze umane e fonda l’organizzazione disciplinare della società compresa quella del regime nazista che ne fa il perno della sua ontologia distruttrice.

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Le parole insidiose

Posted: Gennaio 22nd, 2014 | Author: | Filed under: anthropos, epistemes & società, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Le parole insidiose

di Jason Stanley*

Parole

Anticipazioni. Un estratto della conferenza che il filosofo del linguaggio terrà al Festival delle scienze, all’Auditorium di Roma, venerdì 24, alle ore 16.30

Pla­tone aveva una scarsa con­si­de­ra­zione della demo­cra­zia. Rite­neva che la poli­tica fosse un’arte ed era con­vinto che per com­pren­dere l’essenza di quell’arte biso­gnasse avere delle com­pe­tenze. Il filo­sofo ha sem­pre soste­nuto che non c’è alcuna spe­ranza che la mol­ti­tu­dine possa con­se­guire le abi­lità richie­ste per gover­nare, poi­ché viene facil­mente ingan­nata dai sofi­sti. Da ciò ne è con­se­guito, per il pen­sa­tore greco, un rifiuto netto per la demo­cra­zia come sistema di potere pra­ti­ca­bile. È «pro­ba­bile che le ori­gini della tiran­nia si tro­vino pro­prio in un regime demo­cra­tico e in nes­sun altro luogo» (Pla­tone, La Repub­blica). Un giu­sto sistema di governo deve inse­diare al potere i filo­sofi, sono loro gli unici in grado di com­pren­dere l’essenza delle cose.

Pla­tone aveva ragione a con­si­de­rare le sue opi­nioni incom­pa­ti­bili con la demo­cra­zia. L’idea che i cit­ta­dini non siano capaci di dare giu­dizi sull’amministrazione pub­blica, che l’economia e la poli­tica siano aree di com­pe­tenza, come il campo medico, è qual­cosa di pro­fon­da­mente anti­de­mo­cra­tico. Cosa è neces­sa­rio dun­que per una demo­cra­zia al fine di evi­tare la minac­cia che si «tra­sformi in tiran­nia»? Secondo quanto affer­mato da molti stu­diosi, la demo­cra­zia esige una cit­ta­di­nanza infor­mata, qual­cuno che possa impe­gnarsi in dibat­titi pub­blici moti­vati su que­stioni poli­ti­che. È uno stan­dard elevato.

Un’idea più «mode­sta» dei requi­siti neces­sari alla demo­cra­zia è tut­ta­via difen­di­bile: i cit­ta­dini devono avere una ragio­ne­vole capa­cità nel rico­no­scere quando un’azione poli­tica viene fatta nel loro inte­resse. La visione di Pla­tone è anti­de­mo­cra­tica per­ché parte dal pre­sup­po­sto che anche que­sto livello sia troppo alto. La mol­ti­tu­dine sarà sem­pre ingan­nata dalla pro­pa­ganda e dalla falsa reto­rica, indotta a votare con­tro i pro­pri interessi.

Una pro­fonda com­pren­sione di come il lin­guag­gio venga uti­liz­zato per insi­diare la demo­cra­zia stessa è, quindi, essen­ziale in ogni stato democratico.

Non è neces­sa­ria nes­suna spe­cia­liz­za­zione in filo­so­fia del lin­guag­gio o in lin­gui­stica per riu­scire a indi­vi­duare alcuni usi della pro­pa­ganda. Per esem­pio, è pra­tica comune negli Stati Uniti dare un nome fuor­viante ai dise­gni di legge. Quello del 2001, che ha per­messo alle forze gover­na­tive di vio­lare la Costi­tu­zione degli Stati Uniti, con lo spio­nag­gio dei suoi cit­ta­dini, senza un man­dato, è stato chia­mato «Patriot Act», un nome che ha inde­bo­lito la pos­si­bi­lità di fare opposizione.

Più di recente, nel novem­bre 2013, la Camera dei Rap­pre­sen­tanti ame­ri­cana ha appro­vato la legge «Swap Regu­la­tory Impro­ve­ment Act». Il nome del dise­gno di legge sug­ge­riva che quel dispo­si­tivo avrebbe dovuto miglio­rare la rego­la­men­ta­zione del mer­cato nel campo dei deri­vati, lo stesso che pro­vocò il crollo del sistema finan­zia­rio mon­diale nel 2008 e obbligò al sal­va­tag­gio di grandi isti­tu­zioni finan­zia­rie in Usa. Eppure, scritto quasi inte­ra­mente dalla mega­banca Citi­group, il dise­gno di legge per­mette pro­prio alle ban­che di uti­liz­zare i depo­siti assi­cu­rati dal governo fede­rale per spe­cu­lare sul mer­cato dei deri­vati. Tutela in tal modo le stesse ban­che: saranno infatti nuo­va­mente «sal­vate» se i mer­cati dei deri­vati, ancora una volta, subi­ranno un col­lasso. È que­sto in realtà l’unico «miglio­ra­mento nor­ma­tivo» che il dise­gno di legge propone.

La stra­te­gia è par­ti­co­lar­mente dif­fusa nella poli­tica eco­no­mica, in cui le parole uti­liz­zate per rac­con­tare ciò che sta acca­dendo con gli Stati ven­gono pre­le­vate dai con­te­sti che descri­vono le finanze di una fami­glia nor­male. La parola «debito» è diversa se appli­cata all’Unione euro­pea, che può stam­pare la pro­pria moneta, piut­to­sto che ad una fami­glia, che non può farlo. Ma un capo­fa­mi­glia, che si iden­ti­fica in colui che cerca di evi­tare di debito, può essere ingan­nato e appog­giare poli­ti­che che, di fatto, vanno con­tro gli inte­ressi della sua fami­glia; l’imbroglio sta nell’incapacità di com­pren­dere che «debito» signi­fica qual­cosa di molto dif­fe­rente se riguarda un governo o una unione politica.

Ci sono poi forme più sot­tili di pro­pa­ganda, per le quali un’analisi det­ta­gliata del lin­guag­gio e dell’uso lin­gui­stico risulta assai utile. I lin­gui­sti distin­guono tra ciò che è pre­sup­po­sto da un enun­ciato e il punto focale del mede­simo. Chi è in disac­cordo, deve accet­tare prima i pre­sup­po­sti di quell’enunciato. Se affermo: «È Gio­vanni che ha risolto il pro­blema», e qual­cuno non è d’accordo, deve sug­ge­rire che un altro abbia agito. È dif­fi­cile dire «no» e voler con ciò asse­rire che il pro­blema non sia stato affatto risolto. L’espressione «È Gio­vanni che ha risolto il pro­blema» fa pre­su­mere che qual­cuno lo abbia comun­que districato.

Allo stesso modo: «È stato il pre­si­dente Obama a cau­sare il disa­stro», ci dice qual­cosa circa il suo ten­ta­tivo di ampliare l’accesso alle cure sani­ta­rie, ma ipo­tizza che la legge sani­ta­ria sia cata­stro­fica, affer­mando però che la causa è pro­prio il pre­si­dente Obama (piut­to­sto che le assi­cu­ra­zioni sani­ta­rie). L’attenzione al dibat­tito in lin­gui­stica circa il «pre­sup­po­sto» è essen­ziale per com­pren­dere a fondo cosa stia accadendo.

Un altro tipo di esem­pio. Lo slo­gan di canale Fox descrive l’emittente come «impar­ziale ed equi­li­brata». Ma è abba­stanza ovvio, anche al suo stesso pub­blico, che il canale Fox News non sia né l’uno né l’altro. La ragione per cui sfog­gia que­sto slo­gan è quello di invi­tare a pen­sare che non esi­ste qual­cosa che sia giu­sto ed equi­li­brato — che non vi è alcuna pos­si­bi­lità di dare noti­zie obiet­tive, esi­ste solo la pro­pa­ganda. Lo scopo è quello di insi­nuare che tutti i media siano gene­ral­mente insin­ceri. Gli effetti di un tale pre­giu­di­zio sono evi­denti nelle società in cui i media sta­tali usano il lin­guag­gio sol­tanto come un mec­ca­ni­smo di con­trollo, invece che come fonte di infor­ma­zione. I cit­ta­dini che cre­scono in uno stato in cui le auto­rità distri­bui­scono esclu­si­va­mente pro­pa­ganda non svi­lup­pano alcuna dome­sti­chezza con i mec­ca­ni­smi della fiducia.

Quindi, anche se i mem­bri di quella società hanno accesso a noti­zie atten­di­bili, magari via Inter­net, non si fidano. Sono adde­strati al sospetto. Senza fidu­cia, non vi è alcun modo, per qual­siasi spea­ker, di essere preso sul serio nel pub­blico domi­nio. Il risul­tato di que­sto atteg­gia­mento? È una società in cui le distin­zioni tra poli­tici e clo­wns svaniscono.

Uno Stato demo­cra­tico è quello in cui l’ingresso delle per­sone comuni nelle scelte poli­ti­che le rende legit­time. Ma la dif­fu­sione e l’accettazione della pro­pa­ganda da parte dei poli­tici e dei media mina la pre­gnanza della loro par­te­ci­pa­zione. Se l’opinione pub­blica è stata diso­rien­tata dalla pro­pa­ganda costruita da chi detiene il potere, l’entrata in poli­tica dei cit­ta­dini è irri­le­vante e lo stato non demo­cra­tico. Uno Stato demo­cra­tico neces­sita una cit­ta­di­nanza sem­pre vigile, in grado di moni­to­rare e punire i suoi poli­tici e i media quando pie­gano il lin­guag­gio ad un mec­ca­ni­smo di con­trollo, dimen­ti­cando che è invece una fonte di informazione.

* Filo­sofo del lin­guag­gio, Yale University


Agamben: Stati di ordinaria emergenza

Posted: Gennaio 14th, 2014 | Author: | Filed under: au-delà, bio, digital conflict, epistemes & società, Foucault, post-filosofia, vita quotidiana | 6 Comments »

di Giorgio Agamben

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Manifesto 14 gennaio 2014, p. 10

Democrazia dimezzate. In nome della sicurezza il neoliberismo più radicale convive con l’interventismo statale nella vita sociale. Un’anticipazione dall’ultimo numero di «Le Monde Diplomatique» in edicola con «il manifesto» da domani. Nella terra di nessuno al confine tra pubblico e privato avviene la demolizione della vita politica. Videosorveglianza e tracciabilità del Dna individuale sono le nuove tecnologie del controllo

La formula «per ragioni di sicurezza» («for security reasons», «pour raisons de sécurité») funziona come un argomento autorevole che, tagliando corto in ogni discussione, permette di imporre prospettive e misure che non si accetterebbero senza di essa. Bisogna opporgli l’analisi di un concetto dall’apparenza anodino, ma che sembra aver soppiantato ogni altra nozione politica: la sicurezza.

Si potrebbe pensare che lo scopo delle politiche di sicurezza sia prevenire i pericoli, i disordini, persino le catastrofi. Una certa genealogia fa infatti risalire l’origine del concetto al proverbio romano Salus pubblica suprema lex («La salvezza del popolo è la legge suprema»), iscrivendolo così nel paradigma dello stato di emergenza. Pensiamo al senatus consultum ultimum e alla dittatura a Roma; al principio del diritto canonico secondo cui Necessitas non habet legem («La necessità non ha affatto legge»); ai comitati di salute pubblica durante la Rivoluzione francese; alla costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII° (1799), che evoca i «disordini che minaccerebbero la sicurtà dello stato»; o ancora all’articolo 48 della costituzione di Weimar (1919), fondamento giuridico del regime nazional-socialista, che ugualmente menzionava la «sicurezza pubblica».

Per quanto corretta, questa genealogia non permette di comprendere i dispositivi di sicurezza contemporanei. Le procedure di emergenza mirano una minaccia immediata e reale che bisogna eliminare sospendendo per un tempo limitato le garanzie della legge; le «ragioni di sicurezza» di cui si parla oggi costituiscono al contrario una tecnica di governo normale e permanente.

Il buon timoniere

Molto più che nello stato di emergenza, Michel Foucault consiglia di cercare l’origine della sicurezza contemporanea negli albori dell’economia moderna, in François Quesnay (1694–1774) e i fisiocratici. (…)

Uno dei principali problemi che allora i governi dovevano affrontare era quello delle carestie e della fame. Fino a Quesnay, provarono a prevenirli creando granai pubblici e vietando l’esportazione dei cereali. Ma queste misure preventive avevano degli effetti negativi sulla produzione. L’idea di Quesnay fu di ribaltare il procedimento: anziché provare a prevenire le carestie, bisognava lasciare che esse si verificassero, con la liberalizzazione del commercio interno e esterno, per governarle una volta verificatesi.

«Governare» riprende qui il suo senso etimologico: un buon pilota – colui che tiene il timone, non può evitare la tempesta ma, se essa sopraggiunge, deve essere capace di guidare la sua barca.

È in questo senso che bisogna compredere la formula che si attribuisce a Quesnay, ma che in verità egli non ha mai scritto: «Lasciar fare, lasciar passare». Lungi dall’essere solamente il motto del liberismo economico, essa designa un paradigma di governo che situa la sicurezza – Quesnay evoca la «sicurezza dei fattori e degli aratori» – non nella prevenzione dei disordini e dei disastri, ma nella capacità di canalizzarli in una direzione utile.

Bisogna misurare la portata filosofica di questo rovesciamento che sconvolge la tradizionale relazione gerarchica tra le cause e gli effetti: poiché è vano o ad ogni modo costoso governare le cause, è più sicuro e più utile governare gli effetti. L’importanza di questo assioma non è trascurabile: esso regge le nostre società, dall’economia all’ecologia, dalla politica estera e militare fino alle misure di sicurezza e di polizia. È ancora esso che permette di comprendere la convergenza altrimenti misteriosa tra un liberismo assoluto in economia e un controllo securitario senza precedenti.

Orizzonti biometrici

Prendiamo due esempi per illustrare questa apparente contraddizione. Quello dell’acqua potabile, innanzitutto. Benché si sappia che presto essa mancherà su una grande parte del pianeta, nessun paese conduce una politica seria per evitarne lo spreco. Invece, vediamo svilupparsi, ai quattro angoli del globo, le tecniche e gli stabilimenti per il trattamento delle acque inquinate – un grande mercato in divenire.

Consideriamo ora i dispositivi biometrici, che sono uno degli aspetti più inquietanti delle tecnologie securitarie attuali. La biometria è comparsa in Francia nella seconda metà del XIX secolo. Il criminologo Alphonse Bertillon (1853–1914) si basò sulla fotografia segnaletica e sulle misure antropometriche al fine di costituire il suo «ritratto parlato», che utilizza un lessico standardizzato per descrivere gli individui su una scheda segnaletica. Poco dopo, in Inghilterra, un cugino di Charles Darwin e grande ammiratore di Bertillon, Francis Galton (1822–1911), mise a punto la tecnica delle impronte digitali. Ora, questi dispositivi, chiaramente, non permettevano di prevenire i crimini, ma di sorprendere i criminali recidivi. Ritroviamo qui ancora la concezione securitaria dei fisiocrati: è solo dopo che un crimine è stato compiuto che lo Stato può intervenire. (.…)

Il governo della popolazione

L’estensione progressiva a tutti i cittadini delle tecniche di identificazione una volta riservate ai criminali agisce immancabilmente sulla loro identità politica. Per la prima volta nella storia dell’umanità, l’identità non è più funzione della «persona» sociale e della sua riconoscibilità, del «nome» e della «fama», ma di dati biologici che non possono avere alcun rapporto con il soggetto, come gli arabeschi insensati che il mio pollice tinto di inchiostro ha lasciato su un foglio o l’ordine dei miei geni nella doppia elica del Dna. Il fatto più neutro e più privato diventa così il veicolo dell’identità sociale, sottraendogli il suo carattere pubblico.

Se criteri biologici che non dipendono per niente dalla mia volontà determinano la mia identità, allora la costruzione di un’identità politica diviene problematica. Quale tipo di relazione posso io stabilire con le mie impronte digitali o il mio codice genetico? Lo spazio dell’etica e della politica che eravamo abituati a concepire perde di senso ed esige di essere ripensato da cima a fondo. Mentre i cittadini greci si definivano mediante l’opposizione tra il privato e il pubblico, la casa (sede della vita riproduttiva) e la città (luogo della politica), il cittadino moderno sembra piuttosto evolvere in una zona di indifferenziazione tra il pubblico e il privato, o, per impiegare le parole di Thomas Hobbes, tra il corpo fisico e il corpo politico.

Questa indifferenziazione si materializza nella videosorveglianza delle strade nelle nostre città. Questo dispositivo ha conosciuto lo stesso destino delle impronte digitali: concepito per le prigioni, è stato progressivamente esteso ai luoghi pubblici. Ora uno spazio videosorvegliato non è più un’agorà, non ha più alcun carattere pubblico; è una zona grigia tra il pubblico e il privato, la prigione e il foro. Una tale trasformazione dipende da una molteplicità di cause, tra le quali occupa un posto particolare la deriva del potere moderno verso la biopolitica: si tratta di governare la vita biologica dei cittadini (salute, fecondità, sessualità, ecc.) e non più solo di esercitare una sovranità su un territorio. Questo spostamento della nozione di vita biologica verso il centro della politica spiega il primato dell’identità fisica sull’identità politica. (…)

Nei suoi corsi al Collège de France come nel suo libro Sorvegliare e Punire, Foucault accenna una classificazione tipologica degli Stati moderni. Il filosofo mostra come lo Stato dell’Ancien régime, definito come uno stato territoriale o di sovranità, il cui motto era «far morire e lasciar vivere», evolva progressivamente verso uno Stato della popolazione, dove la popolazione demografica si sostituisce al popolo politico, e verso uno stato di disciplina, il cui motto si inverte in «Lasciar vivere, e lasciar morire»: uno Stato che si occupa della vita dei sudditi al fine di produrre corpi sani, docili e ordinati.

Lo Stato in cui viviamo oggi in Europa non è uno stato della disciplina, ma piuttosto – secondo la formula di Gilles Deleuze – uno «Stato del controllo»: esso non ha come scopo ordinare e disciplinare, ma gestire e controllare. Dopo la violenta repressione delle manifestazioni contro i G8 di Genova, nel luglio 2001, un funzionario della polizia italiana dichiarò che il governo non voleva che la polizia mantenesse l’ordine, ma che gestisse il disordine: l’uomo non sapeva quanto avesse ragione. Da parte loro, alcuni intellettuali americani che hanno provato a riflettere sui cambiamenti costituzionali indotti dal Patriot act e la legislazione post-11-settembre preferiscono parlare di «Stato di sicurezza» (security state). (…)

Potenze destituenti

Ponendosi sotto il segno della sicurezza, lo Stato moderno esce dal campo della politica per entrare in una no man’s land di cui si percepisce male la geografia e le frontiere e per il quale il carattere concettuale ci manca. Questo Stato, il cui nome rimanda etimologicamente a una assenza di preoccupazione (securus: sine cura) può al contrario solo renderci più preoccupati dei pericoli che fa correre alla democrazia, poiché una vita politica vi è divenuta impossibile: ora democrazia e vita politica sono – almeno nella nostra tradizione – divenuti sinonimi.

Di fronte a un tale Stato, bisogna ripensare alle strategie tradizionali del conflitto politico. Nel paradigma securitario, ogni conflitto e ogni tentativo più o meno violento di rovesciare il potere forniscono allo Stato l’occasione di governarne gli effetti a beneficio di interessi che gli sono propri. È ciò che mostra la dialettica che associa strettamente terrorismo e risposta dello stato in una spirale viziosa.

La tradizione politica della modernità ha pensato i cambiamenti politici radicali sotto la forma di una rivoluzione che agisce come il potere costitutivo di un nuovo ordine costituito. Bisogna abbandonare questo modello per pensare piuttosto a una potenza puramente destituente, che non potrebbe essere rilevata dal dispositivo di sicurezza e precipitata nella spirale viziosa della violenza. Se si vuole arrestare la deriva antidemocratica dello Stato di sicurezza, il problema delle forme e dei mezzi di una tale potenza destituente costituisce proprio la questione politica essenziale che avremo bisogno di pensare nel corso degli anni a venire.


Il diagramma La Borde e il paradigma-buto

Posted: Gennaio 11th, 2014 | Author: | Filed under: anthropos, arts, au-delà, epistemes & società, kunst, psichè, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Il diagramma La Borde e il paradigma-buto

di ALESSANDRO TAGARIELLO

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“Trattare le persone senza cure ospedaliere è un’impostura” – tuona il dott. Jean Oury.

Secondo conflitto mondiale. Francia. I vetri infranti alla “Mecca della psicoterapia istituzionale” di Saint-Alban, irrompono da un luogo di internamento e annunciano, in qualche modo, un cambiamento; lo stesso luogo dove avevano trovato comunque riparo artisti e filosofi come Paul Eduard, Tristan Tzara, Canguilhem e profughi della guerra civile spagnola come il medico Francois Tousquelles. Quelle finestre rotte da un gruppo di psichiatri, i loro infiniti dialoghi con i rifugiati, rappresentano i segni della svolta che ci porta dritti a La Borde.

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Materialismo culturale a forza lavoro fissa

Posted: Dicembre 19th, 2013 | Author: | Filed under: 99%, comunismo, critica dell'economia politica, epistemes & società, Marx oltre Marx, Révolution, vita quotidiana | 8 Comments »

Intervista a STEPHEN SHAPIRO – di EMANUELE LEONARDI

Marx

Attualmente stai lavorando – da una prospettiva marxiana – su nozioni quali forza lavoro fissa e materialismo culturale. Potresti spiegare quali sono i caratteri centrali di questi concetti? Come si connettono con il sistema educativo e con il ruolo sempre più cruciale giocato dalla conoscenza nel contesto dei processi di produzione contemporanei?

Il materialismo culturale è lo studio della relazione tra esperienza sociale, in quanto storicamente messa in forma dall’organizzazione della produzione, ed espressione culturale, sia essa testuale, visuale, sonora o comportamentale. Il materialismo culturale, profondamente legato alla figura di Raymond Williams (1921-1988), si propone in generale di andare oltre le inutili rigidità della dicotomia tra struttura e sovrastruttura o della teoria del riflesso culturale, avversata pure da Engels.

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