Operai e capitale

Posted: Ottobre 3rd, 2013 | Author: | Filed under: comunismo, critica dell'economia politica, epistemes & società, Marx oltre Marx, postoperaismo, Révolution | Commenti disabilitati su Operai e capitale

Rileggere “Operai e capitale” – Lo stile operaista alla prova del presente

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In occasione della ripubblicazione di Operai e capitale (DeriveApprodi, settembre 2013), Commonware pubblica i materiali finora inediti del convegno in occasione della precedente edizione, a quarant’anni dalla prima. Il convegno si è tenuto mercoledì 31 gennaio 2007 alla facoltà di scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, promosso dalla casa editrice DeriveApprodi e dalla rete per l’autoformazione.

→ Relazione di Mario Tronti

→ Relazione di Alberto Asor Rosa

→ Relazione di Toni Negri

→ Relazione di Brett Neilson

→ Relazione di Rita Di Leo

→ Conclusioni di Mario Tronti

li trovate qui


La crisi perpetua come strumento di potere. Conversazione con Giorgio Agamben

Posted: Ottobre 2nd, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, au-delà, crisi sistemica, epistemes & società, post-filosofia, sud | Commenti disabilitati su La crisi perpetua come strumento di potere. Conversazione con Giorgio Agamben

Intervista uscita in tedesco il 24 maggio 2013 sul Frankfurter Allgemeine Zeitung e poi pubblicata in inglese dalla casa editrice Verso il 4 giugno 2013. La traduzione è di Nicola Perugini


Un impero latino contro il dominio tedesco?

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Professor Agamben, quando lo scorso marzo ha proposto l’idea di un “impero latino” contro il dominio tedesco in Europa, s’immaginava che questa idea avrebbe avuto una tale risonanza? Nel frattempo il suo saggio è stato tradotto in molte lingue e discusso appassionatamente in mezzo continente…

Giorgio Agamben: No, non me lo aspettavo. Ma credo nella forza delle parole, quando sono pronunciate al momento giusto.

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Euro al capolinea?

Posted: Ottobre 1st, 2013 | Author: | Filed under: crisi sistemica, critica dell'economia politica, epistemes & società | Commenti disabilitati su Euro al capolinea?

di RICCARDO BELLOFIORE e FRANCESCO GARIBALDO

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“C’è una linea sottile tra l’avere torto ed essere dei visionari. Sfortunatamente per vederla si deve essere dei visionari”
(Sheldon Cooper, The Big Bang Theory)

Il libro di Alberto Bagnai (Il tramonto dell’euro. Come e perchè la fine della moneta unica salverebbe salverebbe democrazia e benessere in Europa, Imprimatur , Roma 2012) è un libro utile sia lo si condivida nelle sue tesi di fondo sia, come nel nostro caso, pur apprezzandone i meriti, si abbiano su punti chiave opinioni diverse.

Il libro è utile in primo luogo perché rappresenta uno sforzo divulgativo di alto livello; ciò consente a molti di potere comprendere il merito di complesse questioni economiche e di potere quindi partecipare a una discussione, sulle sorti dell’Italia, che si vuole ristretta a minoranze tecnocratiche.

In secondo luogo perché è tra i primi, e altrettanto sicuramente lo fa con massima radicalità, che da noi pone la questione della dissoluzione dell’unione monetaria, e propone seccamente l’uscita dall’euro: una posizione che in varia forma ha preso il largo, e oggi molti, in un modo o nell’altro, vi aderiscono, senza avere forse il coraggio dell’estremismo della tesi di Bagnai. Tesi discussa, da almeno due – tre anni, da altri economisti non ortodossi italiani (tra gli altri, Bellofiore, 2010), e comunque ben presente nel dibattito tra gli economisti a livello internazionale. I dubbi sulla sostenibilità dell’euro risalgono per altro alla sua stessa nascita. (Gaffard, 1992; Grahl, 1997; in tempi più recenti Vianello, 2013, e per un inquadramento generale Toporowski 2010 e Wray 2012.

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Il bel rischio. Conversazione con Michel Foucault

Posted: Settembre 30th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, au-delà, bio, epistemes & società, post-filosofia | 8 Comments »

da Alfa+ Quotidiano in rete

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di Paolo B. Vernaglione

Scrivere è Il bel rischio perché è pericoloso. Essere nel linguaggio per l’animale umano comporta avere a che fare con il lato oscuro, il rovescio di sé, di cui oggi invero la superficie della prassi raramente rende conto. Nell’immensa opera di Foucault, scrivere significa confrontarsi con un’esteriorità, cioè riconoscere il mondo e l’insieme delle relazioni individuali, come effetto di un’azione comunque rischiosa in cui trovano corpo relazioni molteplici e intricate.

Nel 1968 il critico letterario della rivista “L’Art” Claude Bonnefoy, propone a Foucault una serie di interviste sul senso della scrittura come impresa personale. Leggere adesso quest’unica conversazione, interrotta e redatta da Philippe Artières, curatore dell’edizione francese del saggio, procura un piacere non dissimile da quello intenso e sfrangiato che si prova nello studiareStoria della follìa, Le parole e le cose, Il coraggio della verità. Con un supplemento, che emerge al vivo dalla puntuale traduzione di Antonella Moscati. Foucault infatti, incitato dalle domande di Bonnefoy, parla dello scrivere come “rovescio del ricamo”, cioè di quel modo in cui corpo e linguaggio tentano di aderire l’un l’altro nella radicale differenza che li separa.

Per Foucault non si tratta infatti di spiegare, denotare, indicare alcunché nel registro del saggio, della conferenza, della lezione universitaria; bensì di riflettere su quell’attività quotidiana che presiede l’insieme dei registri discorsivi, di quel carattere impersonale del linguaggio in cui si costituisce biologicamente e storicamente la soggettività. Quanto qui l’uso della facoltà di linguaggio sia in rapporto alla verità, in cui si consumano e si producono le scienze mediche, fisiche e sociali, emerge nel tema della morte che ogni scrivere organizza e mette in forma: la morte degli altri, nel caso di un’archeologia dei discorsi e delle pratiche, in cui ciò che è scritto è del passato, di gente morta. La propria morte che, a partire da quella di chi è trapassato, si organizza come morte individuale, nell’esibire la finitudine quale limite in cui è inscritta la natura umana.

Per Foucault non si tratta né di resuscitare storicisticamente il passato, né di ricostruirlo in una comunicazione, ma, in un’indagine genealogica, giocare la distanza tra quel passato e il nostro presente. Si tratta, con postura simile a quella di Walter Benjamin, di misurarlo e connetterlo alla serie di origini non originarie che contrassegnano i saperi, la loro storia, i loro rapporti con i poteri. L’immagine di questa attività così individuale e così lontana dall’espressione di una qualche identità personale, disloca un orizzonte di necessità. In questa conversazione Foucault distingue due luoghi dello scrivere, dello scrittore (più o meno professionista) e dello “scrivente” che è colui che incontrando un tema, un campo di indagine, un archivio, una filosofia, ne cerca la fonte, ne indaga l’ambito, ne manifesta i limiti, in modalità critica, ovvero affatto monumentale o celebrativa o apologetica.

Scrivere dunque è fare diagnosi, rendersi un anatomopatologo (di uomini infami, di norme ordinative, di modi di governo degli uomini), in quell’atto colmo di distanza dal mondo in cui si iscrive qualcosa nel corpo degli altri. Scrivere, dice Foucault a proposito dei suoi autori preferiti, Roussell, Artaud, Kafka, è il tentativo di far defluire nelle sillabe deposte sul foglio l’intera sostanza del corpo; “non essere altro che quegli scarabocchi, morti e ciarlieri a un tempo. Ma a questa riduzione della vita non si arriva mai…”.

Il bel rischio è da leggere insieme alla conferenza Che cos’è un autore?(1969), in italiano nella raccolta di Scritti letterari in risposta alle critiche sollevate L’archeologia del sapere. In quel testo Foucault testimonia la trasformazione del soggetto-autore, designato nell’età classica e fino alla metà del XVIII secolo, in una funzione-autore, in cui si raccoglie un regime di appropriazione (proprietà letteraria, diritti d’autore), un’imputazione nominale (“Rousseau ha affermato”, “Nietzsche ha detto…”), un’identità progettuale (omogeneità di stile, di discorsi, di tematiche), secondo l’eredità delle norme di inclusione/esclusione tramandate alla critica letteraria dalla tradizione interpretativa cristiana.

Ma per quanto sedimentato nell’odierna leggera inconsapevolezza del “piacere di scrivere”, il bel pericolo rimane un’urgenza, una necessità improcrastinabile in cui, aggiungiamo, allo stesso tempo tremano e si consolidano i profili definiti dello scrivente e dello scrittore. In quella zona di neutralizzazione che delimita il carattere specifico e arbitrario della prassi umana, si colloca l’anonimato, effetto di ogni scrittura. Forse oggi più di ieri esso vale quale criterio per distinguere ciò che è letteratura da ciò che, in maniera sempre più intensa e nauseante, è produzione narcisistica e mediatica di sé.

La grande editoria, che presiede al divenire merce del linguaggio, allestisce allo stesso tempo un teatro del consumo narrativo, mentre la critica letteraria ne produce l’ontologia, da cui sarebbe ora di prendere le distanze per costruire una resistenza facendo fronte comune di donne e uomini di buona volontà. L’esemplare lezione di Foucault infatti è che scrivere è proscrivere la nozione culturale di autore, mostrare che i tanti piccoli “io” che consumano carta, bit, e pagine culturali sono funzioni mercantili in cui la facoltà di linguaggio diviene forza di sfruttamento. Perché già da sempre e proprio ora, in essa tutti si è inscritti.

Michel Foucault
Il bel rischio
Cronopio (2013), pp. 86
€ 10,00


Sulla formazione delle anime nell’epoca della valorizzazione della vita

Posted: Settembre 28th, 2013 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, bio, comunismo, critica dell'economia politica, epistemes & società, Révolution | Commenti disabilitati su Sulla formazione delle anime nell’epoca della valorizzazione della vita

di Paolo B. Vernaglione

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E’ probabile che per attribuire un senso a quanto oggi va sotto il nome ambiguo e multisignificativo di “formazione” sia necessario mettere in prospettiva i concetti di orgine europea di istruzione e di educazione.

Ma per fare questo sarebbe opportuno indagare una archeologia del presente in cui si presentano valorizzate le attività umane, nel punto della modernità chiamato post-fordismo. Questa piega densa e flessibile del nostro tempo infatti sembra in qualche modo riepilogare la cultura bimillenaria europea, ma in primo luogo sembra far emergere i punti storici di frattura, le differenze e le dispersioni in cui oggi possiamo riconoscere le dinamiche inerenti alla formazione, i loro rapporti con la ricerca e con le scienze, nonché con l’insieme del sapere che, almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, si è accumulati intorno e nel concetto di formazione, al punto da “formarlo” e deformarlo a sua volta.

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Devi trasformare te stesso! Sulle antropotecniche

Posted: Settembre 25th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, bio, epistemes & società, post-filosofia | 8 Comments »

di Silverio Zanobetti

Sloterdijk

Nel suo Devi cambiare la tua vita Sloterdijk distingue un mondo moderno in cui le forze umane vengono mobilitate sotto il segno del lavoro e della produzione e un mondo antico in cui la mobilitazione estrema delle stesse forze si verifica in nome dell’esercizio e della perfezione. Se il mondo antico dovesse risorgere lo farebbe in nome di una vita incentrata sull’esercizio. In effetti l’esplosione contemporanea dell’offerta e della domanda di corsi di Coaching manager dedicati ai top manager e “a chi ne sente la necessità”, sono tesi proprio a migliorare le performance del “capitale umano” attraverso un’ottimizzazione delle competenze relazionali. In questi corsi ci si premura di sottolineare come l’elemento alla base del lavoro su di sé è l’ “individuo”, i suoi tratti caratteriali unici, che devono essere valorizzati: percezione, sensazione, memoria, durata costituiscono quella materia di soggettivazione che viene così catturata. Attraverso un lavoro su di sé l’individuo deve imparare a modulare i suoi stati emozionali, a diventare imprenditore di se stesso: l’esercizio diventa tortura laddove la cornice entro la quale questo esercizio si compie è costituita dall’attuale economia del debito[1]. Da qui la demoltiplicazione della forma impresa in tutto il campo sociale.

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Virno: SAGGIO SULLA NEGAZIONE. PER UNA ANTROPOLOGIA LINGUISTICA

Posted: Settembre 23rd, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, comune, comunismo, epistemes & società, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 19 Comments »

di Francesco Raparelli

Virno

Il pensiero, quando è grande, è sempre fuori posto. Capiterà così, vista la sua grandezza, all’ultima fatica di Paolo Virno, Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica (Bollati Boringhieri 2013), da pochi giorni in libreria. Per l’accademia, quella in odore di cognitivismo, l’autore concede troppo a testi esotici quali il Sofista di Platone, Scienza della logica di Hegel o la prolusione heideggeriana Che cos’è metafisica? Per l’“accademia di movimento”, perché autore di culto dei movimenti è stato Virno nell’ultimo ventennio, il testo risulterà scontroso: possibile dedicare tanta attenzione ad un tema ostile come la negazione linguistica? Poco importa che Deleuze, tra i pensatori che va per la maggiore tra le giovani generazioni di militanti, abbia dedicato pagine irrinunciabili a Bartleby e all’enunciato «agrammaticale» I would prefer not to, e le sue ricerche più brillanti alla logica stoica, alla «neutralità del senso», alle «sintesi disgiuntive», tutti temi che, da una prospettiva spesso diversa, scandiscono il Saggio sulla negazione. Fuori posto dunque capace di pensare l’impensato: questo il merito più importante dell’antropologia linguistica di Paolo Virno, giunta, con l’ultimo lavoro, ad una maturità potente, capace di fare scuola.

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derive del lavoro

Posted: Settembre 22nd, 2013 | Author: | Filed under: crisi sistemica, critica dell'economia politica, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo | Commenti disabilitati su derive del lavoro

di Paolo Vignola

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A partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, le forme del lavoro si sono profondamente trasformate, non solo in virtù del crollo dell’economia pianificata del blocco sovietico – evento che ha portato il mercato ad una fase di definitiva mondializzazione e di potenziale saturazione –, ma anche e soprattutto in ragione dell’impetuoso sviluppo dell’informatica che lo stesso mercato aveva favorito (si pensi al fenomeno della Sylicon Valley in California): per usare i termini di Marx, i vecchi rapporti di produzione sono stati polverizzati da un accelerato processo di innovazione tecnologica, che, insieme al ricorso alla robotizzazione, ha enormemente ridotto la necessità di manodopera. Un intero modello di organizzazione sociale, che aveva il suo centro propulsore nella fabbrica fordista, è entrato in crisi irreversibile, mentre il mercato ha cominciato a presentare una nuova divaricazione, quella che intercorre tra le grandi fabbriche ormai de-localizzate (dunque ormai incapaci di creare legami sociali sul territorio: si pensi al declino delle città minerarie degli Usa o al fenomeno dell’‘archeologia industriale’) da un lato e, dall’altro, alla disgregazione atomistica e alla semi-privatizzazione del lavoro cognitivo-progettuale, che nell’ultimo decennio del secolo appariva ancora piuttosto concentrato in Europa, negli USA e in Giappone. È in quegli anni che iniziano ad imporsi e a proliferare nuove forme di lavoro sempre più “precarizzate” e semi-private, innescate dai suaccennati processi economici e tecnologici ma, fin dagli anni ottanta, “facilitate” dall’adozione di nuove “politiche del lavoro” liberiste. In quegli stessi anni inoltre, secondo un’inesorabile logica interna, il capitalismo si va trasformando in senso finanziario, manifestando i prodromi della sua ulteriore metamorfosi rispetto alla versione “iper-consumistica” del ventennio Sessanta-Ottanta (il cosiddetto capitalismo della merce).

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The communism of capital?

Posted: Settembre 22nd, 2013 | Author: | Filed under: comune, crisi sistemica, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | 13 Comments »

by ephemera

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The communism of capital? What could this awkward turn of phrase mean, and what might it signify with regards to the state of the world today? Does it merely describe a reality in which communist demands are twisted to become productive of capital, a capitalist realism supplemented by a disarmed communist ideology? Or does the death of the capitalist utopia mean that capital cannot contain the antagonism expressed by Occupy and other movements anymore, and therefore must confront communism upfront?

The 12 contributions to this latest issue of ephemera explore the valances of the paradoxical and seemingly incoherent expression that is ‘the communism of capital’. Collectively they stake out new territory for the theorisation and organization of political struggle in a context in which capital has become increasingly aware that its age-old nemesis might today be lurking at its very heart.

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Che cosa rimane di Guy Debord. Intervista ad Anselm Jappe

Posted: Settembre 9th, 2013 | Author: | Filed under: arts, au-delà, epistemes & società, Marx oltre Marx, Révolution, situationism | 304 Comments »

di RICCARDO ANTONUCCI

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A margine del convegno dal titolo “I situazionisti: teoria, arte e politica”, tenutosi all’Università di Roma 3 lo scorso 30 maggio, abbiamo intervistato Anselm Jappe, tra i relatori di questa giornata insieme, tra gli altri, a Mario Perniola (1). Si è parlato della recente mostra degli archivi Debord alla Bibliothèque Nationale de France e dell’attualità, o meglio della feconda inattualità, dell’opera del pensatore francese.

Dopo aver partecipato al collettivo tedesco Krisis, Anselm Jappe insegna attualmente estetica all’EHESS di Parigi, e all’Accademie d’Arte di Frosinone e di Tours. Ha studiato a fondo la corrente situazionista, ed è autore di numerosi articoli e volumi, in francese, tedesco e italiano, tra cui spiccano: Crédit à mort (Paris 2011), Contro il denaro (Milano 2012) e i due importanti volumi Guy Debord (Paris 2001, ried. Roma 2013) e L’avant garde inacceptable (Paris 2004).

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