Vorrei ripartire dal tuo testo Virtuosismo e Rivoluzione apparso nel lontano ‘93 sulla rivista «Luogo Comune» per affrontare quello strano soggetto politico che definiamo disobbedienza. Facendo seguito alla riflessione sulla «disobbedienza civile» di stampo liberale, e molto lontano da questa, proponevi allora un’idea di disobbedienza sociale (o di disobbedienza radicale) che sarebbe diventata una delle parole-chiave per identificare l’azione del movimento globale. Dopo quel tuo intervento (confluito poi nella Grammatica della moltitudine) altri contributi teorici rilevanti non mi sembra ci siano stati.
Per me il problema era quello di pensare a una forma di disobbedienza radicale, tale cioè da andare al nocciolo stesso della forma moderna di Stato. Non si trattava e non si tratta di disobbedire a una legge reputata ingiusta in nome di un’altra legge, di una legge più basilare o di una legge anteriore e più autorevole, come per esempio il dettato costituzionale. Questo naturalmente è possibile ma non è il nostro problema. Il nostro problema è corrodere quello stesso obbligo di obbedienza, ancora vuoto di contenuti, che precede le singole leggi e che sta alla base dell’istituzione dello Stato moderno. Come a dire: lo Stato si forma su un obbligo preventivo a obbedire alle leggi che verranno, quali che esse siano. È una sorta di obbligo preliminare che si tratta di mettere in questione. In sostanza la domanda fondamentale per ogni riflessione sulle istituzioni politiche è: perché bisogna obbedire? Se si risponde a questa domanda dicendo «perché lo impone la legge» ci si condanna a un regresso all’infinito, nel senso che è fin troppo facile – a quel punto – chiederci: «Perché bisogna obbedire alla legge? alla legge che impone l’obbedienza?» e così via, naturalmente… Su che cosa si può fondare l’obbedienza? Su un’altra legge ancora? Ma non c’è termine a questo pensiero, non c’è un punto d’arrivo.
Carlo Vercellone es uno de los principales referentes teóricos del capitalismo cognitivo y desarrolla sus actividades como economista en el laboratorio CNRS del Centro de Economía de la Sorbona (CES), Eje Instituciones. Capitalismo cognitivo, además de referir a un programa de investigación, es una categoría teórica y política que busca dar cuenta de las transformaciones recientes del capitalismo a la luz de los cambios sociales y tecnológicos que, desde los años setenta, han reconfigurado el funcionamiento del capitalismo industrial y que se encuentran en la base de la presente crisis del capital global.
1. Assoggettamento e soggettivazione: decentrare lo sguardo
Porre il problema del soggetto politico significa per noi porre il problema dell’assoggettamento e della soggettivazione. E cioè, spodestare il soggetto dalla sua posizione di fondamento – la posizione che esso mantiene nel discorso «umanista» o liberale – per collocarlo nell’immanenza dei processi che lo producono. Lo Stato e il capitale, nella modernità, sono le due potenze a cui questi processi fanno capo. L’impronta dell’assoggettamento, secondo la lezione di Michel Foucault, accompagna la fabbricazione della soggettività fin da quando una moltitudine riottosa alla disciplina del lavoro viene investita da un insieme di dispositivi di individuazione, per ricavarne soggetti compatibili con l’ordine sociale del capitalismo manifatturiero emergente. Ma questi processi sono accompagnati fin dal principio da pratiche di soggettivazione, che si producono ogniqualvolta la libertà eccede gli schemi pensati per imbrigliarla e obbliga il potere e reinvestirsi altrove, in altre tecnologie o in altri saperi, per recuperare, produttivamente, il controllo su ciò che, sempre di nuovo, gli sfugge. La tensione tra assoggettamento e soggettivazione si inscrive tanto nelle dinamiche e nei concetti politici fondamentali (dalla sovranità alla cittadinanza) quanto nel rapporto di capitale, marxianamente costituito dalla scissione tra forza lavoro e denaro. Criteri essenziali di organizzazione dei rapporti di dominio, quali il genere e la razza, operano su entrambi i terreni per distribuire i soggetti in posizioni asimmetriche. E sono tuttavia essi stessi continuamente rovesciati in basi materiali di processi di soggettivazione.
by Casper Hoedemækers, Bernadette Loacker and Michael Pedersen
In recent years a familiar mantra has been recited through media channels, government
reports and related sources, namely that of austerity. By now, the images of protest
movements of various stripes have been well-documented, which has given the Left a
renewed notion of opposition and resistance to a seemingly unperturbed neoliberal
encroachment on almost all areas of life (e.g. Bonefeld, 2012, this issue; also Hamann,
2009; Read, 2009).
Les enregistrements de la séance « Qu’est-ce que le commun ? » du 28 novembre 2012
Les enregistrements vidéos* de la séance « Qu’est-ce que le commun ? » avec Antonio Negri à l’occasion de la sortie de son ouvrage avec Michael Hardt Commonwealth dans le cadre du séminaire « Du public au commun » faits mercredi 28 novembre 2012 à la Maison des sciences économiques, Paris.
Shylock – My meaning in saying he is a good man is to have you understand me that he is sufficient.
William Shakespeare, Merchant of Venice, act I, sc. 3
In un’epoca di parallela crisi dello Stato sociale e dei dispositivi di governance, la coppia pubblico-privato ha quasi insensibilmente assunto un significato dipendente dal valore evocativo e simbolico dei due termini dell’endiade, più che dal reale rapporto tra le cose che le due parole designano. L’enfasi posta sul “privato”, amplificata dal campo semantico che comprende pratiche designate da termini quali “privatizzazione” e “privacy“, ha l’effetto di rimandare ipso facto a un’immagine mentale correlata al termine “pubblico”, che evoca l’elefantiasi dell’apparato statale, la burocratizzazione dei processi decisionali, l’inefficienza delle procedure, i costi elevati, l’oppressione fiscale: non a caso si è parlato, in anni recenti, di passaggio dal Welfare al Wolfare State. L’egemonia culturale esercitata per un trentennio dalle destre, a partire dalla new right thatcheriana e reaganiana, ha prodotto la fede nella ovvietà e naturalezza di un frame che, anche se declinato in termini di opposizione o di difesa dei beni e servizi da parte dei sostenitori del “pubblico”, evoca comunque in prima battuta la famiglia di metafore correlate al campo del “privato”; questo campo viene poi ribattuto dalla metafora del detentore della decisione nei due campi semantici. Seguendo l’intuizione di George Lakoff, per cui il messaggio politico si esemplifica nella metafora di un modello della figura paterna che in definitiva rimane impigliato nella coscienza neuronale,[1] è plausibile che la forza dei sostenitori del modello privato, nell’uso del frame pubblico/privato, sia nell’immagine del padre severo ma efficiente, che si rimbocca le maniche e prende le decisioni essenziali, contrapposto a quello del padre impiccione e moralista, che si immischia di ogni cosa e finisce con lo scontentare tutti i membri della famiglia.
Cocowork al teatro Valle occupato di Roma, da sabato 24 novembre alle ore 17 a domenica 25 novembre. Appunti su un vociare che mi rimbalza in testa da mesi, anni, dentro il confronto attivo con molte/i altre/i quintari-e intorno alle questioni del lavoro (e della possibile emancipazione da esso, si sarebbe detto in altri tempi…) in una perdurante epoca che vi vuole impoverite, saccheggiati, precarizzate, di fatto incapaci di pensarci altrimenti, dentro questo quadro depressivo che ci hanno costruito addosso.
Inutile insistere sulla ricchezza e l’efficacia della ricerca di Gerald Raunig. È, il suo, un passaggio che, assumendo l’orizzonte determinato dalla sussunzione reale della società nel capitale, l’assorbimento totalitario del valore d’uso nel valore di scambio, ci sospinge tuttavia oltre le tristi passioni della scuola di Francoforte, ci libera dalle letture di un “postmodernismo debole” ed irride a ogni figura lineare della sussunzione, foss’anche armata dall’ironia situazionista. La scrittura di Raunig si muove su quel terreno che si stende dai Mille plateaux di Deleuze-Guattari fino alle costituzioni del postoperaismo ed ivi produce modulazioni ricche ed articolate della critica del potere e inaugura nuove linee di fuga, diserzioni, dialettiche di nuovi mondi, riterritorializzazioni creative… È un controcanto questo a tutti quegli sviluppi del pensiero postmoderno (ed anche postoperaista) che coagulano linee di critica (altrimenti aperte) ed inclinano in maniera teoreticistica e rigida momenti di resistenza (altrimenti vivaci). È dunque un controcanto essenziale che ci rimette tutti con i piedi per terra.
Ma forse abbiamo bisogno anche di un controcanto “al quadrato”. Vale a dire che qui si riaprono problemi, e dalle conclusioni di Raunig consegue il bisogno di elaborare altre ipotesi pratiche, politiche, costruttive. È come una seconda volta: il libro di Raunig ci ha mostrato un “altro” mondo; al punto sul quale lui è arrivato, c’è dunque una nuova narrazione che va iniziata (per stare alla metafora kafkiana: una “nuova” Giuseppina che canta a un popolo di topi “riformato”). Già Leopardi, nella sua splendida Batrachomiomachia, aveva visto spostarsi e duplicarsi il mondo dei topi, pur dentro passioni eroiche e movimenti individuali. Qui invece, per Raunig, i movimenti sono molteplici, sono quelli della moltitudine e delle libere singolarità che la compongono. Dunque, qual è il problema, qui ricreato, al quale, per la seconda volta, un controcanto può corrispondere? È quello, dicevano Deleuze e Guattari, del superamento del ritornello, dell’alternativa del lisciare e dello scalfire lo spazio, del territorializzare e del deterritorializzare. Raunig – con Giuseppina – ci hanno ormai definitivamente portato sul terreno politico: hic Rodhus, hic salta. […]
Porto qui testimonianza di lunghe discussioni con Félix Guattari proprio a questo proposito: quale punto “macchinico” di interferenza produttiva, quale “nuovo” agencement può darsi, tale da costituire una funzione espressiva locale, una volta che ci si trovi di fronte a un campo di immanenza, moltiplicatore di segmenti e proliferante velocità intrattenibili? Era il periodo in cui i nostri due maestri stavano concludendo il lavoro su Kafka e la risposta, già data in quel saggio, era che quella macchina poteva essere localizzata solo dalla consistenza/coesistenza di quantità intensive. Il che – tradotto per quell’analfabeta che ero – significava afferrare, in quel campo d’immanenza che le lotte di classe formavano, le quantità intensive della tendenza materiale alla crisi del sistema capitalista. E, inoltre, quelle che costituivano il dispositivo del rifiuto operaio dello sfruttamento, delle energie rivoluzionarie (minoritarie, certo, ma si sa che ciò che è minoritario supplisce al numero con l’intensità) allora agenti e del desiderio comunista – più intenso, più alto, ma consistente sul luogo di crisi e di lotta. Un sorvolo potente che crea un “luogo”.
E un quindicennio più tardi, rispondendo a una mia domanda sulla specificità della lotta comunista di classe, Deleuze rispondeva che il sistema di linee di fuga che definisce il capitalismo, può essere afferrato e combattuto solo inventando e costruendo una “macchina da guerra”. Cioè determinando in tal modo uno spazio-tempo, un potere costituente e una capacità di resistenza, localizzate e creative di un “popolo a-venire”. Ancora un “luogo”, dunque, non statico ma creativo – come appunto questo “controcanto al quadrato” esige. Le azioni di Occupy e le acampadas degli indignados ci impegnano a lavorare sulla definizione di questa verticalità, di questa intensità, di questo luogo. Non è più una questione solo temporale. Benjamin ricorda che durante le rivolte del XIX secolo, gli operai ribelli sparavano sugli orologi delle piazze, denunciando nella misura temporale, la misura dello sfruttamento.
Oggi i lavoratori precari, ribellandosi, devono sparare sui calendari – che non danno la continuità ma la separazione dei tempi, una successione distinta di tempi diversi della valorizzazione – poiché il loro sfruttamento, la loro alienazione, sono soprattutto misurati dalla mobilità spaziale, dalla separazione dei luoghi di impiego, dalla contiguità locale della cooperazione e dalla diversità degli spazi che devono percorrere. Come i migranti, così i precari, cooperanti in rete, sempre alla ricerca di un luogo dove restare. Senza questo luogo sembra impossibile ribellarsi. È così, o è già segno di una nostra frustrazione, l’affermarlo? Comunque, è il problema stesso che ci riporta alla scoperta di un luogo, come Occupy ci ha portato a Zuccotti park, alla piazza della libertà. I movimenti vanno dunque riformati ritrovandoli in uno spazio – una verticalità li attraversa, localizzandoli e innalzandoli, con estrema intensità locale. […] Abbiamo camminato molto a lungo vivendo formidabili avventure: abbiamo bisogno di fermarci per un momento, su un luogo, perché solo su un luogo è possibile rinnovare continuamente il canto di Giuseppina.