A leggere oggi Essere e tempo[1], in particolare alcune sue pagine (penso al cap. V della prima parte dedicato alla situazione emotiva che l’uomo si trova a vivere), la sensazione è quella di essere gettati senza troppi complimenti dentro una realtà che conosciamo bene. Nella vita inautentica e deietta analizzata in quelle pagine ritroviamo la nostra forma di vita oggi, dopo che tutti gli sforzi collettivi per cercare di cambiarla sembrano falliti.
Da parte sua Heidegger non aveva dubbi in proposito: la deiezione (Verfallen), scriveva, è una determinazione esistenziale di cui non possiamo liberarci perché qualifica il nostro rapporto quotidiano con il mondo. Heidegger, come sappiamo, sceglie accuratamente le sue parole chiave nel vocabolario greco e latino. Questo sostantivo deriva dal tardo latino deiectionem che noi oggi traduciamo tranquillamente con defecazione, feci, escrementi. Il verbo d’origine è deicere, che in latino significa gettare giù, gettare fuori. Per Heidegger (§38) la deiezione è una sorta di moto vorticoso in cui precipitiamo per scendere al livello delle cose. Così la nostra espressione vita di merda acquista un sapore particolare se ripensata in quest’ottica heideggeriana. Solo che per Heidegger questa vita di merda riguarda un po’ tutti perché per l’Esserci l’effettività dell’esistenza è per l’appunto il suo essere gettato nel mondo a contatto con gli altri e con le cose che Heidegger chiama gli strumenti utilizzabili.
La successione delle crisi finanziarie ha portato a emergere una figura soggettiva che ormai occupa tutto lo spazio pubblico: quella dell’uomo indebitato. Il fenomeno del debito non si riduce alle sue manifestazioni economiche. Esso costituisce la chiave di volta dei rapporti sociali in regime neoliberista, poiché opera una duplice espropriazione: quella di un potere politico già debole, concesso dalla democrazia rappresentativa, e quella di una parte crescente della ricchezza che le lotte passate avevano strappato all’accumulazione capitalista; esproprio, soprattutto, dell’avvenire, vale a dire del tempo come portatore di scelte, di possibilità.
La relazione creditore-debitore intensifica in modo trasversale i meccanismi di sfruttamento e di dominio propri del capitalismo. Perché il debito non fa alcuna distinzione fra lavoratore e disoccupato, consumatore e produttore, attivi e inattivi, pensionati e beneficiari del reddito di solidarietà attiva. Esso impone un medesimo rapporto di potere a tutti: perfino le persone troppo impoverite per avere accesso al credito personale partecipano al pagamento degli interessi legati al debito pubblico. La società intera è indebitata, cosa che non impedisce, ma esacerba, le ineguaglianze – che è tempo siano definite «differenze di classe».
Come senza ambiguità lo svela l’attuale crisi, una delle sfide più grandi del neoliberismo è quella della proprietà: la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forze fra proprietari e non proprietari di titoli del capitale. Somme enormi sono trasferite dai debitori (la maggioranza della popolazione) ai creditori (banche, fondi pensione, imprese, economie famigliari più ricche): attraverso il meccanismo dell’accumulo degli interessi l’importo totale del debito dei Paesi in via di sviluppo è passato da 70 miliardi di dollari nel 1970 a 3.545 miliardi nel 2009. nel frattempo questi Paesi avevano pertanto rimborsato l’equivalente di centodieci volte ciò che essi dovevano inizialmente(1).
Il debito secerne d’altronde una morale che gli è peculiare, al tempo stesso differente da e complementare a quella del lavoro. La coppia fatica-ricompensa dell’ideologia del lavoro vede sé stessa superata dalla morale della promessa (quella di onorare il proprio debito) e della colpa (quella di averlo contratto). Come lo sottolinea il filosofo tedesco Friedrich Nietsche nella sua lingua, il concetto di Schuld (colpa) – concetto fondamentale della morale – rimanda al concetto molto materiale di Schulden (debiti) (2). La campagna della stampa tedesca contro i «parassiti greci» testimonia della violenza propria alla logica che l’economia del debito instilla. I media, gli uomini politici, gli economisti sembra non abbiano che un messaggio da trasmettere ad Atene: «Siete colpevoli»,. «siete responsabili». Insomma, i greci si abbronzano al sole mentre i protestanti tedeschi sgobbano per il bene dell’Europa e dell’umanità sotto un tetro cielo. Questa presentazione della realtà non diverge da quella che fa dei disoccupati gli assistiti o dello Stato assistenziale una «mamma» statale.
Il potere del debito si presenta come quello che non si esercita né con la repressione né con l’ideologia. «Libero», il debitore tuttavia non ha altre possibilità se non di inserire i sui atti, le sue scelte, nel quadro definito dal rimborso del debito che ha contratto. Non siete liberi se non nella misura in cui il vostro modo di vivere (consumi, impiego, spese sociali, imposte, ecc.) vi permette di fare fronte ai vostri impegni. Negli Stati Uniti, per esempio, l’80% degli studenti che terminano un master di diritto accumulano un debito medio di 77.000 dollari se hanno frequentato una scuola privata e di 50.000 dollari se si tratta di un’università pubblica. Uno studente testimoniava recentemente negli USA sul sito del movimento Occupy Wall Street: «Il mio prestito come studente si eleva a circa 75.000 dollari. Presto non potrò più pagare. Mio padre, che aveva accettato di garantire per me, sarà obbligato ad assumersi il mio debito. Presto sarà lui che non potrà più pagare. Ho rovinato la mia famiglia cercando di innalzarmi al disopra della mia classe [sociale] (3)».
Il meccanismo vale tanto per gli individui quanto per le popolazioni. Poco prima di morire, l’ex ministro delle Finanze irlandese Brian Lenihan dichiarava: «Dalla mia nomina, nel maggio 2008, in poi ho ricordato l’ultima definizione del potere fatta da Michel Foucault: “Azione che mantiene come «soggetto libero» colui sul quale essa si esercita (4)». Il potere del debito vi lascia libero, ma vi incita – molto perentoriamente! – ad agire con l’unico obiettivo di onorare i vostri debiti (anche se l’utilizzo che l’Europa e il FMI fanno del debito tende a indebolire i debitori attraverso l’imposizione di politiche economiche che favoriscono la recessione).
Ma la relazione creditore-debitore non riguarda unicamente la popolazione attuale. Poiché il suo riassorbimento non passa attraverso l’accrescimento della fiscalità sugli alti redditi e sulle imprese – vale a dire attraverso l’inversione del rapporto di forze fra classi che ha portato al suo apparire (5) –, le modalità della sua gestione coinvolgono le generazioni future. Portando i governati a promettere di onorare i loro debiti, il capitalismo mette le mani sull’avvenire. Così può prevedere, calcolare, misurare, stabilire equivalenze fra i comportamenti attuali e quelli a venire, in breve, gettare un ponte fra il presente e il futuro. In questo modo il sistema capitalistico riduce ciò che sarà a ciò che è, il futuro e le sue possibilità ai rapporti di potere attuali. La strana sensazione di vivere in una società senza tempo, senza possibile, senza rottura immaginabile – gli «indignati» denunciano altro? – trova nel debito una delle sue principali spiegazioni.
Il rapporto fra tempo e debito, prestito di denaro e appropriazione del tempo da parte di colui che presta è noto da secoli. Se nel Medioevo la distinzione fra usura e interesse non era ben stabilita – poiché la prima era considerata solamente come un eccesso del secondo (ah! La saggezza degli antichi!) –, al contrario si vedeva molto bene a che cosa portava il «furto» di colui che presta denaro e in che cosa consisteva la sua colpa: egli vendeva tempo, qualcosa che non gli apparteneva e il cui unico proprietario era Dio. Riassumendo la logica medievale, lo storico Jacques Le Goff domanda: «Che cosa vende [l’usuraio], in effetti, se non il tempo che scorre fra il momento in cui egli presta e quello in cui è rimborsato con interessi? Ora, il tempo non appartiene che a Dio. Ladro di tempo, l’usuraio è un ladro del patrimonio di Dio (6)». Per Karl Marx l’importanza storica del prestito a usura deriva dal fatto che, contrariamente alla ricchezza consumatrice, esso rappresenta un processo generatore assimilabile a (e precursore di) quello del capitale, vale a dire del denaro che genera denaro.
Un manoscritto del XIII secolo sintetizza questo ultimo punto e il tipo del tempo di cui chi presta denaro si appropria: «Gli usurai peccano contro natura volendo far generare denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo o un mulo da un mulo. Per di più gli usurai sono ladri perché vendono il tempo che non appartiene loro, e vendere un bene di proprietà altrui, nonostante se ne sia in possesso, è furto. Inoltre, poiché essi non vendono altro che l’attesa del denaro, vale a dire il tempo, vendono i giorni e le notti. Ma il giorno è il tempo della luce, e la notte il tempo del riposo. Di conseguenza essi vendono la luce e il riposo. Quindi non è giusto che essi abbiano la luce e il riposo eterni (7)».
La finanza bada a che le sole scelte e le sole decisioni possibili siano quelle della tautologia del denaro che genera il denaro, della produzione per la produzione. Mentre nelle società industriali sussisteva ancora un tempo «aperto» – sotto forma di progresso o sotto quella di rivoluzione – oggi l’avvenire e i suoi possibili, schiacciati sotto le somme esorbitanti mobilitate dalla finanza e destinate a riprodurre i rapporti di potere capitalista, sembrano bloccati; perché il debito neutralizza il tempo, il tempo come creatore di nuove possibilità, ovvero la materia prima di qualsiasi cambiamento politico, sociale o estetico.
(1) Cf. Damien Millet et Eric Toussaint (sous la dir. de), La Dette ou la vie, Comité pour l’annulation de la dette du tiers-monde – Editions Aden, Bruxelles, 2011.
(2) Friedrich Nietzsche, La Généalogie de la morale, Gallimard, Paris, 1966.
(3) Cité par Tim Mak dans « Unpaid student loans top $1 trillion », 19 octobre 2011, www.politico.com
(4) Michel Foucault, « Le sujet et le pouvoir », dans Dits et écrits, tome IV, Gallimard, Paris, 2001.
(5) Lire Laurent Cordonnier, « Un pays peut-il faire faillite ? », Le Monde diplomatique, mars 2010.
(6) Jacques Le Goff, La Bourse et la Vie. Economie et religion au Moyen Age, Hachette, Paris, 1986, p. 42.
La pubblicazione di «Opus dei» del filosofo italiano per Bollati Boringhieri
è la conclusione di un percorso teorico inziato con «Homo Sacer». La posta
in gioco è sempre stata teoretica, cioè l’essere, e ha comportato un corpo a
corpo con «l’ideologia europea». Ma ad ogni tappa sono stati affrontati temi
centrali in una auspicabile politica della trasformazione. Un nichilismo
radicalizzato dove non c’è spazio per la storia.
Con questo Opus dei (Bollati Boringhieri, pp. 155, euro 15) sembra
concludersi il cammino che il filosofo italiano Giorgio Agamben ha
intrapreso con Homo Sacer. Un bel tratto di strada, dai primi anni Novanta
del Novecento, un ventennio. Un’archeologia dell’ontologia condotta (con un
rigore che neppure il gioco bizzarro e fuorviante dei numeretti messi a
fingere un ordine per diversi stadi della ricerca è riuscito a rendere
opaco) – fino ad una riapertura del problema del Sein (l’essere). Uno scavo
quale neppure a Martin Heidegger (a dire dell’autore che qui si rivendica
giovane allievo del filosofo tedesco) era riuscito – perché qui l’ontologia
è liberata da ogni vestigia di «operatività», da ogni illusione che essa
possa legarsi alla volontà ed al comando. Che cosa ne resta? «Il problema
della filosofia che viene è quello di pensare un’ontologia al di là
dell’operatività e del comando, e un’etica e una politica del tutto liberate
dai concetti di dovere e volontà».
La dimostrazione che l’ontologia criticata da Heidegger sia ancora, al
fondo, una teoria dell’operatività e della volontà, è idea indubbiamente
vera. Già Schürmann l’aveva sviluppata quando aveva criticato il Sein come
l’idea stessa di «arché», e dunque come indistinzione di inizio e di
comando. Seguire lo sviluppo e l’organizzazione successiva di
quest’ontologia dell’operatività, che dai neoplatonici ai padri della
Chiesa, dai filosofi latini a Kant, da Tommaso a Heidegger pone un’idea
dell’essere completamente assimilata a quella della volontà/comando, è
compito da Agamben qui assolto con grande maestria.
In debito con la religione Aristotele, prima di tutti. Nella sua teoria
della virtù come abito, egli avrebbe potuto strappare l’essere ad ogni
pulsione aporetica verso la virtù e così liberarsi di ogni operatività
valorifica: non ce la fa, pur essendo colui che, alle origini della
metafisica, aveva concepito la virtù come rapporto con la privazione e come
determinazione ontologica inoperosa. Ma di qui in avanti – secondo Agamben –
le cosa vanno di male in peggio. Nel cristianesimo (ancora una volta
l’immersione nel rapporto fra neoplatonismo e patristica sollecita Agamben
nel suo procedere) azione e volontà cominciano a farla da padroni. Lasciamo
ai medievisti il giudizio sulla correttezza dell’analisi agambeniana: a noi
basta seguirne il filo che mostra una indubbia coerenza. Ora, l’aporia
aristotelica che si definiva nell’alternativa di collegare (o non collegare)
l’abito e la virtù, l’essere ed il dovere, la passività e l’attività, nella
Scolastica viene meno. L’abito critico è piuttosto ordinato costitutivamente
all’azione e la virtù non consiste più nell’essere ma nell’operare – ed è
solo attraverso l’azione che l’uomo si assimila a Dio. Così in Tommaso: «È
questa ordinazione costitutiva dell’abito all’azione che la teoria delle
virtù sviluppa e spinge all’estremo». D’ora in poi la storia della
metafisica, scarnificata dall’archeologia critica, mostra una bella
continuità e rivela una sorta di ansia perversa (secondo Agamben) di
svolgere ed approfondire quel principio operativo dell’etica e quel concetto
di virtù come obbligo e dovere che la teologia medioevale le aveva concesso
in eredità. Il «debito infinito» in cui consiste, secondo i filosofi della
Seconda Scolastica, il dovere religioso, viene così definitivamente
impiantandosi nelle metafisiche della modernità. Con Kant fa la prima
comparsa l’idea di un compito e di un dovere infiniti, irraggiungibili ma
non per ciò meno doverosi. In un passo esemplare Agamben riassume: «Qui si
vede con chiarezza che l’idea di un “dover-essere” non è soltanto etica né
soltanto ontologica: essa lega, piuttosto, aporeticamente essere e prassi
nella struttura musicale di una fuga in cui l’agire eccede l’essere non
soltanto perché gli detta sempre nuovi precetti, ma anche ed innanzitutto
perché l’essere stesso non ha altro contenuto che un puro debito». Nelle
pagine successive Agamben insiste polemicamente sull’interiorizzarsi
dell’idea della legge morale, sul suo approfondirsi della forma
dell’autocostrizione e persino del piacere masochista nella legge. «La
sostituzione del “nome glorioso di ontologia” con quello di “filosofia
trascendentale” significa, appunto, che un’ontologia del dover-essere ha
preso ormai il posto dell’ontologia dell’essere».
Una trattazione ed una conclusione del tutto heideggeriane, si direbbe. E
però, lo si avverte da subito, questo riferimento delude Agamben. «Anche
Heidegger sviluppa un’ontologia che è più solidale di quanto si creda con il
paradigma dell’operatività che intende criticare». Restiamo stupiti da
questa affermazione. Non era dunque andato abbastanza avanti Heidegger nella
sua distruzione dell’ontologia della modernità? Non aveva già abbastanza
scarnificato il Sein – l’essere – di quanto di umano gli si poteva
attribuire? No – insiste Agamben – c’è un punto nel
quale Heidegger cede alla tentazione di un’ontologia operativa: sono la
teoria della tecnica, la critica del Gesell che scoprono questa
irresolutezza. «Non si comprende l’essenza metafisica della tecnica, se la
si intende solo nella forma della produzione. Essa è, altrettanto e
innanzitutto governo e oikonomia, che, nel loro esito estremo, possono anche
mettere provvisoriamente fra parentesi la produzione causale in nome di
forme più raffinate e diffuse di gestione degli uomini e delle cose».
Auschwitz insegna! Già nel Regno e la gloria, con un po’ di attenzione, si
sarebbe potuta leggere questa conclusione.
Il distacco da Heidegger Qui mi nasce un sospetto. E cioè che questo libro,
Opus Dei, benché riassuma e sviluppi, come già detto, le analisi di Il Regno
e la gloria, in realtà non sia solo il completamento di quel filone
archeologico di pensiero e di lavoro agambeniani. Questo libro segna
piuttosto il definitivo distacco di Agamben da Heidegger: la scelta
ontologica sovrasta la qualità archeologica dell’analisi e lo scontro si
innalza a livello fondamentale. Heidegger è qui accusato d’esser
riuscito solo ad una provvisoria soluzione delle aporie dell’essere e del
dover-essere (ovvero dell’operatività): indeterminazione più che
separazione, più che scelta di un altro terreno ontologico. Debbo ammettere
di aver provato una certa soddisfazione rilevandolo. Ma essa fu breve. Qual
è infatti il Sein ulteriormente imperscrutabile che Agamben ora, pur contro
Heidegger,ci propone? Già una volta, nel 1990, prima di avventurarsi nella
lunga vicenda dell’Homo Sacer, in La Comunità che viene, Agamben si era
allontanato da Heidegger: aveva allora ceduto ad una sollecitazione
benjaminiana, quasi marxista, nel promuovere una sfida sul senso umanistico
dell’essere. Ora, non è certo in questo senso che Agamben procede. Si
muove, al contrario, contro ogni umanesimo, contro ogni possibilità di
azione, contro ogni speranza di rivoluzione.
Ma come ci è arrivato, Agamben, a questo nihilismo radicalizzato, agitandosi
nel quale si compiace di aver superato (o portato a termine) il progetto di
Heidegger? Ci arriva attraverso un lungo percorso che si articola su due
direzioni: una di critica propriamente politico-giuridica, l’altra
archeologica (uno scavo teologico-politico). Carl Schmitt è al centro di
questo cammino: ne guida le due direzioni, quella che porta alla
qualificazione del potere come eccezione, e dunque come forza e destino,
strumentazione assoluta e senza qualità di ogni tecnica, e sadismo della
finalità; d’altro lato quella che porta alla qualificazione della potenza
come illusione teologica, ovvero impotenza, e cioè affidamento impossibile
all’effettualità, quindi: incitamento all’inoperatività, quindi denuncia
della frustrazione necessaria del volere, del masochismo del dovere. Le due
cose vanno assieme. È quasi impossibile, recuperata l’attualità
dei concetti schmittiani dello «Stato di eccezione» e del
«teologico-politico» comprendere se essi rappresentino il più grande
pericolo o invece se si tratti semplicemente di una apertura alla loro
verità. La metafisica e la diagnostica politica si arrendono
all’indistinzione. Ma ciò sarebbe
forse irrilevante se in questa indistinzione non fosse annegata ogni
possibile resistenza. Ritorniamo alle due linee identificate: tutto il
percorso che segue Homo Sacer si svolge su questo doppio binario. La seconda
linea è sommarizzata da Il Regno e la gloria.
La virtù efficace Insistiamo: anche questa seconda linea è mossa dalla
Teologia politica di Carl Schmitt e dal confronto con l’ontologia di
Heidegger. Diciamo questo per evitare che si confonda l’archeologia
di Agamben con quella di Foucault. In Agamben manca la storia, quella storia
che in Foucault non è solo archeologia della modernità ma genealogia attiva
del presente, del suo darsi come del suo disfarsi, del suo essere come del
suo divenire. La storia, per Agamben, non esiste. Meglio, è al massimo
storia del diritto, che è appunto il solo luogo dove il filosofo può farsi
grammatico ed analista delle grammatiche del comando. Ma certamente anche il
luogo dove biopolitica e genealogia possono presentarsi solo in maniera
lineare – come destino, appunto.
Perché qui neppure l’ombra della soggettività, della produzione, appare – ed
anzi sembra che anche quest’ultima sia totalmente sommessa al blocco del
fare, della tecnica, dell’operare e, soprattutto, della resistenza.
Non stupiscono allora, in Opus Dei, le esemplificazioni giuridiche che
Agamben presenta a definitiva prova delle sue tesi. L’assolutizzazione del
dovere nel diritto sarebbe stata introdotta da Pufendorf più che da Hobbes
(e questo processo si conclude con Jean Domat). Può darsi.
Una lontana storia seicentesca, dunque, che marcia in contemporanea con la
nascita e lo sviluppo della Seconda Scolastica (quanto le deve lo stesso
Heidegger!) e della definitiva stabilizzazione di una metafisica
dell’operosità, della virtù efficace. Ma soprattutto importante,
perché è Kant che riprende questo motivo e, dopo Kant, Kelsen lo assolutizza
nella figura fondamentale del dovere giuridico, del Sollen. Si ricordi: non
è tanto la conclusione kelseniana che pur afferma la relazione fra diritto e
comando come doverosa, ad essere qui importante; l’importanza sta nel fatto
che essa riprende – mille miglia lontano dalla sua prima affermazione,
eppure vivente in tutta l’«ideologia europea» – quel nesso interno alla
liturgia che va dall’operatività economica all’essere divino, scendendo
omogeneamente attraverso le deduzioni giuridiche, fino alla necessità
fondante del Sollen: tutto ciò non rappresenta altro che il comando
imperscrutabile della divinità. Così, di Kelsen, si è fatto l’uguale di
Schmitt e le due linee aperte da Homo Sacer, si ricompongono: da un lato la
critica dell’eccezione e dall’altro la critica del Sollen, filtrata nella
oekonomia cristiana, in definitiva si unificano. Ma se questa riduzione può
essere – a grandissime linee e su un terreno che ormai non è più né
giuridico né politico – accettata; se è vero che la pratica di governo
fondata sul diritto di eccezione e sulla pretesa dell’efficacia economica,
hanno sostituito ogni forma costituzionale di governo; se, come
ricordava Benjamin tanto tempo fa, «ciò che è ormai effettivo è lo stato di
eccezione nel quale viviamo e che non sapremmo più distinguere dalla
regola»: bene, ciò detto, che cosa secondo Agamben può liberarci?
Giungiamo così al termine di un cammino complesso. Occorre liberarci dal
concetto e dalla potenza di volontà: così Agamben comincia a rispondere alla
questione. Dobbiamo liberarci dalla volontà che si vuole istituzione, che si
vuole efficacia ed attualità. Le ragioni le conosciamo. Nella filosofia
greca dell’età classica il concetto di volontà non ha significato
ontologico; questa deturpazione ontologica viene introdotta dal
cristianesimo, forzando elementi embrionalmente presenti in Aristotele; così
il dovere è introdotto nell’etica per dare fondamento al comando; così
l’idea di una volontà è elaborata per spiegare il passaggio dalla potenza
all’atto. In tal modo tutta la filosofia occidentale è posta dentro un
terreno di insolubili aporie che trionfa nella modernità piena, con il
ridefinirsi del mondo come prodotto di tecnologia e di industria (che cosa è
più evidente del realizzarsi, del divenire efficace del potere nella realtà,
nell’attualità – che cosa più di questo orizzonte?). Di nuovo si impone la
questione: come uscirne? Come riconquistare un essere senza effettualità?
Che bell’enigma ci ha regalato Agamben! Ci sarebbe forse una via che Agamben
a questo punto potrebbe ancora percorrere.
È quella dello spinozismo, cioè una via nella quale la potenza si organizza
immediatamente come dispositivo di azione, dove violenza e piacere si
determinano nelle istituzioni della moltitudine e la capacità costituente
diviene sforzo di costruire, nella storia, libertà, giustizia e
comune. Agamben percepisce questa via d’uscita, perfettamente atea. La
coglie infatti nell’insultante rifiuto dell’ateismo di Spinoza che, in un
momento critico della modernità, Pufendorf e Leibniz dichiarano. Ma l’essere
che Agamben ci presenta è, per ora, talmente nero e piatto, l’immanenza così
indistinta, l’ateismo così poco materialista, il nihilismo talmente triste
che Spinoza davvero non può stare al gioco – pur considerando, egli,
superstizione ogni ideologia dello stato che non fosse prodotto della
moltitudine e, fondamento intransitivo di libertà, il corpo (i corpi della
moltitudine). Né Spinoza, d’altra parte, sta ad attendere che le
forme di vita dell’Occidente siano giunte alla loro consumazione storica
(rifiutando nel frattempo di agire perché la volontà non morderebbe
l’effettualità). Sa invece dare risposta alla domanda sull’agire, sulla
speranza, sul futuro. Il positivo che avanza Che cosa sono i Lumi? È questa
la domanda che attraversa, con la filosofia di Spinoza, quelle di
Machiavelli e di Marx – e che, nell’attualità, è stata ripresa da Foucault.
Contro il nazismo ontologico di Heidegger. In fondo, l’unico luogo del lungo
tragitto percorso da Agamben, nel quale la soglia ontologica di potenza
potrebbe essere raggiunta, è quando, spostando l’accento dalle forme
linguistiche dell’essere storico, la forma di vita si stacca non dal diritto
in astratto ma da quel diritto storicamente dato (cioè dal diritto di
proprietà), non dal comando in generale ma da quel comando che è della
produzione capitalistica e del suo Stato. Lavorare alla dissoluzione del
diritto di proprietà e della legge del capitalismo è l’unico nihilismo
operativo che gli uomini virtuosi proclamano e agiscono. Ma anche questa
ipotesi Agamben scarta, recentemente, in Altissima povertà.
Come finirà questa storia? C’è una questione che, a fronte di un discorso
come quello di Agamben, nuovamente si apre: potrà forse la forma – ovvero
l’azione o l’istituzione – salvarsi dalla distruzione di ogni contenuto
doveroso? Chi, a questo proposito, insiste su toni e negazioni anarchiche è
tanto irritante quanto chi pensa che la continuità dell’istituzione o
l’annullamento di ogni azione negativa rappresentino la condizione di un
radicale passaggio in avanti. Probabile è invece, contro questi estremismi,
che come in altre epoche rivoluzionarie anarchismo e comunismo, in forme
nuove, sempre di più, nelle lotte che attraversano il nostro secolo, stiano
riavvicinandosi. In ogni caso, la sola cosa certa è, spinozianamente, che
«l’uomo guidato da ragione è più libero nello Stato, dove vive secondo un
decreto comune, che nella solitudine dove obbedisce soltanto a se stesso».
C’è qualcosa che rende simile l’economia alla religione, e cioè che, anche per l’economia, il suo meglio è che essa susciti eretici. Che nella scienza economica ci sia bisogno di eresia ce lo spiegano gli americani che da tempo guardano con inquietudine a quanto sta accadendo in Europa, in particolare a quella famigerata dottrina secondo cui occorre fare tutto il possibile per raggiungere il pareggio di bilancio.
“La storia della ratio governamentale,
la storia della ragione governamentale
e la storia delle contro condotte che le si sono opposte non possono essere dissociate l’una dall’ altra.”
Michel Foucault, Sicurezza, territorio e popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), p.365).
Nel 1979 Michel Foucault rese celebre il concetto di “biopolitica” dedicandogli un intero corso al Collège de France[1].
Durante il ciclo di lezioni Foucault cercò di dimostrare la correlazione tra il liberalismo, l’economia e il governo. L’economia, con il liberalismo, diventa il paradigma orientante le pratiche di governo.
“ Mi sembra che l’analisi della biopolitica non si possa fare senza aver compreso il regime generale di questa ragione governamentale di cui vi sto parlando, regime generale che si può chiamare questione di verità, in primo luogo della verità all’interno della ragione governamentale, e di conseguenza se non si comprende bene di che cosa si tratta in questo regime che è il liberalismo, (…) e una volta che avremo saputo che cos’è questo regime governamentale chiamato liberalismo potremo sapere cos’è la biopolitica”[2].
Lo scopo di quest’articolo è di caratterizzare, nel quadro teorico post-operaista, il senso logico e storico della marxiana legge del valore, nel passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo.In questa prospettiva, l’analisi si svilupperà in tre stadi. Nel primo si proporrà di precisare cosa bisogna intendere per legge del valore/tempo di lavoro e in cosa consiste la sua articolazione alla legge del plusvalore di cui è una variabile dipendente e storicamente determinata. In riferimento a questa articolazione utilizzeremo la nozione di legge del valore/plusvalore. Nel secondo e nel terzo stadio, l’attenzione sarà focalizzata sulle principali dinamiche che spiegano la forza progressiva della legge del valore/plusvalore nel capitalismo industriale, quindi la sua crisi nel capitalismo cognitivo.
L’odierna riflessione di Toni Negri sul concetto di «comune» affonda le sue radici in un percorso di ricerca teorica e politica più che ventennale. Tutto è cominciato con la descrizione del cosiddetto post-fordismo, con l’analisi di un capitalismo che alla soggettività del lavoratore chiede creatività, innovazione e dunque libertà. Quello che Negri ha cercato di descrivere è un paradosso: il capitalismo è sempre più legato a ciò che in potenza può distruggerlo, la libertà del
lavoro. E per Negri, ciò a cui questa libertà non cessa di dare forma è un territorio comune – non lo spazio pubblico dello Stato né lo spazio privato degli individui – che è contemporaneamente la conditio sine qua non del capitalismo
oggi.
Il libro ripercorre le tappe di questa riflessione, mostrando come la teorizzazione del «comune» attraversi tanto la critica al pensiero debole all’inizio degli anni Novanta quanto l’analisi della crisi della statualità, fino ad arrivare alla
riscoperta di un concetto fondamentale del pensiero politico moderno, quello di «moltitudine». Un testo che è un riepilogo della riflessione negriana dell’ultimo ventennio e una testimonianza del grande contributo fornito da questo autore al rinnovamento del pensiero critico.
Dalla prefazione di Judith Revel
Lo statuto di una raccolta di testi non è facile. Occorre vedervi la conferma retrospettiva della coerenza di un pensiero? l’unità tematica di una ricerca in un momento dato? la testimonianza di un’epoca? O, al contrario, meglio sottolineare la diversità dei temi affrontati e dei punti di attacco, delle collaborazioni e delle contaminazioni, degli spostamenti e delle riformulazioni? Occorre produrre un oggetto chiuso su se stesso, come se la rassicurante materialità del libro venisse a sospendere i dubbi, le domande e le aperture che la raccolta dei testi a volte scava, di rimbalzo, nel nostro presente?
Gli articoli di questo volume hanno forse il merito di prestarsi a tutto questo, ma anche quello di esistere diversamente. Scritti tra l’inizio degli anni Novanta e la fine del Duemila, ricoprono oltre quindici anni di lavoro all’interno di esperienze collettive di ricerca e militanza e non sono intelligibili al di fuori di una forma-rivista («Futur Antérieur»1 in primis; poi «Multitudes»), che è in quanto tale un progetto politico: perché si tratta, appunto, di trovare la giusta distanza – o, meglio, il ritmo di questo andirivieni – tra l’analisi teorica e la reazione all’attualità, tra la filosofia, la scienza politica, l’economia o la sociologia e quel «giornalismo» di cui Michel Foucault, alla fine della propria vita, diceva fosse il nome di un nuovo atteggiamento critico piantato nel cuore del presente. Una rivista è da questo punto di vista la forma di intervento più agile ed efficace. Articoli, dunque, ma anche editoriali e testi a quattro mani che segnano tanto la progressione dell’analisi quanto il passaggio del tempo.
Ma l’arco di questi quindici anni non è un arco qualsiasi. Se per Negri, dal punto di vista strettamente biografico, significano gli ultimi anni di esilio in Francia e il ritorno in Italia, sei anni di carcerazione e la libertà finalmente ritrovata, sono anche gli anni in cui vengono scritti e pubblicati tre libri importanti, scritti insieme a Michael Hardt: Impero che ha da subito un successo mondiale, Moltitudine e infine Commonwealth2.
Ma quegli anni sono anche, a modo loro, l’uscita definitiva da quel «secolo breve» di cui Erich Hobsbawm ha così ben descritto le caratteristiche: dalla caduta del muro di Berlino e il crollo del blocco sovietico, immediatamente precedenti la fondazione della rivista «Futur Antérieur», fino alla crisi finanziaria del 2008, non è solo alla chiusura del XX secolo e all’inaugurazione del XXI che siamo confrontati ma alla svolta che ci fa transitare da un mondo a un altro, da una grammatica politica a un’altra e probabilmente da una scatola analitica degli attrezzi a un’altra.
Certo, potremmo fare la rassegna degli eventi che nella virata della transizione hanno a loro volta contribuito a uscire da quella modernità politica che ci eravamo convinti durasse in eterno, in ordine sparso: le due guerre del Golfo, i grandi scioperi francesi del 1995 e più in generale la comparsa di forme di lotta (e di soggettività politiche) inedite, la nascita del berlusconismo politico in Italia, l’emergere del problema delle banlieues, gli inizi del movimento globale, la necessità (e i vicoli ciechi) di una costruzione europea, il ruolo politico della Chiesa, il passaggio al capitalismo cognitivo ecc. La scelta editoriale che presiede alla raccolta dei testi che compongono questo volume è di grande importanza; e se la raccolta ovviamente contiene solo una selezione limitata degli scritti di Negri su un dato periodo, occorre riconoscere che quelli che qui vengono presentati danno l’idea della cosa fondamentale: un vero e proprio laboratorio di inchiesta e di analisi critica. Poiché il pensiero si fa lì dove si elaborano e formulano dei ragionamenti, lì dove si cercano nuovi concetti, lì dove si arrischiano nuove ipotesi.
Obiettivo del gioco non è ovviamente indicare, in modo retrospettivo, quanto fosse ascrivibile alla chiaroveggenza e quanto no, ciò che è riuscito ad anticipare il proprio tempo e ciò che per un istante ha tentato di percorrere strade senza uscita. […]
A piu’ di un secolo dalla morte, K.Marx viene trattato, tanto nell’opinione quanto nell’accademia, come ”un cane morto”. La situazione e’ quindi ottima per riprendere lo studio dei suoi testi, per rifare i conti con lui.
Procedere su questa strada, comporta, in primo luogo, sgombrare il terreno dall’ovvio, rifiutare la relazione di causalita’ tra l’attuale discredito di cui gode il Nostro ed il crollo del socialismo di stato nell’Europa dell’Est.
L’inconsistenza logica della dottrina marxista, cosi’ come la cattiva astrazione sulla quale si fondava la legittimita’ dei regimi socialistici, erano nascoste solo agli occhi di chi non voleva vedere. Tutto era chiaro gia’ da prima, da molto prima.
A testimonianza che il senso comune non ha atteso il crollo del muro di Berlino per formulare un giudizio– sulla teoria del socialismo scientifico e sulla natura del socialismo di stato– riproponiamo, qui di seguito, un breve commento a riguardo, scritto nel 1983, in occasione del centenario della morte di Marx, quando il Paese dei Soviet esisteva ancora ( 1 ).
Un personaggio scomodo, di quelli che fanno sempre parlare di sé…Slavoj Zizek, intellettuale di Lubjana che quando apre la bocca riesce sempre a scatenare un polverone; come quando nega il concetto di tolleranza, o quando esalta, come unica tradizione europea, quella dell’ateismo, o, ancora, quando decostruisce il concetto di “diritti umani”.
Studioso fondatore della scuola Lacaniana slovena, di lui è stato detto che se Socrate fosse stato in cura da Lacan il risultato sarebbe stato Zizek.
Di seguito presento questa intervista, pubblicata originariamente sul Manifesto, uscita in concomitanza con l’ultima sua fatica: “In difesa delle cause perse”.