Interview conducted by “Praktyka Teoretyczna” editorial collective on the occasion of publication of the Polish translation of Hardt and Negri’s Commonwealth.
Commonwealth is an attempt to answer the question: how can we reexamine the conditions and horizons of the communist political praxis and theory today. It is not only a successful revival of the seventeenth century tradition of treatises on government, but also a kind of a political manifesto. However, looking at the reception of different leftist theoretical propositions in Poland, we can expect a quite harsh welcoming of this book in our country. Could you somehow try to convince readers from the post-socialist countries, “disappointed” by Marxism as an epistemological perspective and ideologically waterproofed to the most of leftist proposals, to familiarize with the communist project presented in the Commonwealth?
I can well imagine that for many Polish readers the concept of communism has become so corrupt that they do not want to hear anything more about it. In standard discourse today for many people (in post-socialist countries and elsewhere) “communism” means rigid state bureaucracy, total state control of economic and social activity, suppression of political dissent, workers’ sacrifice for the national good, restrictions on public speech, and so forth. For Toni and me, however, and indeed for many others, communism means something entirely different – not the exaltation of the state but the abolition of the state, not the celebration of work but the liberation from work, as well as experimentation with forms of freedom and democratic participation that go well beyond what exists in contemporary capitalist societies.
“Siamo piazza per protestare contro la legge che taglia i finanziamenti alla scuola pubblica: come facciamo ad andare avanti se nella nostra scuola non ci sono abbastanza banchi?”.
Così uno studente di Torino giustificava la sua partecipazione allo sciopero europeo della scorsa settimana. Giusto un anno e mezzo fa siamo stati spettatori di una primavera araba con la quale assolutamente nessuno aveva fatto i conti. Di colpo, regimi autoritari crollarono sotto la spinta dei movimenti democratici di protesta organizzati dalla “Generation Global”. Dopo la primavera araba potrebbe arrivare un autunno, un inverno o una primavera europea? Gli scioperi delle ultime settimane ne sono stati i segnali? Naturalmente, negli ultimi due o tre anni abbiamo visto ragazzi di Madrid, Tottenham o Atene protestare contro gli effetti delle politiche neo-liberali di risparmio e attirare l’attenzione sul loro destino di generazione perduta. Tuttavia, queste manifestazioni erano in qualche modo ancora legate al dogma dello Stato nazionale. La gente si ribellava nei singoli paesi alla politica tedesco-europea del rigore, adottata dai diversi governi.
Cocowork al teatro Valle occupato di Roma, da sabato 24 novembre alle ore 17 a domenica 25 novembre. Appunti su un vociare che mi rimbalza in testa da mesi, anni, dentro il confronto attivo con molte/i altre/i quintari-e intorno alle questioni del lavoro (e della possibile emancipazione da esso, si sarebbe detto in altri tempi…) in una perdurante epoca che vi vuole impoverite, saccheggiati, precarizzate, di fatto incapaci di pensarci altrimenti, dentro questo quadro depressivo che ci hanno costruito addosso.
MANUEL CASTELLS. L’ultimo libro dell’intellettuale catalano è dedicato alle
«Reti di indignazione e di speranza». Un’analisi dei movimenti sociali dopo
la crisi del capitalismo che ne mette in evidenza le potenzialità ma ne
occulta le zona d’ombra.
Tutto ha avuto inizio in un paese della Tunisia. La versione più accreditata
parla di un giovane venditore ambulante fermato dalla polizia che gli
sequestra la poca merce che adorna il suo banchetto. Poche ore prima, le
stesse forze dell’ordine lo avevano fermato, estorcendogli una tangente.
Quello che accadde in quella giornata, il 4 Gennaio 2011, è però noto a
tutti: Mohamed si cosparge di benzina e si dà fuoco. È la scintilla che che
incendia la prateria, dando vita alle cosiddette «primavere arabe».
Ci sono ovviamente molte versioni sulle dinamiche che hanno portato Mohamed
a darsi fuoco. Tutte concordano però nel sottolineare che fu un gesto per
riaffermare una dignità calpestata da un potere arbitrario e corrotto. Ed è
su proprio sulla dignità che Manuel Castells nel suo ultimo libro – Reti di
indignazione e di speranza, Università Bocconi Editore, pp. 269, euro 25. Il
volume sarà presentato oggi all’interno della rassegna «Mee the media guru»
presso il Teatro Dell’Arte di Milano (Viale Alemagna 6, ore 21) – insiste
per spiegare i motivi alla base dei movimenti sociali che dal 2009 si sono
diffusi, come un virus, in Europa, Stati Uniti e parte del mondo arabo.
L’indignazione viene dal rifiuto su come viene gestito il potere; la
speranza risiede nella possibilità di cambiare lo stato delle cose. La
critica al capitalismo non è però tesa a superare un modo di produzione che
produce ineguaglianze; bensì è finalizzata alla definizione di uno spazio
pubblico autonomo dalle forme di potere per affermare la speranza in un
altro mondo possibile. I movimenti sociali sono dunque «spazi di autonomia»
che non possono essere giudicati secondo parametri «produttivistici» –
efficacia nel raggiungere determinati risultati – ma dalle loro capacità di
trasformare lo stile di vita individuale e per la «rivoluzione culturale»
che alimentano. Sono cioè spazi segnati da processi di produzione di
soggettività collettive all’interno delle quali i singoli affermano la loro
irriducibile singolarità perché riconoscono il fatto di essere «individui
sociali».
Non è la prima volta che Castells si confronta con i movimenti sociali. Ma
questo libro è dettato dall’urgenza teorica-politica di interpretare il
venir meno dalla distinzione tra lo spazio pubblico della Rete e i flussi di
merci, di uomini e donne che hanno nel tessuto urbano la loro indispensabile
infrastruttura. Con un vezzo decisamente accademico Castells dichiara,
infatti, di essere venuto meno a una delle regole della sua disciplina
scientifica. Ha sì raccolto materiali, elaborato inchieste quantitative
sulla composizione sociale degli attivisti dei vari movimenti, ma ha altresì
passato lunghe giornate discutendo con i militanti delle piazze occupate di
Barcellona o con quelli di Occupy negli Stati Uniti, scoprendo di essere
testimone di una «grande trasformazione» che non poteva certo attendere i
tempi lunghi della elaborazione disciplinare a cui è stato sempre fedele.
Tra potere e contropotere
Con entusiasmo poco trattenuto, Castells scrive che i movimenti sociali
degli ultimi tre anni sono riusciti a coniugare l’agire comunicativo dentro
la Rete con l’occupazione dello spazio urbano. Le acampadas spagnole,
Zuccotti park, piazza Tharir possono sì esseri spiegati evocando la Comune
di Parigi, i soviet, l’occupazione della Sorbona, ma rimarrebbe un esercizio
retorico che occulterebbe la rilevanti differenze tra il presente e il
passato prossimo dei conflitti sociali e di classe. Più che contentarsi
sulle ripetizioni, Castells prova dunque a misurarsi con le differenze tra
passato e presente. Questo è dunque il frame teorico da cui parte: le
società contemporanee vedono l’azione di un potere costituito teso a
garantire la riproduzione dei rapporti di forza tra la classi nella società.
Ma un potere deve sempre vedersela con la presenza di un contropotere teso a
contrastare quello dominante. Ed in questo dinamico dualismo che la
comunicazione svolge un ruolo determinante, perché è il contesto in cui
viene elaborato un significato condiviso sia dal potere che dal contropotere
al fine di garantire la riproduzione della società. Per Castells, infatti,
una volta che il potere riesce ad imporre, attraverso la fabbrica del
consenso rappresentata dai media, la sua weltanshauung, al contropotere
rimane solo la possibilità di manifestare una folkloristica e subalterna
controcultura. Neppure le rivolte degli anni Sessanta sono riuscite a
interrompere la produzione del consenso, fino a quando hanno preso forma e
si è diffusa la Rete. Solo con la formazione della «galassia Internet»
prende forma una «autocomunicazione di massa» che mette in crisi il potere
manipolatorio dei media perché rompe l’incantesimo di una comunicazione
dell’uno ai molti per affermare invece la comunicazione dei molti ai molti
che impedisce forme di controllo da parte del potere costituito. Internet
consente così la costituzione di spazi pubblici autonomi rispetto a quelli
dominanti. È all’interno dei social network, della blogsfera, nelle
pulviscolari forme di mediattivismo che avviene il big bang del passaggio
dalla socializzazione di emozioni condivise (l’indignazione) all’azione,
esemplificata dalla integrazione tra gli spazi pubblici dei social network e
gli spazi urbani occupati dai movimenti sociali.
Le acampadas spagnole, Zuccotti Park, Piazza Tharir sono quindi i simboli
della capacità dei movimenti sociali di poter affermare la loro autonomia
dal potere, consentendo ai singoli di vivere l’intensa e entusiasmante
esperienza di un rafforzamento del sé attraverso la condivisione
«sentimentale» della costruzione di una comunità virtuale che afferma la
propria agenda politica scardinando la temporalità imposta del potere:
«siamo lenti, perché andiamo lontano», hanno scritto gli indignados di
Barcellona in una loro striscione.
L’attuale risacca dei movimenti sociali non va però letta come la loro fine.
Attesta semmai a una «ritirata» nello spazio pubblico dei social network per
poi ripresentarsi nuovamente nello spazio urbano. Questa flessibilità e
capacità di adattamento è dovuta alla forma reticolare di organizzazione – i
«movimenti sono reti di reti», annota Castells – che consente processi
deliberativi basati sul consenso e non sulle logiche maggioritarie della
democrazia rappresentativa. Quello che stiamo vivendo altro non sarebbe che
espressione della natura intermittente dei movimenti. Siamo cioè nella fase
autoriflessiva, della ritirata negli spazi pubblici dei social network per
fare il punto della situazione, in attesa che il miracolo del passaggio
dall’emozione all’azione si rinnovi.
L’ethos condiviso
I miracoli hanno sempre uno statuto dubbio. La loro certificazione avviene
infatti sempre a posteriori, cioè quando si sono già manifestati. Per i
movimenti sociali c’è inoltre il rischio di una profezia che si autoavvera
ogni volta che si manifestano, considerando il periodo di assenza come tempo
dell’autoriflessione, della sosta all’interno di una lunga marcia che
dovrebbe portare a quel mondo possibile intravisto nelle occupazioni degli
spazi urbani. Sia però ben chiaro. Il libro di Castells è una fotografia dei
movimenti sociali scattata da una prospettiva che ne privilegia alcuni
aspetti facendo uso di un filtro che ne cancella però le zone d’ombra. Il
grandangolo «culturalista» scelto dallo studioso catalano coglie sicuramente
la centralità della «cura del sé», della invenzioni di identità poliedriche,
della ricerca di un ethos condiviso dopo la dissoluzione dei legami sociali
operata dallo sviluppo capitalistico. E in maniera altrettanto convincente
Castells individua nella comunicazione on line non solo il medium per la
socializzazione di informazioni e punti di vista sulla realtà, ma anche come
strumento e modello organizzativo. Ma tutti questi elementi più che
costituirne la soluzione, è il problema.
All’indomani della rivolta di Seattle, molti attivisti e intellettuali si
posero la domanda di cosa differenziasse quel movimento dai precedenti. In
molti, ne sottolinearono il carattere postideologico, individuando nello
slogan «un altro mondo possibile» una tensione etica a superare alcune
dicotomie della modernità – tra capitale e lavoro, tra sviluppo e
sottosviluppo – all’interno di soluzioni pragmatiche al degrado ambientale e
alle diseguaglianze sociali che il modello neoliberista di sviluppo
accentuava più che ridurre come sostenevano gli apologeti della
globalizzazione. Fu così cancellato il fatto che i movimenti sono una spazio
di politicizzazione dei rapporti sociali. Allora come adesso è questo il
nodo da sciogliere.
Indebitati e smarriti
Gli indignados, Occupy, ma anche i giovani tunisini e egiziani hanno operato
dentro una crisi dello sviluppo capitalistico che sta terremotando le
formazioni sociali. Da questo punto di vista, la descrizione dei movimenti
sociali come sciami che si aggregano per perseguire un obiettivo per poi
dissolversi più che individuare una forma politica, descrivono una forma di
vita. Da qui la domanda: come pensare una politica della trasformazione in
presenza dell’intermittenza dei movimenti sociali e la loro irriducibilità a
una sintesi definita come un apriori? Una indicazione viene dalla
composizione sociale del lavoro vivo nel capitalismo. Anche qui
l’intermittenza e la comunicazione sono i fattori che si impongono
all’attenzione.
Intermittenza della prestazione lavorativa basata sulla condivisione – e
dunque sulla comunicazione – della propria singolare capacità di sviluppare
cooperazione sociale. Sullo sfondo ci sono però le dinamiche messe in moto
dalla crisi economiche. L’indebitamento, la precarietà del rapporto di
lavoro, la dimensione pervasiva della comunicazione on line, sempre in
bilico tra costituzione di spazi pubblici autonomi e inedite e sofisticate
forme di controllo sociale sono fattori con cui i movimenti sociali devono
fare i conti. Da qui, la centralità dell’organizzazione come capacità di
elaborare proposte tese alla riappropriazione della ricchezza. I movimenti
sociali non possono dunque che presentarsi come potenziali forme politiche
che ricompongono i mille frammenti del lavoro vivo. È questa l’eredità delle
acampadas e di Zuccotti Park che va raccolta e messa al lavoro
politicamente. Affinché gli sciami possano manifestare la loro potenza e
elegante, assieme alla capacità di modificare i rapporti di forza tra le
classi. Fattore che tanto l’indignazione e la speranza efficacemente
descritte da Castells non rimangono parole consolatorie rispetto alla
miseria del presente, diventando invece la spinta a dare forma e sostanza
alla ricchezza del possibile.
Dalle «acampadas» a Zuccotti Park
Manuel Castells lasciò la Spagna nel 1976 per la sua attività
antifranchista. Il primo paese che lo ospitò professionalmente fu
l’università francese della a Sorbona . Ma il punto di svolta nella sua vita
fu un nuovo trasferimento. La meta erano gli Stati Uniti, più precisamente
Berkeley, in California. È in quella sede che hanno preso forma gran parte
dei suoi studi. Il primo libro che pubblico negli Stati Uniti fu «City,
Class and Power» (MacMillan, St. Martins Press), cui seguì «The Economic
Crisis and American Society» (Princeton University Press). È però del 1980
il primo libro dove lo studioso affrontò il legame tra i movimenti sociali e
i movimenti sociali («The City and the Grassroots: A Cross-cultural Theory
of Urban Social Movements», University of California Press). È un testo che
segna anche l’allontanamento di Castells dalle costellazione marxista a cui
faceva riferimento.
Nel frattempo Castells comincia a lavorare con alcune organizzazioni
sovranazionali, accumulando materiali sulle trasformazioni del capitalismo
contemporaneo e di come tali mutamenti si riflettono sia nella formazione e
diffusione dei movimenti sociali che nella struttura urbana. Il risultato di
oltre dieci anni di lavoro di inchiesta e di elaborazioni dei dati è la
trilogia sull’Era dell’informazione (i tre volumi sono stati pubblicati in
Italia dalla Università Bocconi editore con i titoli : «La nascita della
società in Rete», «Il potere dell’identità», «Volgere di millennio») . Una
trilogia che viene indicata, a quasi venticinque anni di distanza, come una
delle analisi più dettagliati del declino del capitalismo fordista e
l’«avvento» di quello informazionale. Castells è sì convinto che le
tecnologie informatiche hanno reso possibile il coordinamento di una
produzione di merci diffusa nel pianeta, ma che la produzione e la gestione
dell’informazione siano diventata la fonte di ricchezza del capitalismo.
Ed è con questo spirito che lo studioso catalano avvia un nuovo progetto di
ricerca. Il continente da scoprire è, questa volta, Internet. Anche in
questo caso, Castells non si accontenta a descrivere la Galassia Internet
(Feltrinelli), ma prova a interpretare il World wide web come la nuova
frontiera del capitalismo informazionale. Anche in questo caso, i movimenti
sociali svolgono un ruolo fondamentale in quanto «soggetti
dell’innovazione». Argomento che torna nel libro scritto assieme al
sociologo finlandese Pekka Himanen (L’etica hacker e lo spirito del
capitalismo, Feltrinelli). Ma sarà solo con l’inchiesta sulla convergenza
tra informatica e telefonia (Mobile communication, Guerini Associati) e con
Comunicazione e potere (Università Bocconi editore) che Castells si pone il
problema su come i movimenti sociali debbano essere interopretati
dall’avvenuta simbiosi tra gli spazi pubblici della rete e quelli urbani.
I materiali che qui di seguito presentiamo sono saggi, articoli, riflessioni prodotti in occasione o a margine del primo incontro di Orizzonti meridiani, tenutosi a Pozzacchio del Matese, in provincia di Caserta, l’1 e il 2 settembre 2012. É la prima raccolta con la quale inauguriamo il dossier, dove confluiranno contributi relativamente ai campi di lavoro dischiusi da Orizzonti meridiani.
Orizzonti meridiani è un percorso di autoformazione, inchiesta e conricerca che muove le sue analisi a partire dalle processualità di lotta e di movimento presenti nel Mezzogiorno. Promosso da una costellazione di collettivi, centri sociali e singolarità meridionali, esso è anche un progetto politico e culturale.
Senza concedere attenuanti a pratiche identitarie per rievocare tradizioni inventate, tale progetto interroga, nel tentativo di sovvertirlo, l’ordine del discorso liberale e neoliberale che, dal tardo Settecento e stratificato nella contemporaneità in paradigmi analoghi, legge il Sud, con pronunciamenti progressivi e storicisti, all’interno di griglie dicotomiche in cui convivono sviluppo e sottosviluppo, modernità e arretratezza. Dialettica utile solo al “meridionalismo sviluppista” in grado di registrare ritardi e “mancati traguardi” del Sud in quattro secoli rispetto al Nord d’Italia, in base a indici economicisti talmente astratti per cui si dimostrano da soli e avvalorano la stessa cultura sviluppista.
Del resto, il Sud come spazio omogeneo e liscio, unità di misura dello sviluppo capitalistico, è lo stesso Sud in cui la subalternità viene tratteggiata dallo sguardo esterno. E si costruisce, di riflesso, nei discorsi e nelle forme di vita degli stessi subalterni. Mettere a nudo l’idea di sviluppo significa, dunque, evitare che il meridione riproduca la sua subalternità all’infinito: rifugga i campi enunciativi attraverso cui nell’esprimere se stesso si va percependo come periferico, interrompendo non solo i discorsi altrui che lo vogliono tale ma, nondimeno, ogni descrizione di se stesso che accetti un discorso quale proiezione di termini come periferia, marginalità, sottosviluppo.
Orizzonti meridiani è anche un metodo di pratica politica, il cui intento è quello di decostruire gli assiomi della storia sociale ed economica del Mezzogiorno, suscitando l’“esodo da parole come crescita economica, modernizzazione, progresso” e rendendo al contempo condiviso un campo di forze in cui organizzare i movimenti e le lotte dei subalterni. D’altronde, un esercizio semantico e politico di questo tipo non può che prendere le mosse da Gramsci e dal suo avvertimento sul modo in cui vengono osservate e narrate le classi subalterne, i “senza storia” di fine Ottocento così come gli odierni precari e “poveri” del Mezzogiorno, quella composizione del lavoro vivo che, maggiormente nella cooperazione sociale presente a Sud, resta invisibile agli indici per essere ricattata, sfruttata e sottopagata. Tale modalità si costruisce nei discorsi e nelle forme di vita, nel modo di agire lo spazio/tempo del Sud a confronto con l’incalzare di concetti quali civiltà, modernità, sviluppo, a cui si aggiunge un supplemento – consapevole o meno – di stereotipi, pregiudizi, distanze, diffidenze, ossia tutte quelle tattiche che costituiscono la strategia del dispositivo dell’ “orientalismo” a Sud.
Dal Sud ai sud per ribaltare lo sguardo egemone, vuol dire anche valorizzare le molte voci, diversificando gli sguardi, poiché la cartografia del Sud d’Italia è tanto la molteplicità quanto la singolarità dei luoghi. Il che non basta. Il capitalismo agisce con modalità predatorie, di cattura, da colonizzatore. Per comprenderne gli effetti, occorre oltrepassare il limite storico-geografico. Dunque, Orizzonti meridiani è anche il tentativo di concatenare i significanti storico-politici del Sud d’Italia con gli altri sud laddove il colonialismo, prima, e il post-colonialismo, poi, intervengono tramite le forme del dominio e del comando, di gerarchizzazione e di controllo, di dispositivi di razzializzazione e dell’“emergenza perpetua”.
Il 10 marzo del 1994 viene ripescato nella Senna il corpo senza vita del
poeta di origini romene Gherasim Luca. In una lettera datata 9 febbraio,
giorno della sua sparizione, Luca se l’era presa con «questo mondo dove i
poeti non hanno più posto» [cit. in: ”La République Internationale des Lettres“, n.
2, avril 1994].
Luca è uno dei maggiori poeti, performer e sperimentatori della parola
che il Novecento abbia avuto. Purtroppo però il suo corpus poetico, sviluppatosi
fin dall’inizio in lingua francese, è sostanzialmente intraducibile.
Una sua eventuale versione in italiano perderebbe gran parte della
freschezza e della furiosa polisemia dell’originale e abbisognerebbe nondimeno
di un apparato di note piuttosto “invasivo”.
Nell’eredità del situazionismo c’è qualcosa di paradossale. Da una parte, i concetti elaborati tra il 1952 e il 1968 in seno all’Internazionale Lettrista e poi Situazionista sono pervenuti a una posizione egemonica, costituendosi come sovrastruttura ideologica del sistema del consumismo culturale: parte integrante del cosiddetto «nuovo spirito del capitalismo». Ma d’altra parte proprio nel Sessantotto, e proprio con La Società dello Spettacolo, Guy Debord dava corpo a una riflessione tragica sulla modernità che oggi nutre varie forme di pensiero più o meno reazionario – dalla Nouvelle Droite di Alain de Benoist a certe frange dell’anarco-primitivismo. Per semplicità, diremmo che vi sono due modi di «recuperare» il situazionismo, l’integrato e l’apocalittico. Si potrebbe allora credere che le contraddizioni del post-situazionismo rispecchino le contraddizioni del situazionismo, e magari le trasformazioni del pensiero di Guy Debord. In verità, come mostreremo, non c’è alcuna contraddizione, e ben poche trasformazioni. Apocalittico e integrato sono le due facce di una medesima medaglia.
Tempo di crisi. Crisi economica, crisi dello stato, crisi della proprietà.
Lo spiegarsi del capitale di bolla in bolla (il capitale procede attraverso rotture o meglio mediante delle distruzioni creative che si concludono con le crisi Negri-Hardt, Comune, 148) ha dilatato i confini, reso inermi i governi (meglio, violenti esecutori di ordini nella ricerca di un introvabile ordine) sottoposti a commissari e troike.
La finanziarizzazione ha reso evidente anche la crisi dello statuto della proprietà (ed è evidente che parlare di “proprietà” al plurale non risolve il problema).
L’incertezza di trovare un proprietario nell’intricato reticolo di cartolarizzazioni dei mutui sub prime, la pretesa di ravvisare una lesione del diritto di proprietà nel rifiuto degli stati di onorare il debito pubblico, elidono alla radice il fondamento del sacro ed inviolabile privilegio.
Un intervento al seminario Uninomade a Roma 26/10/2012
Organizzerò il mio intervento su tre punti fondamentali. Cercherò innanzitutto di definire la convenzione finanziaria che oggi ci domina e come essa abbia modificato il rapporto tra privato e pubblico. In secondo luogo cercherò di analizzare come il privato e il pubblico siano stati fissati nella costituzione del 1948, ma soprattutto come essi si presentino nel farsi della costituzione europea. Infine, cercherò di capire come, in nome del comune, possa essere rotta la convenzione costituzionale che ci lega, opponendo dispositivi antagonisti all’esercizio del potere finanziario, costruendo una “moneta del comune” – insomma, che cosa significa, dentro/contro l’attuale convenzione finanziaria europea, procedere nella costruzione del comune?