Posted: Marzo 17th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, comune, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Walter Benjamin. Una costellazione che brilla di nuova luce
di Paolo B. Vernaglione
Giorgio Agamben, sprofondato per anni nello studio del pensiero e dell’opera di Walter Benjamin, porta alla luce il senso storico dell’opera dell’autore dei Passagen. In anni di ricerche, nel paziente lavoro archeologico di documentazione e restitutio in integrum del pensiero del più importante e necessario critico e teorico del materialismo, si dispiega una ragione costruttiva dell’intero testo vivente che costituisce l’opera di Benjamin. E’ il risultato di una scrupolosa e ahimè oggi non praticata documentazione e ricostruzione filologica dell’opera benjaminiana che ha condotto Agamben a ritrovare un significato eccedente ogni qualificazione del Benjamin “già edito”.
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Posted: Febbraio 14th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, philosophia, post-filosofia, vita quotidiana | 9 Comments »
di ANTONIO GNOLI
“ARRENDIAMOCI, NON POSSIAMO CONOSCERE LA REALTÀ”.
Parla il filosofo Carlo Sini mentre viene ripubblicata la sua opera che mette in discussione il pensiero occidentale.
Ho qualche dubbio che i filosofi – come si sente dire in giro – conoscano i
sentieri della felicità e ci accompagnino per mano lungo quegli ameni
percorsi. Ma un tale sospetto non deve indurre a gettarci tra le braccia dei
torturatori del concetto, dei paranoici del pensiero, attenti a che nulla
del reale sfugga alla loro occhiuta attenzione. La filosofia ha molto di
problematico, di sfuggente, soprattutto oggi in cui le certezze sono messe
in discussione alla radice. E a pensarlo, fra gli altri, con un percorso
molto originale, è Carlo Sini che sta per compiere 80 anni. Allievo di
Emanuele Barié ed Enzo Paci, per decenni professore di teoretica alla
cattedra di Milano, Sini sta pubblicando per Jaca Book la sua intera opera.
Dove ha sparso i suoi interessi: nel mondo antico, che è all’origine –
almeno in Occidente – del passaggio denso di conseguenze dall’oralità alla
scrittura; in quello moderno sovrastato da Spinoza ed Hegel e infine in
quello contemporaneo dal quale affiorano i nomi di Husserl, Peirce e
Wittgenstein.
«È un quadro veritiero, fatalmente approssimativo quello che lei riassume.
Ma in fondo l’ultima parola non è mai la nostra. Diceva Peirce: il
significato della mia vita è affidato agli altri».
Ma gli altri possono avere molti pregiudizi.
«Il che prova che la verità non è mai qualcosa di definitivo, siamo sempre
in errore. In cammino. Non a caso io parlo di “transito della verità”».
A nessuno piace l’errore. La filosofia greca e poi il cristianesimo ci hanno
insegnato a diffidare dell’errore e del peccato, suggerendo i modi per
evitarli.
«C’è in queste filosofie o visioni del mondo un’idea di perfezione che ha
provocato danni e fraintendimenti. E tutto ciò è nato dalla pretesa di
affidare alla scrittura il ruolo di cardine su cui l’Occidente ha fondato il
proprio sapere».
Prima i saperi si costituivano oralmente. Poi arriva la scrittura. Tutto
diventa più semplice. Perché diffidarne?
«Non è una diffidenza, ma la consapevolezza che l’introduzione della
scrittura modifica la nostra percezione del mondo. Il Logos, di cui parlano
i greci, non potrebbe sussistere senza la scrittura».
Perché?
«Per il semplice motivo che ogni scrittura ha un supporto che è fuori dal
corpo di chi parla. La scrittura – diversamente dall’oralità – ci pone di
fronte a un sapere oggettivo che va interpretato. Quando è la voce a
trasmettere il sapere, non c’è separazione o distanza tra ciò che diciamo e
il mondo che lo accoglie e di cui facciamo parte. Nella scrittura invece va
ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà con la scienza».
Questo è un passaggio ulteriore.
«È una continuità. Senza la scrittura alfabetica e matematica – che sono
scritture per tutti – non avremmo avuto l’universale e quindi la scienza.
L’universale – che i greci hanno chiamato Logos – ha determinato il corso
del sapere occidentale. È stata la nostra forza, la nostra potenza, ma anche
la nostra superstizione e il nostro equivoco».
Capisco la potenza, ma perché superstizione ed equivoco?
«Per la semplice ragione che sia la scienza che il senso comune pensano che
ci sia un mondo fuori di noi che possiamo conoscere».
Effettivamente è così: da un lato la realtà dall’altro noi che l’avviciniamo
e la conosciamo. Se vuole, molto rozzamente, siamo in una delle tante
versioni del realismo.
«Posizione ingenua. Perché o noi facciamo parte di quella realtà oppure è
illusorio pensare di conoscerla».
Eppure, se non riuscissi a distinguermi dalla realtà esterna, allo stesso
modo, non potrei conoscerla.
«Obiezione giusta. Nel senso che noi siamo parte della realtà pur
distinguendoci da essa. Siamo parte della verità ma non siamo la verità».
Un bel paradosso. Allora cosa siamo?
«Siamo nella differenza del sapere, o meglio siamo in ciò che chiamo
“l’essere in errore”. Verità ed errore sono in qualche modo due facce della
stessa medaglia ».
Anche la scienza partecipa della verità e dell’errore. Ne fa esperienza, nel
senso che corregge continuamente l’errore.
«Il lavoro della scienza è meraviglioso, va bene così, ne beneficiamo tutti.
Sarebbe insensato rifiutare la scoperta di una cura contro il cancro o
condannare
un treno perché copre distanze lunghe in tempi sempre più brevi. Altra cosa
è l’idea che gli scienziati per lo più si fanno del loro lavoro. Qui prevale
quello che Husserl chiamava il pregiudizio “naturalistico”. Ossia il
riferimento ingenuo e inconsistente a un misterioso mondo che è “là fuori” e
a un ancor più misterioso “qui dentro”».
Lei, insomma, mette in discussione il modo tradizionale di concepire il
dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto, la realtà e la coscienza. Dove
collocherebbe tutto ciò?
«Nella vita che si svolge e che si traduce negli innumerevoli archivi
dell’accaduto, i quali ricompongono di continuo il passato in nuovi archivi
e mappe per il futuro».
Vedo che usa la parola “archivio”. Immagino che non sia solo il deposito
delle conoscenze al quale attingiamo.
«È qualcosa di più strategico, è il modo di venire alla luce della verità
pubblica».
I filosofi hanno a volte il vizio di rispondere a una complicazione con una
complicazione ulteriore. Cos’è la verità pubblica?
«È quella, per esempio, che in questo momento io e lei pratichiamo in questa
conversazione».
Una conversazione che al lettore potrà apparire troppo tecnica.
«Un margine di oscurità è preferibile a insulse certezze. E poi distinguerei
tra competenza e sapere, anche se tra loro sono connessi. Una competenza
analitica la posso apprendere anche da un computer opportunamente
programmato; il sapere in senso complessivo non può invece fare a meno del
coinvolgimento delle emozioni corporee profonde. Si tratta di creare
un’intesa condivisa, cioè anche pubblica o comune».
Ciò che è pubblico è anche esposto al fraintendimento, al rumore mediatico,
al sentire massificato.
«Che cosa sia stato e sia nel profondo il “secolo della masse” –
l’espressione deriva da Sorel – è ancora una domanda attuale. Non abbiamo un
pensiero all’altezza del problema, io credo. Che cosa significa fare
politica, fare cultura, e quindi fare anche filosofia, in un tempo
globalizzato, massificato, mercificato e via dicendo, non l’ha chiaro
nessuno. La fiumana trascina le nostre antiche barche, ormai senza governo».
Appellarsi al passato o alla tradizione?
«Mi sembra evidente che la nostra grande tradizione storico-culturale si è
formata in società così differenti dall’attuale che la pretesa di travasare
in essa i nostri contenuti e i nostri stili di pensiero si rivela fatalmente
utopica».
Propone una variante della filosofia della crisi?
«No, ma occorre prendere atto della crisi se la si vuole affrontare. Direi
perciò che l’evidente crisi del modello capitalistico va in parallelo con la
crisi di ciò che un tempo si considerava alta cultura. Il liberalismo
politico e il liberalismo economico sono falliti nei loro propositi
esattamente come la scuola pubblica e l’universale alfabetizzazione. Non
possiamo rinunciarvi perché non conosciamo modelli più efficienti o più
realistici, ma non ne deriviamo affatto quel benessere per tutti e quella
diffusa formazione critica e liberatrice che erano attesi».
Suggerisce la rassegnazione?
«Suggerisco la consapevolezza. Ogni civiltà è destinata a tramontare: “Della
civiltà non rimarrà che un cumulo di macerie e di cenere, ma sopra le ceneri
aleggerà lo spirito”, lo ha detto Wittgenstein. Ci troviamo in mezzo a un
grande sommovimento che ci sovrasta e ci inquieta. Il nostro compito è
rimettere in gioco la verità. Disincagliarla dal dogmatismo. Non conosco
modo migliore per riprendersi il futuro».
Posted: Gennaio 3rd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, philosophia | 8 Comments »
di Eleonora de Conciliis
1. Le riflessioni che seguono non vogliono essere squisitamente filosofiche, né vagamente sociologiche, e neppure provocatoriamente politiche, ma, in senso foucaultiano, genealogiche. È stato infatti Michel Foucault ad aver fornito, in Sorvegliare e punire (1975), la più acuta ricerca genealogica sull’origine della prigione moderna, ed è nella sua produzione degli anni settanta che possiamo trovare ancor oggi spunti fecondi per analizzare le forme di vita criminali, le ‘vite degli uomini infami’ che proliferano nell’epoca contemporanea1. Tuttavia, per ragioni non solo espositive2, mi servirò inizialmente di una nozione proveniente dalla sociologia di Pierre Bourdieu, applicandola con una certa disinvoltura metodologica al mondo della criminalità organizzata: la nozione di campo.3
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Posted: Dicembre 13th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, philosophia | Commenti disabilitati su Benjamin
di Antonio Gnoli
“Era talmente povero da non potersi neppure permettere di comprare la carta.
Utilizzava qualunque foglio”. “Sfogliando delle lettere di Georges Bataille,
ne trovai una in cui lui citava alcune buste alla Bibliothèque di Parigi “.
Giorgio Agamben ha curato una raccolta di scritti dello studioso mai
pubblicati: “È una parte dei Passagen su Baudelaire più ampia di quella
conosciuta”.
Terribili dovettero essere gli ultimi anni di vita di Walter Benjamin. In
una sequenza di eventi negativi, tra il 1938 e il 1940, egli abitò a Parigi
nell´isolamento e nell´estrema povertà. Le sue giornate trascorrevano alla
Bibliothèque nationale, il solo luogo che gli garantiva la necessaria
concentrazione per portare avanti il suo progetto. Lavorava alla stesura di
un grande libro, tra le carte e i foglietti che maniacalmente appuntava. Poi
la situazione precipitò. E fu come cadere rovinosamente da un precipizio.
Nel giro di pochi mesi l´ebreo Benjamin intraprese una fuga che si concluse,
come è noto, con il suicidio a Port-Bou, nel settembre del 1940, sul confine
spagnolo. Si favoleggiò che insieme alle poche cose necessarie alla
sopravvivenza Benjamin si trascinasse una valigia con il manoscritto al
quale aveva febbrilmente lavorato. È molto probabile che quella valigia, che
si disse fosse andata perduta, sia solo una leggenda. E che la verità sia
un´altra. A raccontarcela è Giorgio Agamben che scoprì quelle carte, oggi
finalmente pubblicate da Neri Pozza.
Come arrivò a quella scoperta?
«Casualmente. In quel periodo, la fine degli anni Settanta, stavo lavorando
al ritrovamento delle ultime carte di Benjamin, compreso il famoso
manoscritto dei Pariser Passagen che si riteneva fosse andato perduto.
Quando un giorno, sfogliando delle lettere di Georges Bataille ne trovai una
in cui Bataille, scrivendo a un amico conservatore alla Bibliothèque
nationale, citava alcune buste contenenti dei manoscritti di Benjamin. In
margine alla lettera c´era un´annotazione del conservatore che indicava la
Bibliothèque nationale come il luogo in cui quei manoscritti si trovavano».
Cominciò così la caccia al tesoro?
«Fu una ricerca elettrizzante. Alla fine trovai i manoscritti in un armadio.
Li aveva lasciati in deposito la vedova di Bataille. Da notare che la
Bibliothèque non catalogava i lavori in deposito, per cui sarebbero potuti
rimanere sepolti lì ancora per decenni».
Cosa esattamente ha trovato?
«Tutto quello che poi è diventato questo libro che sarebbe dovuto uscire nel
1996. Ma tormentate vicende editoriali ne impedirono la pubblicazione».
A cosa allude?
«Alla decisione allora della casa editrice Einaudi di non pubblicarlo. Mi
chiesero delle cose assurde, per esempio di tagliare il libro perché
l´edizione intera avrebbe danneggiato il volume sui Passagen. Sarebbe stato
come chiedere a un dantista che scopre un nuovo manoscritto della Commedia
di non pubblicarlo perché altrimenti avrebbe danneggiato le precedenti
edizioni».
Passano quasi vent´anni. Nel frattempo scadono i diritti sulle opere di
Benjamin e il libro finalmente vede la luce con il titolo Baudelaire, un
poeta lirico nell´età del capitalismo avanzato. Perché è così importante e
cosa lo differenzia dai Passagen che Einaudi ha pubblicato con il titolo
Parigi, capitale del XIX?
«Benjamin, negli ultimi anni della sua vita, stava lavorando a un´opera
fondamentale. E in un primo momento quest´opera sono i Passagen di Parigi
che contengono un capitolo dedicato a Baudelaire. Man mano che va avanti, il
capitolo cresce al punto da soppiantare il lavoro precedente. Per cui il
“Baudelaire” da modello in miniatura diventa l´opera completa».
Ma allora il libro dei Passagen pubblicato da Einaudi che cosa è?
«È semplicemente il grande schedario organizzato da Benjamin. Tanto è vero
che il curatore delle opere di Benjamin, R. Tiedemann, messo da me al
corrente di questa scoperta, appose una nota nell´ultimo volume in cui dice
che se avesse conosciuto prima questi materiali si sarebbe potuta fare
un´edizione storico critica del libro su Baudelaire che avrebbe cambiato
molte cose. Quindi questa che ho curato è la prima edizione mondiale. So che
anche i tedeschi, sulla base del ritrovamento, ne faranno una».
Ma alla fine cosa aggiunge di sostanziale?
«Intanto, si entra con chiarezza nell´officina di Benjamin, nel suo modo di
lavorare. Che non è affatto neutro. Quando decide di spostare l´attenzione
su Baudelaire prende l´enorme schedario dei Passagen e lo riordina, lo mette
per così dire in movimento. È come se il materiale fin lì raccolto venisse
chiamato a nuova vita».
Si passa, lei scrive, dalla documentazione alla costruzione del testo.
«Che non è un passaggio inerte, passivo, esoterico. Ma un modo per tessere
la connessione tra i suoi concetti fondamentali: “aura”, “allegoria”,
“merce”, “prostituzione”, eccetera. Fino a ieri si pensava che le Tesi sul
concetto della storia fossero l´ultimo lavoro di Benjamin. In realtà, quelle
“Tesi” – come lui ci mostra – sono soltanto l´apparato teorico di una
sezione del libro su Baudelaire. È chiaro che cambia la prospettiva. In un
frammento annota: bisogna costruire l´oggetto come monade».
Un´affermazione enigmatica.
«Si riferisce alle monadi di Leibniz. Le quali è vero che non hanno
finestre, ma non ce l´hanno in quanto esse stesse rappresentano l´universo.
Lo contengono. Quindi, gli oggetti cui si riferisce Benjamin sono quelli
dove già è riflessa la costruzione dell´intero».
Lavorare sul piccolo, sul trascurabile, per scoprire il grande. Era questo
il suo principio micrologico?
«Sì. Lei dice “trascurabile” e questa parola rimanda all´altro principio che
lo orienta: lavorare sugli stracci, sui rifiuti, sulle categorie secondarie
e spesso nascoste. Non a caso sceglie i passages parigini che a quell´epoca,
dal punto di vista architettonico, erano considerati un oggetto assurdo che
non interessava a nessuno, salvo ai surrealisti che li riscoprivano come
oggetto strano».
Benjamin insomma scende in un sottosuolo che quasi nessuno conosce.
«A un certo punto, per definire il proprio lavoro, Freud dice che se non
potrà muovere gli dei muoverà l´acheronte, ossia l´inferno. Anche quello di
Benjamin è un principio acherontico. Egli non indaga le grandi categorie, i
grandi concetti su cui si sono soffermati gli storici della cultura, smuove
gli inferi della Parigi del XIX secolo. Legge la storia a contropelo».
E Baudelaire è il “Virgilio” che lo condurrà nel suo inferno?
«Assolutamente. Per lui Baudelaire è il poeta che di colpo si accorge che
tutto è cambiato, che ogni cosa ha a che fare con il mercato e la merce. È
il teorico del moderno, ma il moderno è anche l´arcaico».
Sembra un modo di lavorare di altri tempi quello di Benjamin di annotare
tutto su dei foglietti.
«Era una necessità. In quegli anni era talmente povero da non potersi
neppure permettere di comprare la carta. Utilizzava qualunque foglio: dal
rovescio delle lettere che gli spedivano ai blocchetti di carta della San
Pellegrino che prendeva nei bar».
Come si manteneva?
«Con i pochi soldi che gli spedivano Adorno e l´Institut für
Sozialforschung. Si angosciò quando seppe che glieli avrebbero ridotti».
Quanto furono fondamentali i rapporti con Adorno e Horkheimer?
«Meno di quanto si pensi. C´è un episodio rivelatore. Qualche anno fa uscì
dagli archivi dell´università, a cui Benjamin si era rivolto per ottenere
l´abilitazione, la scheda che motivava il rifiuto. Benjamin aveva presentato
come lavoro Le origini del dramma barocco. Il professore che esaminò il
testo confessò di non averci capito nulla, perciò chiese il parere del suo
giovane assistente, che era Max Horkheimer, il quale redasse una nota –
firmata – in cui bocciava Benjamin. Quell´atto cambiò radicalmente la sua
vita. Non so se in bene o in male. Ma gliela rese durissima».
Posted: Settembre 15th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, philosophia | Commenti disabilitati su Damasio
Antonio Damasio, Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente
di Giovanni Coppolino Billè
Gli interrogativi basilari del campo delle neuroscienze, a cui Damasio tenta di rispondere con le sue ipotesi in questo nuovo libro, sono sostanzialmente due: come fa il cervello a costruire una mente? E come fa il cervello a dotare quella mente di coscienza?
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Posted: Settembre 1st, 2012 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, crisi sistemica, philosophia, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo, Révolution | Commenti disabilitati su Intervista ad Agamben
Amo Scicli e Guccione
Peppe Savà intervista Giorgio Agamben
E’ uno dei più grandi filosofi viventi. Amico di Pasolini e di Heidegger, Giorgio Agamben è stato definito dal Times e da Le Monde una delle dieci teste pensanti più importanti al mondo. Per il secondo anno consecutivo ha trascorso un lungo periodo di vacanza a Scicli, concedendo una intervista a Peppe Savà
Il governo Monti invoca la crisi e lo stato di necessità, e sembra essere la sola via di uscita sia dalla catastrofe finanziaria che dalle forme indecenti che il potere aveva assunto in Italia; la chiamata di Monti era la sola via di uscita o potrebbe piuttosto fornire il pretesto per imporre una seria limitazione alle libertà democratiche?
“Crisi” e “economia” non sono oggi usati come concetti, ma come parole d’ordine, che servono a imporre e a far accettare delle misure e delle restrizioni che la gente non ha alcun motivo di accettare. “Crisi” significa oggi soltanto “devi obbedire!”. Credo che sia evidente per tutti che la cosiddetta “crisi” dura ormai da decenni e non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo nel nostro tempo. Ed è un funzionamento che non ha nulla di razionale.
Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro.
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Posted: Luglio 7th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: philosophia | 3 Comments »
Violenza divina, se necessario
di Luisa Muraro
“La questione maggiore che pone la duplice scritta è, chiaramente, che si predichi la violenza di Dio”
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Posted: Luglio 5th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, philosophia, Révolution | 8 Comments »
di Augusto Illuminati
Nella grande tradizione teologica mediterranea del monoteismo che, con varie commistioni neo-platoniche, va da Filone d’Alessandria allo Pseudo-Dionigi, dagli gnostici al sufismo e all’illuminazionismo iranico, da Agostino e Tommaso a Meister Eckhart, abbondano i paradossi che vertono intorno a due punti chiave: la creazione che responsabilizza il creatore del male e dell’uso peccaminoso del libero arbitrio, il trovarsi Dio al di qua dell’essere e della forma, dunque in una luminosissima caligine che solo una totale e remissiva ignoranza può penetrare. Ne offrirà una buona sintesi, al di là dell’Atlantico, Philip K. Dick nella trilogia Valis. Per quanto prediligesse le anfetamine, l’autore finiva per suggerire l’incarnazione della compassionevole Sapienza nel fungo allucinogeno anokhi. Solo che non si trova soltanto nel deserto del Mar Morto, ma è diffuso – questo è il tratto geniale della conclusione – nei luoghi più impensati.
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Posted: Giugno 6th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: philosophia | Commenti disabilitati su Vattimo: Heidegger, nazismo e filosofia
Heidegger, maestro nazista
«Attaccato da tutti, ha ispirato la filosofia europea».
Lettera43, 9 maggio 2012. Intervista di Bruno Giurato
Ogni volta che si nomina il professore «agreste e boschivo» torna puntuale come un orologio al plutonio la polemica, o meglio l’etichetta di «nazista». È il destino di Martin Heidegger, probabilmente il pensatore più influente del 900, almeno per quanto riguarda il lato continentale della filosofia.
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