Una cittadinanza ridotta a dati biometrici

Posted: Febbraio 22nd, 2014 | Author: | Filed under: anthropos, bio, digital conflict, epistemes & società, Foucault, Révolution, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Una cittadinanza ridotta a dati biometrici

di Giorgio Agamben

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Come l’ossessione della sicurezza fa mutare la democrazia

La sicurezza figura tra quelle parole «sgabuzzino» alle quali non si presta più alcuna attenzione tanto sono familiari. Eretta a priorità politica da una quarantina di anni, questa nuova denominazione del mantenimento dell’ordine cambia spesso di pretesto (la sovversione politica, il «terrorismo») ma conserva la sua mira: governare le popolazioni. Per comprendere ed eludere la ragione securitaria, bisogna coglierne l’origine e risalire al XVIII secolo…

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Il lavoro dell’astrazione. Sette tesi provvisorie su marxismo e accelerazionismo

Posted: Febbraio 2nd, 2014 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, comune, comunismo, crisi sistemica, critica dell'economia politica, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Il lavoro dell’astrazione. Sette tesi provvisorie su marxismo e accelerazionismo

di Matteo Pasquinelli

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1. Il capitalismo è un oggetto di elevata astrazione, il comune è una forza di ancor più grande astrazione.

La nozione di lavoro astratto di Marx identificò per la prima volta il motore centrale del capitalismo, ovvero la trasformazione del lavoro in equivalente generale. In seguito, Sonh-Rethel (1970) individuò la stretta relazione che passa storicamente tra astrazione del linguaggio, astrazione della merce e astrazione del denaro. Nella cosiddetta ‘introduzione’ ai Grundrisse (scritta nel 1857) Marx chiarisce l’astrazione come metodologia di analisi che emergerà solo dieci anni più tardi nella pagine del Capitale (1867). Come ricordano in molti (Ilyenkov 1960), in Marx il concreto è un risultato, è un prodotto del processo di astrazione: la realtà capitalistica, così come quella rivoluzionaria, è una invenzione. “Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione” (Marx 1857: 101). L’astrazione è sia la tendenza del capitale, sia il metodo del Marxismo. L’operaismo viene quindi a strappare l’astrazione dal doppiopetto del capitale per ricucirla addosso alla tuta del proletario: astrazione è sia il movimento del capitale, sia il movimento della resistenza ad esso.

Negri (1979: 66) muove l’astrazione al centro del metodo della tendenza antagonista come processo di conoscenza collettiva: “il processo dell’astrazione determinata è tutto dentro l’illuminazione collettiva, proletaria, è quindi un elemento di critica e una forma di lotta”. In qualche modo, l’idea del comune nasce come progetto epistemico.

Marx, Karl (1857). Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie. Moscow: Verlag für fremdsprachige Literatur, 1939. Traduzione: Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Torino: Einaudi, 1976.

Ilyenkov, E. Vassilievich (1960). La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx. Milano : Feltrinelli, 1961.

Sohn-Rethel, Alfred (1970). Geistige und körperliche Arbeit. Frankfurt (Main): Suhrkamp. Traduzione: Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Milano, Feltrinelli, 1977.

Negri, Antonio (1979). Marx oltre Marx: Quaderno di lavoro sui Grundrisse. Milano: Feltrinelli.

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Il giornalismo filosofico come genere della critica

Posted: Febbraio 1st, 2014 | Author: | Filed under: anthropos, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, post-filosofia | Commenti disabilitati su Il giornalismo filosofico come genere della critica

di Paolo B. Vernaglione

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Delimitare un’ontologia del presente, ricominciare dalla critica come strumento “povero” per dirla con Benjamin, fare della critica il fuoco delle preoccupazioni e degli addensamenti di pensiero come delle dispersioni e delle traiettorie di esodo dalla infelice esistenza nel capitalismo, sembra essere il contenuto più adeguato del giornalismo filosofico.

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Agamben: Stati di ordinaria emergenza

Posted: Gennaio 14th, 2014 | Author: | Filed under: au-delà, bio, digital conflict, epistemes & società, Foucault, post-filosofia, vita quotidiana | 6 Comments »

di Giorgio Agamben

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Manifesto 14 gennaio 2014, p. 10

Democrazia dimezzate. In nome della sicurezza il neoliberismo più radicale convive con l’interventismo statale nella vita sociale. Un’anticipazione dall’ultimo numero di «Le Monde Diplomatique» in edicola con «il manifesto» da domani. Nella terra di nessuno al confine tra pubblico e privato avviene la demolizione della vita politica. Videosorveglianza e tracciabilità del Dna individuale sono le nuove tecnologie del controllo

La formula «per ragioni di sicurezza» («for security reasons», «pour raisons de sécurité») funziona come un argomento autorevole che, tagliando corto in ogni discussione, permette di imporre prospettive e misure che non si accetterebbero senza di essa. Bisogna opporgli l’analisi di un concetto dall’apparenza anodino, ma che sembra aver soppiantato ogni altra nozione politica: la sicurezza.

Si potrebbe pensare che lo scopo delle politiche di sicurezza sia prevenire i pericoli, i disordini, persino le catastrofi. Una certa genealogia fa infatti risalire l’origine del concetto al proverbio romano Salus pubblica suprema lex («La salvezza del popolo è la legge suprema»), iscrivendolo così nel paradigma dello stato di emergenza. Pensiamo al senatus consultum ultimum e alla dittatura a Roma; al principio del diritto canonico secondo cui Necessitas non habet legem («La necessità non ha affatto legge»); ai comitati di salute pubblica durante la Rivoluzione francese; alla costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII° (1799), che evoca i «disordini che minaccerebbero la sicurtà dello stato»; o ancora all’articolo 48 della costituzione di Weimar (1919), fondamento giuridico del regime nazional-socialista, che ugualmente menzionava la «sicurezza pubblica».

Per quanto corretta, questa genealogia non permette di comprendere i dispositivi di sicurezza contemporanei. Le procedure di emergenza mirano una minaccia immediata e reale che bisogna eliminare sospendendo per un tempo limitato le garanzie della legge; le «ragioni di sicurezza» di cui si parla oggi costituiscono al contrario una tecnica di governo normale e permanente.

Il buon timoniere

Molto più che nello stato di emergenza, Michel Foucault consiglia di cercare l’origine della sicurezza contemporanea negli albori dell’economia moderna, in François Quesnay (1694–1774) e i fisiocratici. (…)

Uno dei principali problemi che allora i governi dovevano affrontare era quello delle carestie e della fame. Fino a Quesnay, provarono a prevenirli creando granai pubblici e vietando l’esportazione dei cereali. Ma queste misure preventive avevano degli effetti negativi sulla produzione. L’idea di Quesnay fu di ribaltare il procedimento: anziché provare a prevenire le carestie, bisognava lasciare che esse si verificassero, con la liberalizzazione del commercio interno e esterno, per governarle una volta verificatesi.

«Governare» riprende qui il suo senso etimologico: un buon pilota – colui che tiene il timone, non può evitare la tempesta ma, se essa sopraggiunge, deve essere capace di guidare la sua barca.

È in questo senso che bisogna compredere la formula che si attribuisce a Quesnay, ma che in verità egli non ha mai scritto: «Lasciar fare, lasciar passare». Lungi dall’essere solamente il motto del liberismo economico, essa designa un paradigma di governo che situa la sicurezza – Quesnay evoca la «sicurezza dei fattori e degli aratori» – non nella prevenzione dei disordini e dei disastri, ma nella capacità di canalizzarli in una direzione utile.

Bisogna misurare la portata filosofica di questo rovesciamento che sconvolge la tradizionale relazione gerarchica tra le cause e gli effetti: poiché è vano o ad ogni modo costoso governare le cause, è più sicuro e più utile governare gli effetti. L’importanza di questo assioma non è trascurabile: esso regge le nostre società, dall’economia all’ecologia, dalla politica estera e militare fino alle misure di sicurezza e di polizia. È ancora esso che permette di comprendere la convergenza altrimenti misteriosa tra un liberismo assoluto in economia e un controllo securitario senza precedenti.

Orizzonti biometrici

Prendiamo due esempi per illustrare questa apparente contraddizione. Quello dell’acqua potabile, innanzitutto. Benché si sappia che presto essa mancherà su una grande parte del pianeta, nessun paese conduce una politica seria per evitarne lo spreco. Invece, vediamo svilupparsi, ai quattro angoli del globo, le tecniche e gli stabilimenti per il trattamento delle acque inquinate – un grande mercato in divenire.

Consideriamo ora i dispositivi biometrici, che sono uno degli aspetti più inquietanti delle tecnologie securitarie attuali. La biometria è comparsa in Francia nella seconda metà del XIX secolo. Il criminologo Alphonse Bertillon (1853–1914) si basò sulla fotografia segnaletica e sulle misure antropometriche al fine di costituire il suo «ritratto parlato», che utilizza un lessico standardizzato per descrivere gli individui su una scheda segnaletica. Poco dopo, in Inghilterra, un cugino di Charles Darwin e grande ammiratore di Bertillon, Francis Galton (1822–1911), mise a punto la tecnica delle impronte digitali. Ora, questi dispositivi, chiaramente, non permettevano di prevenire i crimini, ma di sorprendere i criminali recidivi. Ritroviamo qui ancora la concezione securitaria dei fisiocrati: è solo dopo che un crimine è stato compiuto che lo Stato può intervenire. (.…)

Il governo della popolazione

L’estensione progressiva a tutti i cittadini delle tecniche di identificazione una volta riservate ai criminali agisce immancabilmente sulla loro identità politica. Per la prima volta nella storia dell’umanità, l’identità non è più funzione della «persona» sociale e della sua riconoscibilità, del «nome» e della «fama», ma di dati biologici che non possono avere alcun rapporto con il soggetto, come gli arabeschi insensati che il mio pollice tinto di inchiostro ha lasciato su un foglio o l’ordine dei miei geni nella doppia elica del Dna. Il fatto più neutro e più privato diventa così il veicolo dell’identità sociale, sottraendogli il suo carattere pubblico.

Se criteri biologici che non dipendono per niente dalla mia volontà determinano la mia identità, allora la costruzione di un’identità politica diviene problematica. Quale tipo di relazione posso io stabilire con le mie impronte digitali o il mio codice genetico? Lo spazio dell’etica e della politica che eravamo abituati a concepire perde di senso ed esige di essere ripensato da cima a fondo. Mentre i cittadini greci si definivano mediante l’opposizione tra il privato e il pubblico, la casa (sede della vita riproduttiva) e la città (luogo della politica), il cittadino moderno sembra piuttosto evolvere in una zona di indifferenziazione tra il pubblico e il privato, o, per impiegare le parole di Thomas Hobbes, tra il corpo fisico e il corpo politico.

Questa indifferenziazione si materializza nella videosorveglianza delle strade nelle nostre città. Questo dispositivo ha conosciuto lo stesso destino delle impronte digitali: concepito per le prigioni, è stato progressivamente esteso ai luoghi pubblici. Ora uno spazio videosorvegliato non è più un’agorà, non ha più alcun carattere pubblico; è una zona grigia tra il pubblico e il privato, la prigione e il foro. Una tale trasformazione dipende da una molteplicità di cause, tra le quali occupa un posto particolare la deriva del potere moderno verso la biopolitica: si tratta di governare la vita biologica dei cittadini (salute, fecondità, sessualità, ecc.) e non più solo di esercitare una sovranità su un territorio. Questo spostamento della nozione di vita biologica verso il centro della politica spiega il primato dell’identità fisica sull’identità politica. (…)

Nei suoi corsi al Collège de France come nel suo libro Sorvegliare e Punire, Foucault accenna una classificazione tipologica degli Stati moderni. Il filosofo mostra come lo Stato dell’Ancien régime, definito come uno stato territoriale o di sovranità, il cui motto era «far morire e lasciar vivere», evolva progressivamente verso uno Stato della popolazione, dove la popolazione demografica si sostituisce al popolo politico, e verso uno stato di disciplina, il cui motto si inverte in «Lasciar vivere, e lasciar morire»: uno Stato che si occupa della vita dei sudditi al fine di produrre corpi sani, docili e ordinati.

Lo Stato in cui viviamo oggi in Europa non è uno stato della disciplina, ma piuttosto – secondo la formula di Gilles Deleuze – uno «Stato del controllo»: esso non ha come scopo ordinare e disciplinare, ma gestire e controllare. Dopo la violenta repressione delle manifestazioni contro i G8 di Genova, nel luglio 2001, un funzionario della polizia italiana dichiarò che il governo non voleva che la polizia mantenesse l’ordine, ma che gestisse il disordine: l’uomo non sapeva quanto avesse ragione. Da parte loro, alcuni intellettuali americani che hanno provato a riflettere sui cambiamenti costituzionali indotti dal Patriot act e la legislazione post-11-settembre preferiscono parlare di «Stato di sicurezza» (security state). (…)

Potenze destituenti

Ponendosi sotto il segno della sicurezza, lo Stato moderno esce dal campo della politica per entrare in una no man’s land di cui si percepisce male la geografia e le frontiere e per il quale il carattere concettuale ci manca. Questo Stato, il cui nome rimanda etimologicamente a una assenza di preoccupazione (securus: sine cura) può al contrario solo renderci più preoccupati dei pericoli che fa correre alla democrazia, poiché una vita politica vi è divenuta impossibile: ora democrazia e vita politica sono – almeno nella nostra tradizione – divenuti sinonimi.

Di fronte a un tale Stato, bisogna ripensare alle strategie tradizionali del conflitto politico. Nel paradigma securitario, ogni conflitto e ogni tentativo più o meno violento di rovesciare il potere forniscono allo Stato l’occasione di governarne gli effetti a beneficio di interessi che gli sono propri. È ciò che mostra la dialettica che associa strettamente terrorismo e risposta dello stato in una spirale viziosa.

La tradizione politica della modernità ha pensato i cambiamenti politici radicali sotto la forma di una rivoluzione che agisce come il potere costitutivo di un nuovo ordine costituito. Bisogna abbandonare questo modello per pensare piuttosto a una potenza puramente destituente, che non potrebbe essere rilevata dal dispositivo di sicurezza e precipitata nella spirale viziosa della violenza. Se si vuole arrestare la deriva antidemocratica dello Stato di sicurezza, il problema delle forme e dei mezzi di una tale potenza destituente costituisce proprio la questione politica essenziale che avremo bisogno di pensare nel corso degli anni a venire.


Rivolte del pensiero, dopo Foucault per riaprire il tempo

Posted: Dicembre 30th, 2013 | Author: | Filed under: Archivio, au-delà, bio, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, post-filosofia | 7 Comments »

Alias – di Beatrice Andreose, 13.9.2013

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Festival della filosofia. Mario Galzigna nel suo libro lancia la provocazione di unire l’empirico e il concettuale. Al pensiero in rivolta affida il compito di contrapporre “i futuri possibili”

Dal pen­siero in rivolta alle trame di futuro attra­verso una sov­ver­sione dif­fusa. Tal­volta, le rivolte del pen­siero, inter­se­cano il “movi­mento reale”, tal­volta sono disseminate,disperse, mole­co­lari. Costi­tui­scono sem­pre una pro­spet­tiva liber­ta­ria, lon­tana da disci­pline e potere, che Mario Gal­zi­gna ‚docente di Etno­psi­chia­tria e Sto­ria della cul­tura scien­ti­fica a Ca’ Foscari, ritrova in nume­rosi arti­sti ed in inso­spet­ta­bili opere. In Costru­zione di un edi­fi­cio del pit­tore fio­ren­tino Pie­tro Cosimo, ad esem­pio. Un qua­dro “intri­gante ed enig­ma­tico” scelto come imma­gine di coper­tina del suo ultimo libro “Rivolte del pen­siero. Dopo Fou­cault, per ria­prire il tempo” Bol­lati Borin­ghieri. Nel qua­dro, sot­to­li­nea Gal­zi­gna, il con­cetto di edi­fi­cio e l’ideale rina­sci­men­tale di costru­zione con­vi­vono. Scelte tema­ti­che e for­mali dell’artista che ignora i rife­ri­menti mito­lo­gici e reli­giosi della sua epoca per lasciar spa­zio ad un pro­getto“ che dischiude il tempo della civi­liz­za­zione a un futuro pos­si­bile”. Apre il pre­sente “ su sce­nari futuribili,dove pro­get­ta­zione e uto­pia diven­tano con­te­nuti dina­mici della tem­po­ra­lità”. Libro den­sis­simo, prosa ele­gante, in pre­fa­zione Mario Gal­zi­gna risponde alla pro­vo­ca­zione di Fou­cault( di cui è stato tra i più fedeli allievi ita­liani assieme ad Ales­san­dro Fon­tana), avviando una appro­fon­dita rifles­sione sul pen­siero che rompe le gab­bie della testua­lità, irrompe col vis­suto nella scena del mondo, intacca “alle radici la sovra­nità e l’autosufficienza del con­cetto”. Si tratta di un pen­siero in cui le cate­go­rie astratte tro­vano nell’esperienza la loro fonte di legit­ti­ma­zione “ Così si uni­sce ciò che la filo­so­fia ha sem­pre tenuto distinto: la vita ed il pen­siero, l’empirico ed il concettuale”scrive.

“Dispe­ranza” è il neo­lo­gi­smo che Gal­zi­gna conia per indi­care, la sot­tra­zione di futuro che affligge il nostro tempo schiac­ciato “sul deserto di un eterno pre­sente”. Al pen­siero in rivolta-e ai movi­menti di rivolta– affida il com­pito di con­trap­porre” i futuri pos­si­bili”. Si tratta di “ un com­pito poli­tico. Un com­pito filo­so­fico. Un nuovo oriz­zonte di senso per il pen­siero. Più mode­sta­mente, without vanity, una nuova pro­spet­tiva del nostro impe­gno intel­let­tuale e della nostra ricerca”.

Poi­ché, per dirla con Fou­cault, il carat­tere spe­ci­fico del potere è di essere repres­sivo e di repri­mere con una par­ti­co­lare atten­zione le ener­gie inu­tili, le inten­sità dei pia­ceri ed i com­por­ta­menti irre­go­lari, il pen­siero insor­gente e spae­sante pur essendo risul­tato spesso mino­ri­ta­rio nella sto­ria del pen­siero occi­den­tale, è tut­ta­via egual­mente fecondo e potente. Gal­zi­gna ritesse e incro­cia tra loro inven­zioni con­cet­tuali e forme este­ti­che di insorti d’eccezione, alcuni bor­der line, altri psi­co­tici, tutti geniali: da Ronald Laing, uno dei grandi padri dell’antipsichiatria euro­pea, al pit­tore Renè Magritte, dall’antropologo bra­si­liano Darcy Ribeiro al liber­tino Dide­rot. Ma prima di adden­trarci nel volume, una pre­messa sulla scrit­tura. L’autore uti­lizza un sug­ge­stivo regi­stro nar­ra­tivo che rompe le divi­sioni tra sag­gio e rac­conto, rispon­dendo così ad una esi­genza inte­riore di affer­rare l’evento in modo pre­gnante “resti­tuen­do­gli la sua irri­du­ci­bile spe­ci­fi­cità”. Al sag­gio alterna il rac­conto. Con quest’ultima forma scrive delle sue espe­rienze all’interno di due Ser­vizi di Salute Men­tale in con­te­sti psi­chia­trici, e di quella vis­suta in Bra­sile tra gli indios Gua­ranì a pro­po­sito dei quali riu­ti­lizza i con­cetti di sin­tesi disgiun­tiva e disgiun­zione creativa.

In quanto alla psi­chia­tria , lo spunto è dun­que un caso con­creto. Gal­zi­gna cita Roland Laing, psi­chia­tra non istituzionale,e parla di una seduta dove ad ela­bo­rare rispo­ste non è stato un sin­golo ma un col­let­tivo, un gruppo che pensa, che pro­duce pen­siero. “ Un pen­siero in rivolta esce da se stesso. Con­trad­dice se stesso. Si rivolge al mondo, cor­rode i dispo­si­tivi a cui appar­tiene: rompe abi­tu­dini con­so­li­date, desta­bi­lizza sce­nari ras­si­cu­ranti ed immo­bili, sma­sche­rando luci­da­mente l’arbitrio e la vio­lenza delle rela­zioni di potere che lo inclu­dono. Abi­tato dal fer­vore dell’istante, dalla temi­bile urgenza del dive­nire, dall’inquietudine del mol­te­plice, un pen­siero in rivolta con­tra­sta l’egemonia dell’uno e la tiran­nia dell’identico”. A pro­po­sito di fol­lia Gal­zi­gna parte da Fou­cault e parla di Esqui­rol che per la prima volta pschia­trizza le pas­sioni e l’erotismo. In un pas­sag­gio di grande effetto dia­let­tico richiama la neces­sità di legare assieme i saperi, i com­por­ta­menti, i modi di vita. “Per farlo occorre descri­vere, clas­si­fi­care, met­tere a fuoco la trama delle connessioni,il ven­ta­glio delle dif­fe­renze, lo spet­tro delle ana­lo­gie, il gioco delle somiglianze”.

Da pen­siero insor­gente ad altro pen­siero insor­gente: intri­gante il capi­tolo dedi­cato all’amato Anto­nin Artaud ed il suo tea­tro della cru­deltà. Artaud can­cella la scena desi­de­rando “l’impossibilità del tea­tro” e decre­tando così la fine di una duplice tiran­nia: quella del testo e quella dell’autore-creatore. Lo scrit­tore fugge dalla psi­coa­na­lisi, da cui si sente vio­len­tato, nono­stante si sot­to­ponga nel 1927 a dieci sedute col dot­tor Renè Allendy che aveva già seguito Anais Nin. Nel suo tea­tro la parola rompe col mondo della rap­pre­sen­ta­zione clas­sica e con i valori della cul­tura occi­den­tale che essa esprime. Diventa così la Parola che sta prima delle parole”: un lin­guag­gio sonoro, scrit­tura vocale che pre­cede la nascita del senso, che deve essere detta e reci­tata, più che ripro­dotta e tra­smessa. Che rap­pre­senta la potenza sonora del lin­guag­gio, la sua forza espan­siva, la sua pros­si­mità al grido”. In una let­tera a Gide, Artaud scrive “I gesti equi­var­ranno a dei segni, i segni var­ranno delle parole”. Nel suo attra­ver­sa­mento dispe­rato della fol­lia, docu­men­tata dalla tre­mila pagine dei Cahiers de Rodez, Artaud can­cella la cesura radi­cale tra anima e corpo, parola e esi­stenza, testo e carne e scor­pora la parola dall’insieme a cui appar­tiene ori­gi­na­ria­mente. Così come nella sua pit­tura che diventa pittogramma.

Nel capi­tolo dedi­cato ai liber­tini Gal­zi­gna descrive due visioni anta­go­ni­ste dell’erotismo fio­rite entrambe nel ‘700. Da una parte l’erotismo di Sade che separa il pia­cere dagli affetti. Dall’altro quello gio­coso e affet­tivo del grande Dide­rot pas­sando per Restif “ Una pro­ble­ma­tica di grande attua­lità che andrebbe ancora oggi ripen­sata” spiega. Infine il mistero nella pit­tura di Renè Magritte che nel suo L’impero delle luci rein­venta il con­cetto di sin­tesi disgiun­tiva e crea­tiva. “Un chiaro di luna a mez­zo­giorno” o “ sogno a mez­zo­giorno”, come lo defi­ni­sce lo stesso pit­tore in una let­tera scritta a Scu­te­naire nel novem­bre del 1959. Una vio­la­zione dei luo­ghi comuni, del nostro imma­gi­na­rio col­let­tivo, ovvero un pae­sag­gio not­turno e un cielo in pieno giorno che mette assieme in una stessa com­po­si­zione, pur man­te­nen­dole distinte, due dimen­sioni antagoniste:luce e buio, giorno e notte. Ed a pro­po­sito di sin­tesi disgiun­tive ecco l’affondo let­te­ra­rio dedi­cato agli amati Gua­ranì, un popolo oggetto di geno­ci­dio, che Gal­zi­gna incon­tra nell’ottobre 2012, durante un suo sog­giorno in Bra­sile “terra dei con­tra­sti”. Con­qui­stato dalla lin­gua del caci­que , vero e pro­prio capo spi­ri­tuale, Gal­zi­gna spiega la loro poli­tica anti­co­lo­nia­li­sta vista come una poli­tica di deco­lo­niz­za­zione del pen­siero. Per­ché, come scrive poco prima di morire un altro grande rivol­toso molto caro a Gal­zi­gna, l’antropologo bra­si­liano Darcy Ribeiro, “è meglio sba­gliare ed esplo­dere che pre­pa­rarsi per il nulla”.


La forza del vero di Michel Foucault

Posted: Dicembre 12th, 2013 | Author: | Filed under: au-delà, bio, epistemes & società, Foucault | Commenti disabilitati su La forza del vero di Michel Foucault

di Girolamo De Michele

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In un’intervista del 1981 al giornale “Gai Pied”, parlando della propria omosessualità e dell’amicizia come stile di vita, Foucault diceva: «il problema non è quello di scoprire in sé la verità del proprio sesso, ma di usare la sessualità per arrivare a una molteplicità di relazioni»1. Non si tratta di confessare la verità segreta di un desiderio, «si tratta di chiedersi quali relazioni possono essere istituite, inventate, moltiplicate, modulate attraverso l’omosessualità». Queste parole sul “divenire-omosessuale” esprimono bene la direzione verso cui, negli ultimi tre anni della propria attività al Collège de France (quella specie di «rendiconto pubblico di una libera attività», l’aveva definito nel corso del 1976), Foucault aveva orientato la propria ricerca. Non sorprende, dunque, che in questa torsione Foucault abbia dissodato il terreno della tarda antichità, dedicando gli ultimi tre corsi al mondo greco-romano, e in particolare, nell’ultimo anno, ai Cinici. O meglio: solo chi aveva praticato una lunga serie di fraintendimenti del lavoro foucaultiano a partire dalla Volontà di sapere come “blocco della ricerca”, ritirata davanti a uno scacco o presa d’atto di un fallimentare esito nelle weberiane gabbie d’acciaio della modernità – una sorta di consolatoria ritirata fra gli antichi, insomma, poteva rimanere sorpreso dal fatto che Foucault avesse non cercato nella verità degli antichi il senso del presente, ma piantato nietzscheanamente il concetto di parrhesia, di “parlar franco” (quella franchise con cui Slongo congiunge Foucault a Montaigne), nel cuore del tempo presente.

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IL FURTO LIBERALE

Posted: Dicembre 3rd, 2013 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, bio, comune, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | Commenti disabilitati su IL FURTO LIBERALE

cascata

in ALIAS – 30 novembre 2013

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presentazione editoriale


La scrittura è la morte degli altri

Posted: Ottobre 31st, 2013 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, Archivio, bio, comune, epistemes & società, Foucault, post-filosofia | Commenti disabilitati su La scrittura è la morte degli altri

di Michel Foucault

Michel

[Tra l’estate e l’autunno del 1968 Michel Foucault e il critico letterario Claude Bonnefoy registrarono una serie d’incontri con l’idea di pubblicare, presso le edizioni Belfond, un volume di conversazioni in cui Foucault avrebbe parlato del proprio rapporto con la scrittura. Il progetto fu poi abbandonato. La trascrizione di questi colloqui è stata resa pubblica nel 2004 e Cronopio ne ha da poco pubblicato la versione italiana: Il bel rischio. Conversazione con Claude Bonnefoy, a cura di Antonella Moscati. Presentiamo alcuni brani del libro. I titoli dei paragrafi sono redazionali].

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