Posted: Febbraio 6th, 2017 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, bio, Deleuze, epistemes & società, Foucault, post-filosofia | 65 Comments »
Cet ouvrage comporte une série d’études sur la question de la violence dans la pensée du XXe siècle. Chaque étude interroge à sa façon la circularité critique que la question de la violence introduit entre pensée politique et anthropologie. À partir d’Arendt, de Fanon ou d’Althusser, de Deligny ou de Girard, de Deleuze ou de Balibar, chacune met en question la possibilité d’une fondation anthropologique de la politique, et la possibilité d’un discours anthropologique qui ne présuppose déjà une politique.
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Posted: Febbraio 4th, 2017 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, Deleuze | 8 Comments »
Deleuze’s thought is reflected in so much pop culture that once you start to notice it, you will see his philosophy everywhere. The work of David Byrne, the oddball cofounder and eccentric frontman of Talking Heads, is no exception. Byrne’s huge back catalogue, coupled with his growing library of books, is filled with Deleuzean phenomena. Here are five examples in which Byrne’s lyrics, and his musical style, can help us to understand what Deleuze was trying to get at.
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Posted: Dicembre 29th, 2016 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, Deleuze, post-filosofia | Commenti disabilitati su Deleuze, il movimento reale del molteplice
di Giso Amendola
Tempi presenti. Il saggio «Gilles Deleuze» (DeriveApprodi) di Michael Hardt libera il campo dalla lettura neoliberista del filosofo francese. E svela la politicità dell’opera, considerandola come un nodo nella trama critica dello status quo
All’inizio degli anni Novanta, nel 1993, due anni prima della morte di Gilles Deleuze, Michael Hardt pubblica uno dei primi lavori monografici in lingua inglese dedicati al filosofo di Logica del senso e Differenza e ripetizione: oggi Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia torna disponibile grazie a DeriveApprodi e alla “neonata” collana Operaviva (l’edizione italiana è a cura di Girolamo De Michele, la traduzione è di Cecilia Savi).
Quando esce originariamente il libro di Hardt, la recezione di Deleuze nei paesi anglosassoni sta avvenendo a seguito di quell’ondata di interesse per il pensiero radicale continentale che ci avrebbe fatto parlare poi di una French Theory. Il libro di Michael Hardt ha davanti originariamente questo panorama: il poststrutturalismo è stato sì accolto nel panorama americano, ma è stato letto soprattutto come una sorta di più o meno ironica e disincantata critica del fondamento, un abbandono lineare e senza scosse della tradizione filosofica, senza che questo congedo riesca a sviluppare una reale potenza costruttiva e critica.
L’obiettivo dichiarato di Hardt è quello di ribaltare questa visione del poststrutturalismo: si tratta di rivendicare al poststrutturalismo la capacità di attraversare la modernità cercandone le “filiazioni alternative”, e di affrontare la questione del fondamento evitando di rimanere impigliati nella meditazione perpetua sulla sua eclissi.
Le tappe di un percorso
Oggi le carte in tavola sono cambiate: più che mirare a spegnere la sua forza critica edulacorandola, l’attacco al poststrutturalismo, e a Foucault e Deleuze in particolare, tende esplicitamente ad accusarlo per una sorta di complicità, più o meno consapevole, con lo stesso neoliberalismo. Il desiderio in Deleuze? Cedimento alle passioni “appropriative” del neoliberalismo. L’attenzione alle soggettività, alla pluralità, al divenire e alla trasformazione? Apologia, più o meno mascherata, dell’individualismo, del soggetto-impresa. Davanti a questa nuova, fastidiosa chiacchiera, la ripubblicazione del libro di Hardt è una boccata d’aria salubre, e, insieme, una sfida quasi provocatoria a tutti i discorsi sull’ambiguità politica del poststrutturalismo.
La lettura che Hardt offre di Deleuze, e più precisamente dei suoi primi grandi incontri filosofici con Bergson, Nietzsche e Spinoza, si separa infatti da qualsiasi concessione alle retoriche di un facile “postfondazionismo”: è anzi una rivendicazione fortissima del nesso tra ontologia, etica e politica nel discorso deleuziano. La forza di queste pagine, oggi forse ancor meglio apprezzabile, è mostrare come il poststrutturalismo, per quanto ci si affanni a mostrarlo come un astruso gioco culturale, se non “culturalista”, sia in realtà ben impiantato nel campo della produzione: produzione dell’essere, della soggettività, e infine dell’organizzazione.
Prima stazione del percorso: la questione ontologica. Questione spinosa, a cominciare dallo stesso uso del termine “ontologia”. Perché – ed Hardt ne è perfettamente consapevole – la tradizione filosofica ha operato un vero e proprio sequestro del discorso ontologico. La ripresa dell’ontologia nel Novecento richiama immediatamente la concezione della differenza in Heidegger, tutta nel segno del sottrarsi dell’essere, del ritirarsi del fondamento: non a caso, è ontologia frequentata da tutte le meditazioni sull’eclissi dell’essere, di indole sia tragica che ironica, che popolano il postmoderno.
Di ontologia in Deleuze, invece, si può parlare a buon diritto proprio in quanto la si installa all’interno di tutt’altra tradizione: quella affermativa e positiva che legge la differenza come produzione interna dell’essere, e immanente all’essere stesso. La differenza non “cade” dall’essere, non lo nasconde, non lo cancella, come avviene nell’emanazionismo di marca neoplatonica: la differenza non è destinata ad errare nel mondo delle ombre. Hegel imputava una concezione di questo tipo, dove l’essere fa impallidire ogni differenza, proprio a Spinoza: Deleuze invece ricolloca l’ontologia spinoziana al posto che le pertiene, all’interno di una concezione, che il filosofo francese chiarisce già nei suoi primi scritti su Bergson, secondo la quale la differenza, anzi le differenze, sono movimento dell’essere, non distanza e caduta dall’essere e suo infinito consumarsi.
Ma ancor più che contro la “differenza ontologica” di Heidegger, l’ontologia deleuziana ha come suo nemico principale la dialettica hegeliana. Per Hegel, la differenza non può che essere concepita come determinazione: a sua volta, la determinazione è un movimento di negazione. Ci si determina negando attivamente l’indifferenziato, l’indeterminato, in ultima analisi negando quel nulla che coincide con la purezza astratta dell’essere.
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Oltre Hegel
È, per l’appunto, l’attacco fondamentale di Hegel a Spinoza, poi ripetuto da tutti coloro che vedranno nell’idea dell’essere produttivo sempre una minaccia dell’informe, del caotico, del mancante di differenziazione. La replica di Deleuze è molto decisa: la determinazione come atto di negazione non fa altro che introdurre una dimensione radicalmente esterna al movimento dell’essere. La negazione fa dipendere la determinazione da una causa esterna: l’essere che si determina negandosi è un essere eternamente dipendente, sempre bisognoso di qualcos’altro.
Hardt richiama giustamente l’attenzione sull’importanza che ha il concetto di causa efficiente nell’ontologia deleuziana: la causa necessaria, non contingente, non è mai la causa materiale, cui guardano tutti i materialisti ingenui, che interviene in modo del tutto contingente, e neppure la causa finale, amata dai platonici, che pone l’ordine come fine trascendente: l’unico concetto di causa che può muovere un materialismo fondato sulla potenza produttiva dell’essere, è la causa efficiente, la causa sui degli scolastici.
L’effetto non cade mai al di fuori della causa, e, allo stesso modo, la differenza è sempre produzione interna del movimento dell’essere: l’essere non manca di nulla. Non opposita, sed diversa: non la determinazione per opposizione e negazione, ma l’essere come matrice di produzione di differenze.
Superamento del negativo
Questa opposizione netta all’idea di determinazione per negazione da un lato segna tutta l’ontologia produttiva deleuziana, dall’altro apre alla sua portata etica affermativa. Ci sono nel testo di Hardt alcune pagine bellissime, sulla dialettica servo-padrone, che chiariscono come la scelta deleuziana per il movimento positivo della differenza, contro la determinazione attraverso il negativo, ci porti nel cuore di scelte etico-politiche fondamentali.
Cosa significa, concretamente, immaginare la differenza come negazione? Significa per esempio, che il servo hegeliano sceglie di determinarsi, di fronte all’assoluto indeterminato che è la morte, rivolgendo la propria forza contro se stesso, realizzando la propria autocoscienza attraverso l’educazione al lavoro. Nei termini di Nietzsche, si tratta di una triste e infelice etica del risentimento contro la propria stessa potenza. In termini hegeliani, è attraverso il negativo, tenendo a freno il desiderio, che lo schiavo conquista la sua essenza.
Hardt ricorda qui l’Alfonso voce narrante e protagonista del Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, il giovane migrante meridionale nelle fabbriche del Nord Italia degli anni Sessanta e Settanta: “mai mi è venuto in mente di festeggiare il lavoro”, dice Alfonso, quelli che individuavano pane e lavoro come propria essenza erano irrecuperabili. Primo movimento: distruggere l’idea che ci si determini nel trattenimento, in un dirigersi della propria forza contro se stessi. Appunto, distruggere l’idea che “ogni determinazione è negazione”.
Contemporaneamente, si apre il secondo movimento: la distruzione del negativo diventa scoperta felice che quella esigenza di lotta, di liberazione della propria forza, è esigenza condivisa negli incontri: “la gioia di essere finalmente forti. Di scoprire che ste esigenze che avevano sta lotta che facevano erano le esigenze di tutti era la lotta di tutti”, sempre per dirla con le parole di Alfonso.
L’incontro con Spinoza
Non si potrebbe indicare meglio che con questa gioia di operai irriducibili al lavoro che scoprono la pars construens della loro lotta, il passaggio dall’ontologia all’etica: dall’essere come produzione, all’essere come producibile, per dirla con Hardt. L’affermazione ontologica dell’essere come produzione immanente, causa sui, distrugge l’alterità del fondamento, la sua lontananza, e contemporaneamente, afferma l’essere stesso come il risultato, sempre aperto, di un processo di produzione da parte delle differenze.
Hardt, indagando soprattutto l’incontro di Deleuze con Spinoza, aiuta qui a fare piazza pulita di un altro ritornello, spesso recitato dai custodi del “negativo”: quello per cui questa visione dell’essere come produzione ci consegnerebbe a una sorta di beatitudine statica, a un ottimismo metafisico paradossalmente impotente. Il punto è che l’ontologia della produttività dell’essere ci apre sì a un essere “mobile e malleabile”, dinamico e produttivo: ma, allo stesso tempo, ricorda Hardt “alla potenza di esistere e di agire corrisponde la potenza di essere affetto”.
Deleuze trova specialmente in Spinoza questa congiunzione tra produzione e affezione: affezioni attive, che corrispondono all’essere causa di noi stessi, adeguati alla nostra potenza attiva d’essere e produrre, ma anche affezioni passive, da cause esterne, dove la potenza non coincide con la propria causa. E questo incrocio materialistico di produzione e affezione apre tutto il gioco degli incontri, felici o infelici, delle variazioni della potenza, del suo accrescersi in combinazioni che corrispondono felicemente alla struttura dei corpi, come del suo andare a male negli incontri inappropriati. L’essere non solo non è il fondamento che, immoto, ci sostiene, non solo è il processo sempre aperto che ci produce ma è, al tempo stesso, anche il prodotto della nostra capacità, sempre reversibile, di trasformarci attraverso affetti e passioni.
La politicità riscoperta
Da questa etica della produzione della soggettività, ontologicamente impiantata, si genera una politica degli assemblaggi e della sperimentazione di organizzazione, a partire dal piano sempre aperto della trasformazione sociale. Alla determinazione attraverso il negativo corrisponde l’idea di un Ordine che si impone sempre come causa esterna su un molteplice, letto inevitabilmente come campo del mancante e del carente, bisognoso dei suoi pastori: l’ontologia produttiva apre invece lo spazio di una politica che certo “benedice” il molteplice e la pluralità, ma che non per questo ignora il nemico, le sanguisughe che separano continuamente la potenza dalla sua causa, che provano a recintarla attraverso le “strutture verticali dell’ordine”.
Un campo aperto: e certo aperto resta completamente il tema, intensamente politico, dell’organizzazione e della costituzione, in altri termini il problema di come evitare che questa incessante produttività della società si affermi solo in un campo d’orizzontalità liscio, senza riuscire a darsi consistenza e durata. Molti materiali, nel lavoro remoto e recente sulla politica deleuziana, possono approfondire concetti fondamentali come, per esempio, quello di istituzione: pensiamo per esempio, alle ricerche che sull’istituzione in Deleuze ha condotto negli anni Ubaldo Fadini, nel segno di uno sviluppo originale del tema della “positività” in Deleuze, o a tutto il dibattito recente sulla giurisprudenza in Deleuze come modello alternativo alle concezioni legalistiche del diritto (ne è un esempio un libro di De Sutter su Deleuze e il diritto di qualche anno fa).
Intanto, questo solido materialismo radicato nella produzione/produttività dell’essere può lottare contro il neoliberalismo strappandogli il vero segreto della sua potenza: l’infamia con cui traduce nel linguaggio della proprietà e della valorizzazione capitalista la forza dell’autonomia della cooperazione sociale, del pluralismo e dell’autorganizzazione. Altro che alleati del neoliberalismo: questi poststrutturalisti che scansano felicemente il negativo e benedicono il molteplice sono quelli che insegnano come affrontare il nemico senza attestarsi su posizioni reattive o nostalgiche, come non lasciare ai neoliberali la forza di un sociale capace di affermazione e di trasformazione.
Posted: Dicembre 10th, 2016 | Author: agaragar | Filed under: comunismo, crisi sistemica, critica dell'economia politica, Deleuze, digital conflict, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, Nietzsche, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo | 60 Comments »
a cura di Obsolete Capitalism <a href="http://obsoletecapitalism.blogspot.it/
E’ finalmente disponibile online l’antologia e.book curata dal collettivo Obsolete Capitalism intitolata «Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski» (Edizioni Rizosfera/Obsolete Capitalism Free Press, 2016).
Gli autori sono: Algorithmic Committee, Sara Baranzoni, Edmund Berger, Lapo Berti, Paolo Davoli, Ettore Lancellotti, Network Ensemble, Obsolete Capitalism, Obsolete Capitalism Sound System, Letizia Rustichelli, Francesco Tacchini, Paolo Vignola.
Siamo proiettati a velocità fotonica nella comunicazione istantanea e nel controllo continuo mentre le forme di dominio rapido appaiono inarrestabili. Il museo delle ideologie si riempie di concetti in via di esaurimento quali capitalismo, neoliberismo, marxismo, keynesismo. Ora, con più esattezza, il sistema modula i vari flussi che innervano il pianeta: Moneta, Ricerca, Controllo, Informazione, Circuito sono i vecchi nomi che attraverso una nuova velocità producono potere. Maggiore è l’immanenza del Mercato, maggiore è la probabilità che al conflitto si sostituisca l’interruzione, il virus, la fuga di notizie, l’invisibilità, il fuori-circuito, la biforcazione. Uno squarcio nella «zona grigia» dell’egemonia.
Gli autori del libro Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire indagano alcune aree poco battute di politica accelerazionista attraverso linee teoriche contagiate dalle filosofie più visionarie: Nietzsche, Klossowski, Deleuze, Guattari, Foucault. Più che analizzare la grande trasformazione culturale in atto, la presente antologia evidenzia i pericoli in cui incorre il pensiero del futuro quando ancora mantiene pratiche, schemi e linguaggi di un’epoca industriale e post-industriale che mostra in tutti i suoi aspetti una crisi perpetua. Siamo tutti coinvolti nel duro intreccio di liberazioni insperate e nuovi asservimenti che ci prospetta la presentificazione del futuro da parte della tecnologia a linguaggio numerico, ma – come afferma Deleuze – «non è il caso né di avere paura, né di sperare, bisogna cercare nuove armi». Sperimentare è dunque il primo impegno politico e filosofico per un futuro differente
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Posted: Dicembre 10th, 2016 | Author: agaragar | Filed under: bio, comunismo, crisi sistemica, critica dell'economia politica, Deleuze, epistemes & società, Marx oltre Marx | Commenti disabilitati su Marx, moneta e capitale
Intervista a Lapo Berti, economista della rivista «Primo Maggio»
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Posted: Novembre 27th, 2016 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, Deleuze, epistemes & società, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su ANTI OEDIPE ET MILLE PLATEAUX: DUALISMO, MONISMO E MOLTEPLICITA’
Dualismo, monismo e molteplicità
Lezione di Deleuze tenuta a Vincennes (1973, inedita)
“Non sono molte le occasioni in cui Deleuze si è confrontato direttamente con l’opera lacaniana… ancora meno sono le occasioni in cui Lacan ha citato e chiamato in causa il lavoro del filosofo francese. Ciò che tuttavia è doveroso rilevare, secondo noi, è che, per quanto rimosso, il rapporto tra i due autori è stato intenso e per certi versi fecondo nell’influenzare reciprocamente le loro opere più tarde. In Pezzi Staccati, Jacques-Alain Miller afferma che Il seminario XXIII. Il sinthomo, di Lacan, è “la messa in positivo dell’Anti-Edipo”.
Questa lezione di Deleuze, tenuta nella leggendaria sede Universitaria di Vincennes a Parigi nel 1973, in un certo senso mostra alcune importanti tracce di questo incontro mancato. Per questo riteniamo necessario approfondirne la lettura e ne proponiamo qui un’inedita traduzione in italiano” (Dalla Premessa dei curatori, Alessandro Siciliano e Federico Chicchi)
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Posted: Maggio 11th, 2016 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, crisi sistemica, Deleuze, epistemes & società, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo, posthumanism, psichè, Révolution, vita quotidiana | 103 Comments »
di Federico Chicchi
Il libro di Franco Berardi (Bifo), L’anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia (DeriveApprodi, 2016), ha il ritmo e l’appeal di una danza orientale. Non solo perché seduce e accompagna il lettore passo a passo, in virtù della sua cadenza sinuosa, ma soprattutto perché, in modo cristallino, disvela e mette a nudo, la pervasività della metamacchina capitalistica e la sua azione tossica sull’anima.
Il libro chiarisce fin da subito che per reagire alla catastrofe psichica e sociale del capitalismo contemporaneo è necessario avere ben presenti le ragioni del salto di paradigma che ha caratterizzato e quindi trasfigurato, a partire dalla prima metà dei Settanta, l’economia e la società occidentale.
«Lo sfruttamento industriale concerne i corpi, i muscoli, le braccia. (…) Ma se dalla sfera della produzione industriale ci spostiamo alla sfera della produzione digitale, scopriamo che lo sfruttamento si esercita essenzialmente sul flusso semiotico che il tempo di lavoro umano è in grado di emanare» (p. 8). Ecco allora il sedimentarsi di un capitalismo del cognitivo e dell’immateriale, ma anche del seduttivo e degli affetti. Un capitalismo in cui produzione e riproduzione sociale si riflettono vicendevolmente e incessantemente allo specchio, creando uno spazio di coincidenza che non presenta soluzioni di continuità. Occorre quindi aver chiaro che il paradigma dialettico (e quindi anche il Marx troppo fedele a quest’ultimo) è oggi divenuto insufficiente a dare conto e quindi a sviluppare una critica efficace del nuovo discorso capitalista: «abbiamo capito bene che la storia moderna non procede dialetticamente verso un esito positivo, e che non si vede al suo orizzonte alcun superamento dialettico. Essa appare piuttosto come un dispositivo patogeno, come un doppio legame» (p.61).
La comunicazione paradossale e continuamente fluttuante che attraversa il mediascape del semiocapitalismo è più che una ragione assoluta e monolitica, piuttosto si configura come un insieme di prescrizioni normative e di stimolazioni all’azione che, inquadrate in una plastica assiomatica di sfondo, non sembrano affatto procedere nella stessa direzione. Le stesse rendono poi praticamente impossibile stabilizzare, in seno a una comune pratica sociale, una visione conflittuale collettiva. «Ne risulta così un sistema di fraintendimenti, ingiunzioni contraddittorie, sovrapposizioni perverse» (p. 61) che rende il potere apparentemente incontrastabile e senza volto.
L’anima al lavoro ripercorre una buona parte della stratificazione concettuale che ha caratterizzato fin dai suoi esordi il pensiero critico e anticapitalistico, e nel ripercorrerlo con scaltrezza Bifo rivela i passaggi (anche quelli più improbabili e funambolici) e le cesure che si sono situati tra le sue categorie fondative e che hanno costituito le basi del pensiero postoperaista (che si preferisce qui chiamare composizionista) cui lo stesso Bifo sente di appartenere. E come in un noto racconto di Alphonse Allais, non ci si accontenta qui di spogliare la danzatrice dai suoi veli ma la stessa è invitata a disfarsi anche della sua pelle. Perché è dell’osso del pensiero critico qui depositato che Franco Berardi va mirabilmente alla caccia. Non però per spiluccarselo ma per poterlo conficcare nuovamente in seno al presente.
Il campo di battaglia si è dunque spostato ancora di più sul piano dell’immaginario, oltre l’ideologia e le egemonie culturali, proprio al centro dell’anima (nell’inconscio e nei suoi fantasmi, aggiungo io) della soggettività in formazione. Il dominio dell’immaginario crea le premesse per il dispiegarsi di un panorama
Insomma un libro che va affrontato, senza frenare il piacere della lettura, con attenzione perché solo così ci lascerà la netta e tangibile sensazione di poter comprendere più a fondo l’anima precaria e digitalizzata della caosmotica soggettività contemporanea. Riassumiamo. L’anima al lavoro è dunque un saggio utilissimo per due urgenze principali. La prima riguarda la possibilità di meglio inquadrare – seguendo il filo genealogico delle categorie critiche che dalla alienazione portano fino alla metamacchina digitale – la contemporaneità e le nuove modalità con cui il semiocapitalismo comanda e governa le condotte sociali; la seconda perché permette di pungolare, criticare e quindi rinnovare quello che Bifo chiama il pensiero composizionista, ovvero quello che altri in modo più arrischiato hanno qualificato come Italian theory.
Quest’ultimo, secondo l’autore, ha avuto il grande merito di porre il desiderio come campo centrale della Storia. Abbandonare cioè l’idea della realizzazione di una totalità che di fatto nega l’alterità, nella quale l’alterità è tolta. Questo è davvero uno snodo fondamentale del volume. «L’incontro tra pensiero autonomo italiano e pensiero desiderante francese non è stato un caso fortuito dovuto a eventi politici e biografici. A un certo punto, nel vivo della lotta sociale, per il movimento autonomo è diventato necessario utilizzare categorie di tipo schizoanalitico per analizzare il processo di formazione dell’immaginario sociale» (p. 161).
Il metodo composizionista è l’incontro di queste istanze che assumono il campo del desiderio come campo di lotta e di rizomatica geometria dei differenti flussi sociali. La sfida è però stata raccolta anche dal capitale (e in gran parte vinta) attraverso quelle che Berardi chiama le immageenering corporations. Il campo di battaglia si è dunque spostato ancora di più sul piano dell’immaginario, oltre l’ideologia e le egemonie culturali, proprio al centro dell’anima (nell’inconscio e nei suoi fantasmi, aggiungo io) della soggettività in formazione. Il dominio dell’immaginario crea le premesse per il dispiegarsi di un panorama terribile in cui la precarietà viene generalizzata come condizione generale cui si è irrimediabilmente e socialmente esposti e attraverso cui prende forma «un regime di violenza pura, illimitata, disumana». Un campo che con l’impiego delle tecnologie digitali e della microelettronica il capitale sa fare suo senza troppa fatica. Non c’è affatto da stare allegri, insomma.
Per questo se potessimo azzardare e indicare uno dei protagonisti del volume in questione, questo sarebbe senz’altro il tema della seduzione. L’anima al lavoro è, in altre parole, la descrizione di come il lavoro deve farsi oggi necessariamente seduttivo, altrimenti non ottiene legittimità nella distribuzione del salario sociale, altrimenti paradossalmente non si collega più al suo valore d’uso sociale. A questo importante ruolo di primo piano si arriva attraverso un autore tanto straordinario quanto per certi versi negletto, che per una serie di motivi (cui Franco Berardi accenna soltanto) è stato per troppo tempo tenuto al di fuori o ai margini del pensiero composizionista: Jean Baudrillard.
Bifo lo riprende, con cautela e originalità, calandolo all’interno del contesto semiocapitalistico attraverso due piste fondamentali; due piste che devono a mio avviso assolutamente rientrare nello spazio critico del presente. La prima è, come si capirà presto, piuttosto scabrosa: non saremmo affatto secondo Baudrillard in un regime di repressione del sesso, ma al contrario, saremmo completamente affondati nella «ingiunzione di dirlo, di dichiararlo (…), costrizione di produzione del sesso. La repressione non è che una trappola e un alibi per nascondere la consacrazione di tutta una cultura dell’imperativo sessuale» (Baudrillard, Dimenticare Foucault, p. 71).
La seconda riguarda l’affermarsi di quella che potremmo chiamare il regno della simulazione di prospettiva, inteso come il formarsi di una sorta di «inconsistenza ontologica» in cui il rapporto tra segno e realtà risulta completamente saltato. «Simulazione, nel senso che tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale». Detto in altro modo e più specificatamente: la peculiare capacità del capitale, rompendo ogni referenza stabile tra concetto e realtà, è quella di mostrare le contraddizioni del sistema là dove in realtà nulla più accade e può accadere (facendo così girare per lo più a vuoto la pratica critica e conflittuale).
«Alla nozione di desiderio egli [Baudrillard] – scrive Bifo – oppone quella di disparition, extermination, o piuttosto la catena simulazione – disparizione – implosione» (p. 198). La simulazione come fantasmagorie senza prototipo. I segni non rimandano a fatticità reali ma semplicemente a fantasmi senza corpo. La società viene invasa da una bulimica offerta di segni e l’energia libidinale è parassitata dai simulacri del capitale. Il fantasma della merce diviene l’unico sostrato immaginario dove la soggettività può riparare ed esprimere la sua sessualità, instaurare una cinica contabilità del godimento fine a se stessa.
Anche lo psicoanalista francese Jacques Lacan aveva, d’altra parte, intuito qualche anno prima, il costituirsi di qualcosa di nuovo: «qualcosa è cambiato nel discorso del padrone da un certo momento della storia […] il punto importante è che, a partire da un certo giorno, il più-di-godere viene contato, contabilizzato totalizzato. Comincia allora quel che è chiamato accumulazione del capitale (…). La società dei consumi ha senso in quanto, all’elemento cosiddetto umano tra virgolette, viene dato come equivalente omogeneo un qualsiasi più-di-godere prodotto dalla nostra industria – un più-di-godere, in realtà, fasullo» (Lacan, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, pp. 223-224).
Il godimento e con lui il desiderio viene dunque numerato, misurato, contato, tradotto in merce. La soggettività diviene in questo modo una cifra da inserire in una contabilità generale della pulsione di crescita capitalistica. Il desiderio del soggetto è dunque continuamente sollecitato affinché, non senza resistenza (non è questa che fa problema, anzi!), venga impressionato in questa metrica sociale che il mercato e il pensiero economico traduce e rende socialmente praticabile. «Il suo segreto consiste nel lampeggiare intermittente di una presenza. Non essere mai là dove la si crede, mai là dove la si desidera. […] La posta in gioco è provocare e deludere il desiderio, la cui unica verità è brillare e restare deluso» (Baudrillard, Della seduzione, p. 118).
Ecco allora che la simulazione, la produzione incessante di godimenti fasulli, come processo fondamentale del nuovo capitalismo, di cui ci parlano Baudrillard e Lacan, rende fluido e radicalmente instabile il rapporto tra soggetto e oggetto costringendo il primo a una posizione pervertita e cioè quella «di chi soggiace a una seduzione» mentre però sul piano fenomenologico (e della volontà) lo stesso soggetto continua ad apparire come colui che agisce, mentre è sedotto e allineato al discorso della merce, come il seduttore. La patologia sociale prevalente è quella dell’obbligo a esprimersi continuamente e senza pause, senza fallimenti, saper sedurre e farsi sedurre al contempo, pena la propria evanescenza dalla comunicazione sociale.
Eppure oggi come forse non si sperava quasi più, nelle piazze, nelle frontiere, nelle strade dell’Europa si alza nuovamente un ritornello comune e cioè «che il paradigma economico non può più essere la regola universale dell’attività umana» (p. 275). La scommessa è allora, come ci sembra indichi qui Franco Berardi, quella di riuscire a costruire una nuova nozione di ricchezza che non sia più istruita dal rapporto salariale e non sia più fondata sul possesso e lo sfruttamento, ma invece su di un’equa e autonoma distribuzione del godimento.
Posted: Febbraio 17th, 2016 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, bio, crisi sistemica, Deleuze, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, posthumanism, postoperaismo, Révolution, vita quotidiana | 56 Comments »
di DAMIANO PALANO
Il tempo della disperazione
Al termine del Disagio della civiltà, dopo aver mostrato come il processo della civilizzazione fosse il risultato del controllo progressivamente esercitato sul corredo pulsionale degli esseri umani, Freud veniva a contrapporre l’una all’altra le due forze elementari che riteneva di avere scoperto, Eros e Morte. E proprio nelle righe finale, aggiunte nel 1931, segnalava come i pericoli maggiori per il genere umano giungessero dalla pulsione di morte e dalle tendenze aggressive che ne discendevano:
«Il problema fondamentale del destino della specie umana, a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione»[1].
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Posted: Gennaio 16th, 2016 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, Deleuze, epistemes & società, Marx oltre Marx, postoperaismo, Révolution | 8 Comments »
di Paolo Godani
L’idea di mondo è la nuova edizione ampliata di un libro ormai classico, che Paolo Virno pubblicò nel 1994 per manifestolibri con il titolo Mondanità. Il testo era composto dal saggio omonimo e da un altro intitolato Virtuosismo e rivoluzione, ai quali ora se ne accompagna un terzo, scritto nel 2014: L’uso della vita. Quest’ultimo – avverte l’Autore – non è da considerarsi come un’appendice o un «contrappunto al canovaccio teorico elaborato vent’anni or sono», bensì come una sorta di «enunciazione stenografica, scandita da tesi perentorie, di un programma di ricerca ancora da realizzare».
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Posted: Giugno 12th, 2015 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, arts, au-delà, bio, Deleuze, epistemes & società, post-filosofia, Révolution | 166 Comments »
by Bernard Stiegler
The capture of attention by technological means is a global phenomenon (affecting all continents), a massive one (affecting all generations and all social strata) and totally new: the length of capture has now reached 6 hours a day in the USA, not to mention the phenomena of hyper-attention, to use the term of Katherine Hayles, which provoke a splitting of attention between several media simultaneously, and which motivate the Kaiser family foundation to modify its figures – increasing the average number of hours to 8 and a half per day for American adolescents.
Humanity has never experienced such a phenomenon of synchronised and hyper-realist collective hallucination, and the consequences of these facts on psychical and collective individuation are as yet hardly theorized, although they are beginning to enter as objects of the study of psychopathology, or investigations in the human sciences, for example the case of the syndrome of cognitive saturation. Nevertheless, the pathogenic factors caused by this actual situation remain most of the time analysed in “neurocentric” terms – as for the questions tied to attention deficit – when in fact their causality is massively sociotechnical and therefore economic-political, even though the neuropsychic “terrains” play their role.
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