Posted: Gennaio 9th, 2014 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, epistemes & società, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo | Commenti disabilitati su La crisi delle identità politiche: reinventarsi o morire
di GIGI ROGGERO
“Oggi è il 10 gennaio 1610. L’umanità scrive nel suo diario: abolito il cielo.”
“Galileo: Quelli che vedono il pane solo quand’è sulla tavola, non vogliono sapere come è stato cotto. Quelle canaglie preferiscono ringraziar Dio piuttosto che il fornaio! Ma quelli che, il pane, lo fanno, quelli sapranno capire che non si muove niente che non venga messo in movimento.
Ludovico: Rimarrete in eterno schiavo delle vostre passioni.”
B. Brecht, VITA DI GALILEO
Chi sono i populisti? Protagonisti di una nobile tradizione rivoluzionaria che nella seconda metà dell’Ottocento ha cercato di rovesciare lo zarismo (facendo anche fuori l’odiato Alessandro II), erano intellettuali radicali che andavano al popolo, di cui esaltavano forme di vita in via di sparizione o profonda mutazione (innanzitutto la piccola comunità contadina, l’obščina). Mitizzato, il popolo finiva così spesso per divenire astratto e disincarnato: l’unico soggetto concreto del populismo era così lo stesso intellettuale rivoluzionario. In questa sede, tuttavia, non ci interessa una ricostruzione storiografica o etimologica del termine, quanto invece un punto politico pregno di attualità: ci sono categorie (populismo è una di queste, non certo l’unica) di cui si continua a fare ampio uso per una sorta di coazione a ripetere, di pigrizia concettuale, di paura di perdere le proprie sicurezze. Sarebbe ora di superare questi tic nervosi e di mandare definitivamente in pensione il dottor Stranamore che alberga dentro di noi. Sarebbe ora, cioè, di rendersi conto che se non servono più a interpretare e soprattutto a trasformare la realtà, queste categorie vanno buttate via o reinventate completamente. Questo è per noi il principio fondamentale di un realismo materialista, che nulla ha a che vedere con la realpolitik sempre in odore di opportunismo.
Se abbiamo cominciato dal populismo, un motivo evidentemente c’è: negli ultimi vent’anni l’etichetta è una sorta di inappellabile sentenza di condanna che ha colpito in modo trasversale, il cui uso – subalterno all’ordine del discorso dominante – si è impennato con lo sviluppo della crisi. Se poi ai soggetti astratti esaltati dai populisti russi dessimo un nome diverso, scegliendolo nell’ampio repertorio concettuale utilizzato negli ultimi anni per identificare gli auspicati soggetti o gli spazi delle lotte contemporanee, il campo definitorio si rovescerebbe in modo sorprendente. Qui il problema, però, è che non serve a nulla bollare di populismo chi oggi tenta di comprendere condizioni di vita e comportamenti soggettivi delle figure del lavoro vivo contemporaneo, a costo di immergersi nelle sue espressioni bastarde, di navigare su ambigue frontiere, di provare a orientarsi e agire dentro movimenti impuri e perfino cosparsi di melma. La semplice domanda che poniamo è: esiste un’alternativa al rischio di insozzarsi? Se l’alternativa è il rifugio nel cielo di dubbie certezze identitarie e di lessici del già noto, quelli che scaldano i nostri cuori e consegnano alla marginalità politica, preferiamo il pericolo – duramente terreno – della sporcizia ideologica.
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Posted: Gennaio 1st, 2014 | Author: agaragar | Filed under: 99%, BCE, bio, comune, comunismo, crisi sistemica, epistemes & società, Marx oltre Marx, postoperaismo, Révolution | Commenti disabilitati su Rompere l’incanto neoliberale: Europa, terreno di lotta
di SANDRO MEZZADRA e TONI NEGRI.
Chi come noi non ha interessi elettorali è nella migliore posizione per riconoscere la grande importanza che avranno, nel 2014, le elezioni per il parlamento europeo. E’ facile prevedere, nella maggior parte dei Paesi interessati, un elevato astensionismo e una significativa affermazione di forze “euroscettiche”, unite dalla retorica del ritorno alla “sovranità nazionale”, dall’ostilità all’euro e ai “tecnocrati di Bruxelles”. Non sono buone cose, per noi. Siamo da tempo convinti che l’Europa ci sia, che tanto sotto il profilo normativo quanto sotto quello dell’azione governamentale e capitalistica l’integrazione abbia ormai varcato la soglia dell’irreversibilità. Nella crisi, un generale riallineamento dei poteri – attorno alla centralità della BCE e a quel che viene definito “federalismo esecutivo” – ha certo modificato la direzione del processo di integrazione, ma non ne ha posto in discussione la continuità. La stessa moneta unica appare oggi consolidata dalla prospettiva dell’Unione bancaria: contestare la violenza con cui essa esprime il comando capitalistico è necessario, immaginare un ritorno alle monete nazionali significa non capire qual è oggi il terreno su cui si gioca lo scontro di classe. Certo, l’Europa oggi è un’“Europa tedesca”, la sua geografia economica e politica si va riorganizzando attorno a precisi rapporti di forza e di dipendenza che si riflettono anche a livello monetario. Ma solo l’incanto neoliberale induce a scambiare l’irreversibilità del processo di integrazione con l’impossibilità di modificarne i contenuti e le direzioni, di far agire dentro lo spazio europeo la forza e la ricchezza di una nuova ipotesi costituente. Rompere questo incanto, che in Italia è come moltiplicato dalla vera e propria dittatura costituzionale sotto cui stiamo vivendo, significa oggi riscoprire lo spazio europeo come spazio di lotta, di sperimentazione e di invenzione politica. Come terreno sul quale la nuova composizione sociale dei lavoratori e dei poveri aprirà, eventualmente, una prospettiva di organizzazione politica. Certo, lottando sul terreno europeo, essa avrà la possibilità di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalistica. E’ ormai solo sul terreno europeo che possono porsi la questione del salario come quella del reddito, la definizione dei diritti come quella delle dimensioni del welfare, il tema delle trasformazioni costituzionali interne ai singoli paesi come la questione costituente europea. Oggi, fuori da questo terreno, non si dà realismo politico.
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Posted: Dicembre 30th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: Archivio, au-delà, bio, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, post-filosofia | 7 Comments »
Alias – di Beatrice Andreose, 13.9.2013
Festival della filosofia. Mario Galzigna nel suo libro lancia la provocazione di unire l’empirico e il concettuale. Al pensiero in rivolta affida il compito di contrapporre “i futuri possibili”
Dal pensiero in rivolta alle trame di futuro attraverso una sovversione diffusa. Talvolta, le rivolte del pensiero, intersecano il “movimento reale”, talvolta sono disseminate,disperse, molecolari. Costituiscono sempre una prospettiva libertaria, lontana da discipline e potere, che Mario Galzigna ‚docente di Etnopsichiatria e Storia della cultura scientifica a Ca’ Foscari, ritrova in numerosi artisti ed in insospettabili opere. In Costruzione di un edificio del pittore fiorentino Pietro Cosimo, ad esempio. Un quadro “intrigante ed enigmatico” scelto come immagine di copertina del suo ultimo libro “Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo” Bollati Boringhieri. Nel quadro, sottolinea Galzigna, il concetto di edificio e l’ideale rinascimentale di costruzione convivono. Scelte tematiche e formali dell’artista che ignora i riferimenti mitologici e religiosi della sua epoca per lasciar spazio ad un progetto“ che dischiude il tempo della civilizzazione a un futuro possibile”. Apre il presente “ su scenari futuribili,dove progettazione e utopia diventano contenuti dinamici della temporalità”. Libro densissimo, prosa elegante, in prefazione Mario Galzigna risponde alla provocazione di Foucault( di cui è stato tra i più fedeli allievi italiani assieme ad Alessandro Fontana), avviando una approfondita riflessione sul pensiero che rompe le gabbie della testualità, irrompe col vissuto nella scena del mondo, intacca “alle radici la sovranità e l’autosufficienza del concetto”. Si tratta di un pensiero in cui le categorie astratte trovano nell’esperienza la loro fonte di legittimazione “ Così si unisce ciò che la filosofia ha sempre tenuto distinto: la vita ed il pensiero, l’empirico ed il concettuale”scrive.
“Disperanza” è il neologismo che Galzigna conia per indicare, la sottrazione di futuro che affligge il nostro tempo schiacciato “sul deserto di un eterno presente”. Al pensiero in rivolta-e ai movimenti di rivolta– affida il compito di contrapporre” i futuri possibili”. Si tratta di “ un compito politico. Un compito filosofico. Un nuovo orizzonte di senso per il pensiero. Più modestamente, without vanity, una nuova prospettiva del nostro impegno intellettuale e della nostra ricerca”.
Poiché, per dirla con Foucault, il carattere specifico del potere è di essere repressivo e di reprimere con una particolare attenzione le energie inutili, le intensità dei piaceri ed i comportamenti irregolari, il pensiero insorgente e spaesante pur essendo risultato spesso minoritario nella storia del pensiero occidentale, è tuttavia egualmente fecondo e potente. Galzigna ritesse e incrocia tra loro invenzioni concettuali e forme estetiche di insorti d’eccezione, alcuni border line, altri psicotici, tutti geniali: da Ronald Laing, uno dei grandi padri dell’antipsichiatria europea, al pittore Renè Magritte, dall’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro al libertino Diderot. Ma prima di addentrarci nel volume, una premessa sulla scrittura. L’autore utilizza un suggestivo registro narrativo che rompe le divisioni tra saggio e racconto, rispondendo così ad una esigenza interiore di afferrare l’evento in modo pregnante “restituendogli la sua irriducibile specificità”. Al saggio alterna il racconto. Con quest’ultima forma scrive delle sue esperienze all’interno di due Servizi di Salute Mentale in contesti psichiatrici, e di quella vissuta in Brasile tra gli indios Guaranì a proposito dei quali riutilizza i concetti di sintesi disgiuntiva e disgiunzione creativa.
In quanto alla psichiatria , lo spunto è dunque un caso concreto. Galzigna cita Roland Laing, psichiatra non istituzionale,e parla di una seduta dove ad elaborare risposte non è stato un singolo ma un collettivo, un gruppo che pensa, che produce pensiero. “ Un pensiero in rivolta esce da se stesso. Contraddice se stesso. Si rivolge al mondo, corrode i dispositivi a cui appartiene: rompe abitudini consolidate, destabilizza scenari rassicuranti ed immobili, smascherando lucidamente l’arbitrio e la violenza delle relazioni di potere che lo includono. Abitato dal fervore dell’istante, dalla temibile urgenza del divenire, dall’inquietudine del molteplice, un pensiero in rivolta contrasta l’egemonia dell’uno e la tirannia dell’identico”. A proposito di follia Galzigna parte da Foucault e parla di Esquirol che per la prima volta pschiatrizza le passioni e l’erotismo. In un passaggio di grande effetto dialettico richiama la necessità di legare assieme i saperi, i comportamenti, i modi di vita. “Per farlo occorre descrivere, classificare, mettere a fuoco la trama delle connessioni,il ventaglio delle differenze, lo spettro delle analogie, il gioco delle somiglianze”.
Da pensiero insorgente ad altro pensiero insorgente: intrigante il capitolo dedicato all’amato Antonin Artaud ed il suo teatro della crudeltà. Artaud cancella la scena desiderando “l’impossibilità del teatro” e decretando così la fine di una duplice tirannia: quella del testo e quella dell’autore-creatore. Lo scrittore fugge dalla psicoanalisi, da cui si sente violentato, nonostante si sottoponga nel 1927 a dieci sedute col dottor Renè Allendy che aveva già seguito Anais Nin. Nel suo teatro la parola rompe col mondo della rappresentazione classica e con i valori della cultura occidentale che essa esprime. Diventa così la Parola che sta prima delle parole”: un linguaggio sonoro, scrittura vocale che precede la nascita del senso, che deve essere detta e recitata, più che riprodotta e trasmessa. Che rappresenta la potenza sonora del linguaggio, la sua forza espansiva, la sua prossimità al grido”. In una lettera a Gide, Artaud scrive “I gesti equivarranno a dei segni, i segni varranno delle parole”. Nel suo attraversamento disperato della follia, documentata dalla tremila pagine dei Cahiers de Rodez, Artaud cancella la cesura radicale tra anima e corpo, parola e esistenza, testo e carne e scorpora la parola dall’insieme a cui appartiene originariamente. Così come nella sua pittura che diventa pittogramma.
Nel capitolo dedicato ai libertini Galzigna descrive due visioni antagoniste dell’erotismo fiorite entrambe nel ‘700. Da una parte l’erotismo di Sade che separa il piacere dagli affetti. Dall’altro quello giocoso e affettivo del grande Diderot passando per Restif “ Una problematica di grande attualità che andrebbe ancora oggi ripensata” spiega. Infine il mistero nella pittura di Renè Magritte che nel suo L’impero delle luci reinventa il concetto di sintesi disgiuntiva e creativa. “Un chiaro di luna a mezzogiorno” o “ sogno a mezzogiorno”, come lo definisce lo stesso pittore in una lettera scritta a Scutenaire nel novembre del 1959. Una violazione dei luoghi comuni, del nostro immaginario collettivo, ovvero un paesaggio notturno e un cielo in pieno giorno che mette assieme in una stessa composizione, pur mantenendole distinte, due dimensioni antagoniste:luce e buio, giorno e notte. Ed a proposito di sintesi disgiuntive ecco l’affondo letterario dedicato agli amati Guaranì, un popolo oggetto di genocidio, che Galzigna incontra nell’ottobre 2012, durante un suo soggiorno in Brasile “terra dei contrasti”. Conquistato dalla lingua del cacique , vero e proprio capo spirituale, Galzigna spiega la loro politica anticolonialista vista come una politica di decolonizzazione del pensiero. Perché, come scrive poco prima di morire un altro grande rivoltoso molto caro a Galzigna, l’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro, “è meglio sbagliare ed esplodere che prepararsi per il nulla”.
Posted: Dicembre 19th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comunismo, critica dell'economia politica, epistemes & società, Marx oltre Marx, Révolution, vita quotidiana | 8 Comments »
Intervista a STEPHEN SHAPIRO – di EMANUELE LEONARDI
Attualmente stai lavorando – da una prospettiva marxiana – su nozioni quali forza lavoro fissa e materialismo culturale. Potresti spiegare quali sono i caratteri centrali di questi concetti? Come si connettono con il sistema educativo e con il ruolo sempre più cruciale giocato dalla conoscenza nel contesto dei processi di produzione contemporanei?
Il materialismo culturale è lo studio della relazione tra esperienza sociale, in quanto storicamente messa in forma dall’organizzazione della produzione, ed espressione culturale, sia essa testuale, visuale, sonora o comportamentale. Il materialismo culturale, profondamente legato alla figura di Raymond Williams (1921-1988), si propone in generale di andare oltre le inutili rigidità della dicotomia tra struttura e sovrastruttura o della teoria del riflesso culturale, avversata pure da Engels.
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Posted: Dicembre 6th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, comunismo, critica dell'economia politica, Marx oltre Marx, post-filosofia, postoperaismo, Révolution | Commenti disabilitati su Conversazione con Antonio Negri
A mo’ di introduzione alla nuova edizione di “Fabbriche del soggetto”
di MIMMO SERSANTE
Mimmo Sersante – Il libro raccoglie testi scritti tra il 1981 e il 1986, gli anni forse più duri della tua vita di militante comunista ma anche più produttivi dal punto di vista della ricerca filosofica. Mi riferisco all’incontro con Spinoza e la filosofia poststrutturalista francese. Sono anche gli anni della rivoluzione neoliberista e della crisi irreversibile delle politiche keynesiane in tutto l’occidente capitalistico. L’Italia non fa eccezione. Da noi anzi la sconfitta fu più lacerante se pensiamo all’ottimismo alimentato per vent’anni dalle lotte autonome degli operai e degli studenti. Ci sono pagine in questo libro di esplicita autocritica sui limiti della ricerca, tua e di molti tuoi compagni, condotta durante gli anni Settanta sul tema del soggetto.
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Posted: Dicembre 3rd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, bio, comune, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | Commenti disabilitati su IL FURTO LIBERALE
in ALIAS – 30 novembre 2013
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presentazione editoriale
Posted: Novembre 10th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, Archivio, bio, comune, critica dell'economia politica, epistemes & società, Marx oltre Marx, postoperaismo, Révolution | Commenti disabilitati su NEL CERVELLO DELLA CRISI
Nel cervello della crisi. La «storia militante» di Sergio Bologna tra passato e presente
di Damiano Palano
Proprio quarant’anni fa, mentre esplodeva la prima crisi dell’economia post-bellica, a Milano veniva dato alle stampe il primo numero di «Primo maggio», una delle riviste più importanti nella storia dell’«operaismo italiano». Quella rivista aveva il proprio punto di riferimento in Sergio Bologna, attorno al quale si erano raccolti alcuni giovani storici provenienti da differenti esperienze politiche della sinistra extra-parlamentare, ma vicini all’istanza di quella che veniva definita come una «storia militante». Da qualche anno il ricchissimo Dvd che accompagna un volume curato da Cesare Bermani su quell’esperienza (La rivista «Primo maggio» (1973-1989), Derive Approdi, Roma, 2010) ha rimesso in circolazione tutti i ventinove numeri della rivista, insieme ad alcuni rari documenti complementari. D’altronde, nel lavoro di riscoperta dei classici dell’operaismo italiano promosso in questi ultimi anni da editori come Derive Approdi e Ombre corte, «Primo maggio» non poteva davvero essere dimenticata. Non solo perché, a causa di tormentate vicende editoriali, i fascicoli della rivista erano diventati ben presto introvabili, scomparendo così (quasi totalmente) anche dallo sguardo delle nuove generazioni e da ciò che rimaneva della ricerca critica sulle trasformazioni sociali. Ma soprattutto perché quella rivista – capace di resistere per un quindicennio, oltrepassando anche la soglia fatale del 1980 – seppe proporre al dibattito teorico e politico degli anni Settanta intuizioni preziose, in grado di sfuggire anche alle inevitabili semplificazioni e scorciatoie di una discussione segnata costantemente dall’urgenza. In effetti, scorrendo oggi le pagine dei ventinove numeri di «Primo maggio», ciò che emerge – insieme a qualche scontato segno del tempo, marcato soprattutto a livello lessicale (perché il lessico politico-teorico di allora era abissalmente distante da quello di oggi, tanto da risultare talvolta persino indecifrabile a un lettore contemporaneo) – è il quadro di un’esperienza capace di proporre ipotesi originali e di individuare con lungimiranza i sentieri che la ristrutturazione produttiva avrebbe imboccato negli anni seguenti.
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Posted: Ottobre 31st, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, au-delà, bio, comune, comunismo, critica dell'economia politica, Marx oltre Marx, postoperaismo | 54 Comments »
di TONI NEGRI.1
1. È nel secondo dopo guerra che si afferma l’intuizione di Pollock – elaborata nell’epoca weimariana – che il mercato capitalista non possa essere considerato in maniera semplicista e retorica come libertà (se non addirittura anarchia) di circolazione e realizzazione del valore delle merci bensì al contrario e fondamentalmente come unità di comando sul livello sociale, come “pianificazione”. Questo concetto socialista, aborrito dal pensiero economico capitalista, rientrava gloriosamente fra le categorie della scienza economica. Il concetto di “capitale sociale” (e cioè di un capitale unificato nella sua estensione sociale, dentro e al di sopra del mercato ed inteso come dispositivo di garanzia del funzionamento del mercato stesso), insomma come sigla di una effettiva direzione capitalista della società, viene sempre più largamente sviluppato.
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Posted: Ottobre 31st, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, epistemes & società, Marx oltre Marx, situationism | Commenti disabilitati su CONTRO IL DENARO
di Aldo Meccariello
Anselm Jappe
Contro il denaro
Mimesis, Milano-Udine 2013,
pp.62, € 4,90
ISBN 978-88-5751-161-0
E se il vero azzardo fosse quello di scommettere sulla scomparsa del denaro, che cosa ne sarebbe del capitalismo? E che cosa ne sarebbe di noi che «ci siamo consegnati, piedi e mani legate, al denaro»? Come saranno le nostre vite dopo un crollo su vasta scala delle banche e delle finanze pubbliche? Domande provocatorie, come è provocatorio il titolo di questo agile volumetto, che raccoglie tre lucidi e sferzanti articoli di Anselm Jappe, allievo di Mario Perniola e professore di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Frosinone. Nel primo articolo, Il denaro è diventato obsoleto?, l’Autore descrive un raccapricciante scenario distopico che potrebbe stimolare l’immaginazione di un regista di film catastrofici. Senza il denaro, che è il nostro feticcio, senza «questa divinità che noi stessi abbiamo creato dal quale crediamo di dipendere e al quale siamo pronti a sacrificare tutto pur di placare le sue ire» (p. 11), ci saranno magazzini pieni ma senza clienti, fabbriche in grado di funzionare ma senza operai e maestranze, scuole in cui i professori non si presenteranno più, perché privi di salario da mesi, le campagne senza contadini, uffici senza più impiegati: saremmo di fronte all’incantesimo di un nuovo Medioevo «che separa gli uomini dai loro prodotti» (p. 8). Con il susseguirsi di crisi finanziarie peggiori di quelle del 2008, saremmo dinanzi alla fase terminale del capitalismo che implode insieme a quel mediatore universale che Marx chiamava il denaro. In effetti, questo scenario non è così surreale perché – sostiene Jappe – il denaro si sta rarefacendo sia dal punto di vista materiale (deflazione) sia da quello del valore (inflazione), ma senza di esso «che fa circolare le cose, noi siamo come un corpo senza sangue» (p. 10). Ma «se le banche sprofondano, se falliscono a catena, se cessano di distribuire denaro, noi tutti rischiamo di sprofondare con loro» (p. 12), perché un’economia senza questa interfaccia che è il denaro è, al momento, un salto nell’ignoto che sgomenta.
Anche il lavoro si sta dissolvendo in questa specie di tableau apocalittico: è questo il tema del secondo articolo, ancora più radicale del primo, che ha per titolo Lavoro astratto o lavoro immateriale?.Jappe propone al lettore un excursus critico e stringente delle categorie marxiane di valore, merce, denaro e lavoro astratto per spiazzare i teorici e i corifeidel cosiddetto capitalismo cognitivo che identificano in maniera grossolana «‘il lavoro immateriale’ con ‘il lavoro astratto’ di cui parla Marx» (p. 25). Il lavoratore postfordista non è al di là della logica capitalista, e il fatto che metta in gioco il suo capitale cognitivo non gli impedisce di essere la figura più moderna e aggiornata del marxismo tradizionale. Lo spostamento di focus dal materiale all’immateriale non ha significato un cambiamento o una rottura delle analisi classiche dei rapporti di produzione, anche se l’esplosione del terziario prima e della società dell’informazione poi ha reso sempre meno produttivo, in termini puramente capitalistici, il lavoro. Il paradosso risiede nel fatto che è proprio la società del lavoro ad abolire il lavoro. La sostituzione del lavoro con la tecnologia e la conseguente disoccupazione potrebbero in sé essere un fattore positivo: in una società razionale, le tecnologie permetterebbero a tutti di lavorare molto di meno, e ciò sarebbe un bene. Invece la società capitalista non si interessa all’utilità o meno, ma alla sola produzione del “valore”: chi non ha un lavoro viene tagliato fuori dalla società. Ma quando la crisi del capitalismo raggiungerà il suo apice, almeno la metà della popolazione globale diventerà superflua. Da tale punto di vista il capitalismo – osserva Jappe – vive uno stadio terminale, e «non fa altro che rinviare il redde rationem tramite la finanziarizzazione. Infatti, nessun modello nuovo di accumulazione è più venuto: si sono solo simulati dei profitti» (p. 32). La crescita esplosiva del capitale finanziario aumenta la volatilità dei mercati e la progressiva abolizione del denaro; in tale ottica i mezzi di creazione del profitto divengono meramente finanziari, provocando il collasso delle politiche occupazionali la cui stagnazione o retrocessione porta indirettamente alla precarizzazione o alla crisi del lavoro.
All’apparenza, quelle di Jappe sembrano provocazioni intellettuali e analisi iperboliche, ma ad una riflessione più attenta sono tesi nuove ed originali che però sfuggono all’interno del dibattito della sinistra italiana, rassegnata da sempre all’eternità del capitalismo e delle sue categorie. Il ragionamento dell’Autore continua serrato anche nel terzo saggio che chiude il volumetto, intitolato Credito a morte. La storiella che la finanza sia la sola responsabile della crisi mentre l’economia reale sarebbe buona e sana non regge più perché la crisi che stiamo vivendo non è l’occasione di un miglioramento del capitalismo «come motore di un nuovo regime» di accumulazione e produttore di impiego» (p. 42), ma semplicemente il suo colpo di coda, la sua agonia. È mera illusione pensare che tutta la responsabilità sia attribuibile all’avidità di gruppi di speculatori o di multinazionali ingorde per favorire invece «un ritorno al capitalismo “saggio”, perché “regolato” e sottomesso alla “politica”» (p. 44). La tesi ovvia e spiazzante di Jappe che ilcapitalismo non è eterno e pertanto può crollare per i limiti interni al proprio sviluppo è una tesi che meriterebbe di essere approfondita e discussa in ben altri luoghi istituzionali e in organismi internazionali dove si decide l’assetto economico del mondo. L’intero sistema per ora tiene perché si basa essenzialmente sul credito, ma non può durare. I dati certi con cui fare i conti sono l’esaurimento delle risorse, i cambiamenti irreversibili del clima, l’estinzione delle specie naturali e dei paesaggi, l’avanzare impetuoso delle tecnologie che sostituiscono il lavoro vivo. Perfino gli antagonismi storici (operai e capitale, lavoro e denaro) «rischiano di scomparire insieme, avvinti nella loro agonia» (p. 61). Come uscirne? È la bella domanda che non può trovare risposte a meno che non si ricorra, come suggerisce Jappe, alla contemplazione di un quadro di Paul Klee, Finalmente, l’uscita.
Posted: Ottobre 29th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, epistemes & società, Marx oltre Marx, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Note sullo stato della filosofia italiana (1). Oltre l’accademia: le strade
di GIROLAMO DE MICHELE.1
Confesso di aver seguito con un certo distacco, e anche un po’ di fastidio, il nascere del “Nuovo Realismo”, del cui testo fondante molte cose non mi convincevano, e continuano a non convincermi. Del resto, non essendo mai stato “post-modern”, non mi convinceva neanche l’eventuale difesa del bersaglio polemico. E, se devo dirla tutta, l’ambiente “Italian Theory” – tradotto come mangio: l’Italietta accademica che ha il suo quarto d’ora di notorietà modaiola, ora che il vestitino “French Theory” s’è sdrucito a furia di strofinature, nei McDonald culturali americani – mi faceva venire in mente il Poeta di Pavana: “di solito ho da far cose più serie, costruire su macerie, o mantenermi vivo”.
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