Sulla Repubblica del 2 Novembre Barbara Spinelli pone, con la chiarezza e l’acutezza che la distinguono, due problemi decisivi del momento presente. In un articolo dal titolo “Più poteri all’Europa” si chiede quali conseguenze porterà il cosiddetto “commissariamento” europeo che interessa l’Italia – paese evidentemente incapace di uscire dalla situazione di ingovernabilità in cui l’ha spinta l’arroganza ignorante della destra più irresponsabile di tutti i tempi, ma anche la viltà intellettuale e la subalternità del centro-sinistra.
Il “commissariamento” imbarazza indigna e offende – dice Spinelli. Ma non dovrebbe, perché in effetti può essere visto all’incontrario, non come una condizione di debolezza e di inadeguatezza della politica italiana, ma come una condizione di flessibilità che – trasformando la necessità in virtù – darebbe a questo paese l’opportunità di sperimentare un’avanzata forma di cessione di sovranità e quindi aprirebbe le porte ad un ampliamento dell’ambito di governo dell’Unione, e parallelamente, ad una riduzione delle rigidità sovranitarie o nazionaliste. L’Italia potrebbe in questa occasione giocare un ruolo di apertura e di avanguardia, a patto di rovesciare l’atteggiamento oggi prevalente in un atteggiamento di assunzione consapevole del ruolo di innovazione istituzionale che il paese “commissariato” potrebbe assumere, quando accettasse un processo di condivisione delle decisioni economiche, sociali, e politiche, e quando avesse l’autorevolezza necessaria per chiedere agli altri paesi (Francia e Germania incluse) di accettare una simile flessibilità post-nazionale e una simile disposizione post-sovranitaria.
Fin qui m’inchino alla lungimiranza della scrittrice.
Ma c’è un secondo punto su cui – me ne dispiaccio – debbo dichiarare il mio disaccordo. Giustamente Spinelli distingue tra perdita di sovranità e perdita di democrazia. Rinunciare alla sovranità nazionale è buono, dal punto di vista del progresso europeo. Male sarebbe invece, si lascia sfuggire Spinelli se si verificasse una perdita di democrazia. Ma su questo punto non si sofferma abbastanza. E invece dovrebbe.
Come la maggior parte dei commentatori politici, Barbara Spinelli giudica severamente la decisione di Papandreou di indire un referendum per decidere se consegnare o meno quel che resta della società greca al diktat ultramonetarista della banca centrale europea. E’ strano come la grande maggioranza dei commentatori che si definiscono democratici considerino in modo così altezzoso il diritto dei popoli a decidere sul proprio futuro. Si può pensare che Papandreou avrebbe dovuto indire un referendum nella primavera del 2010, prima di esporre il suo popolo alla violenza scatenata dei banchieri che ha spolpato e umiliato la società ellenica. Meglio tardi che mai, verrebbe da aggiungere.
Non si può infatti accettare che si prendano decisioni di vitale importanza che riguardano l’intera società greca (questioni di vita o di morte), senza concedere ai cittadini neppure il diritto di rispondere a un referendum.
Dopo diciotto mesi di devastazione finanziaria e conseguenti impoverimento, disoccupazione, repressione, e umiliazione politica – il premier Papandreou decide di fare una cosa che dovrebbe essere considerata assolutamente normale, in un mondo che ama definirsi democratico. Convoca una consultazione che permetterà al popolo greco di discutere e di decidere se accettare o respingere il diktat della classe finanziaria europea. Non l’avesse mai fatto. La reazione dei mercati è il panico generalizzato, il crollo delle borse, la minaccia di gettare l’Europa in un abisso. Ma non la chiamavano democrazia di mercato? Pare che il capitalismo non sopporti più l’esistenza della democrazia, e l’esistenza stessa della civiltà. Ma se la democrazia e la civiltà decidessero che è venuta l’ora di liberarsi del capitalismo?
Zizek ha detto recentemente che il dogmatismo imperante preferisce pensare che stia per arrivare la fine del mondo (e preferisce sfidarla) piuttosto che ammettere, più ragionevolmente, che è finito il capitalismo. Forse è questa la prospettiva cui dovremmo abituarci, e da cui dovremmo ripartire: il capitalismo è finito. Cosa viene dopo?
Ero e sono fuori, in queste settimane, in Spagna ed in Portogallo. Non ho seguito direttamente quello che è avvenuto a Roma. Ma sono stato sorpreso, direi sbalordito, nel leggerne cronache e commenti.
1) La divisione tra gli “indignati” e gli altri, i “cattivi”, è stata fatta prima di tutto da La Repubblica, l’organo di quel partito dell’ordine e dell’armonia che ben conosciamo (per non dire degli altri media). Non sembra che il comitato organizzatore della manifestazione si sia indignato molto per ciò. C’era forse un peccato originale alla base di questo oltraggio: chi aveva organizzato la “manifestazione degli indignati” non aveva molto a che fare con le pratiche teoriche e politiche che dalla Spagna si sono estese globalmente, talora in maniera massiccia, altre volte minoritaria: il rifiuto della rappresentanza politica e sindacale, il rigetto delle costituzioni liberali e socialdemocratiche, l’appello al potere costituente. In Italia, invece, un gruppo politico al limite della rappresentanza parlamentare si è appropriato il nome degli Indignados … E ora reclamano: “Lasciateci fare politica”.
Posted: Ottobre 22nd, 2011 | Author:agaragar | Filed under:comune, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Distruggere la paura, affermare il comune
di COLLETTIVO UNINOMADE
0. Nella sera romana illuminata dai fuochi di Piazza San Giovanni, abbiamo cominciato a interrogarci sulla giornata del 15 ottobre, su ciò che ha rivelato nelle molteplici scale geografiche che si sono incrociate a produrne la dimensione globale, sulla forza e sulle potenzialità che ha fatto emergere, sui problemi che consegna alla nostra riflessione e alle nostre pratiche. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo da materialisti, convinti – per citare uno che la sapeva lunga – che le azioni umane non vadano derise, compiante o detestate, ma prima di tutto comprese. Proviamo a farlo con queste note, segnalando alcuni dei punti che ci sembrano più rilevanti.
In tempi eccezionali fenomeni normalmente considerati marginali diventano essenziali e delineano il comune di un’epoca. Stiamo vivendo uno di quei tempi.
Partire dal mezzo
Si era pensato che parole come insurrezione, rivoluzione, anarchia e comunismo fossero state per sempre rinchiuse in esangui ambienti «antisistema« e che non restasse, al meglio, che ripetere a ogni autunno il rituale movimentista. Ma oggi, in presenza di movimenti insurrezionali diffusi, sono proprio i movimentisti a ritrovarsi minoritari. Alcuni sono in affannosa ricerca di una nuova rappresentanza, se non di una narrazione di governo che si aggrappa alla capacità di resistere di un non meglio specificato «ceto medio», mentre i circoli del radicalismo si trovano espropriati della loro identità costruita proprio sull’assenza dell’insurrezione.
Abstract: Gilbert Simondon once noticed that industrial machines were already an information relay, as they were bifurcating for the first time the source of energy (nature) from the source of information (the worker). In 1963, in order to describe the new condition of industrial labour, Romano Alquati introduced the notion of valorising information as a link between the Marxist concept of value and the cybernetic definition of information. In 1972, Deleuze and Guattari initiated their machinic ontology as soon as cybernetics started to exit the factory and expand to the whole society.
In this text I focus again on the Turing machine as the most empirical model available to study the guts of cognitive capitalism. Consistent with the Marxian definition of machinery as a device for the “augmentation of surplus value”, the algorithm of the Turing machine is proposed as engine of the new forms of valorisation, measure of network surplus value and new ‘crystal’ of social conflict. Information machines are not just ‘linguistic machines’ but indeed a relay between information and metadata: in this way they open to a further technological bifurcation and also to new forms of biopolitical control: a society of metadata is outlined as the current evolution of that ‘society of control’ pictured by Deleuze in 1990.
Con la separazione tra sapere e potere e il massiccio diffondersi della televisione, le democrazie odierne assomigliano sempre più a delle sondocrazie: tutto è lecito in nome del consenso, dell’“audience”, e l’unica verità che conta è quella dei sondaggi, del marketing. Tuttavia, nell’Italia berlusconiana e nell’Inghilterra di Murdoch si scorgono i primi segnali di un’inversione di rotta.
La verità è stata per la filosofia quello che il sacro Graal è stato per i cavalieri medievali e la pietra filosofale per gli alchimisti: un obiettivo sfuggente e mai raggiunto, ma capace di giustificare qualsiasi sforzo e qualsiasi sacrificio. Ogni volta, in ogni epoca e con ogni pensatore, la verità veniva raggiunta solo per essere contraddetta e superata dal pensiero successivo. Sino a che questa impossibilità di raggiungere il vero, in modo definitivo ed esaustivo, ha cominciato a far parte della teoria stessa della verità. La verità è tale solo sino a quando viene “falsificata” in senso popperiano. E ancora, la verità è qualcosa che cambia nel tempo con l’avvicendarsi di epistemi diverse. Pensiamo al concetto di rottura epistemologica in Gaston Bachelard. E pensiamo al concetto di regime di verità teorizzato da Michel Foucault.
Proposta dall’interno delle acampadas spagnole, la giornata del 15 ottobre si sta configurando come un importante appuntamento di lotta a livello europeo e globale. Ci prepariamo a viverlo mentre l’onda di indignazione sollevata dalla crisi economica è arrivata a investire Wall Street e dopo mesi di mobilitazioni che, per quel che ci riguarda più da vicino, hanno segnato in profondità l’area euro-mediterranea. Sia chiaro: al 15 ottobre è bene guardare con occhi scevri da ogni mitologia riguardo alla sua possibile natura di «evento decisivo». Proprio la dinamica delle lotte degli ultimi mesi ha mostrato spesso una sconnessione tra i movimenti reali e la convocazione di scadenze che si volevano «ricompositive», come ad esempio gli scioperi generali in Italia e in Grecia. Mentre altrettanto spesso veri e propri «eventi» si sono prodotti in modi imprevedibili, che si tratta di indagare e comprendere. Il 15 ottobre, colto nella sua dinamica transnazionale, costituisce anche un’occasione per approfondire la discussione su questi problemi, che sono stati al centro dei recenti meeting di Rio de Janeiro (24-26 agosto), di Barcellona (15-18 settembre) e in Tunisia (29 settembre-2 ottobre).
Occupy Wall Street: The Most Important Thing in the World Now
By Naomi Klein – October 6th, 2011
Published in The Nation.
I was honored to be invited to speak at Occupy Wall Street on Thursday night. Since amplification is (disgracefully) banned, and everything I said had to be repeated by hundreds of people so others could hear (a.k.a. “the human microphone”), what I actually said at Liberty Plaza had to be very short. With that in mind, here is the longer, uncut version of the speech.
I love you.
And I didn’t just say that so that hundreds of you would shout “I love you” back, though that is obviously a bonus feature of the human microphone. Say unto others what you would have them say unto you, only way louder.
Postoperaismo o la trasformazione di capitale e lavoro
di MICHAEL BLECHER
“Un sapere che non afferri la tua vita nella sua interezza vale poco o nulla”, Luciano Ferrari Bravo
I. Poiesi Non-Sistemica
Parlare da outsider di postoperaismo sul maggiore sito ‘postoperaista’ italiano è impresa rischiosa – al di là dei problemi che i protagonisti potrebbero avere con questa definizione.[1] Mi accingo allora subito ad applicare la solita ‘clausola liberatoria’ dichiarando che ‘tutti gli errori sono esclusivamente miei’. Comunque questa specie di re-entry si deve non ultimo al fatto che finora il postoperaismo viene ‘riconosciuto’ più all’estero che non in Italia; almeno se si considera che i libri scritti da Michael Hardt e Antonio Negri, protagonisti di quel postoperaismo, sono dei bestseller internazionali. Inoltre sta nascendo un dibattito internazionale sulle valenze dei loro concetti che si deve probabilmente alla mancanza di un’adeguata teoria e prassi critica di fronte alle ultime mosse auto-valorizzanti che il capitalismo finanziario sta lanciando sotto il profilo di una ‘crisi’ costante.