Étienne Balibar: Se l’Europa fosse un contropotere
Se l’Europa fosse un contropotere
“La risposta alla crisi da parte delle élite europee e dei mercati è l’instaurazione di uno stato d’eccezione incentrato su una «dittatura commissaria”
Intervista a Étienne Balibar
a cura di Benedetto Vecchi
da il manifesto, 19 nov. 2011
La provocazione arriva a metà del seminario tenuto all’Università di Bologna. «Quello che sta accadendo in Europa può essere considerato la messa in forma di un nuovo modello di governo politico. Stiamo cioè assistendo al rilancio del processo di unificazione politica dopo la battuta d’arresto successiva ai referendum francese, olandese e irlandese, che misero in evidenza il diffuso dissenso al processo avviato dai tecnocrati di Bruxelles.
Oltre il welfare verso il commonfare: dalla ri/produzione sociale alla rendita sociale
Convegno Internazionale UniNomade – Milano 3-4 dicembre 2011
Il seminario intende analizzare come i sistemi di welfare attuali siano solo in parte adeguati a far fronte ai cambiamenti sociali ed economici che hanno caratterizzato il processo di accumulazione e valorizzazione contemporaneo, alla luce, e sulla base, delle soggettività che oggi definiscono il mercato del lavoro.
Il seminario è articolato in tre sezioni, tra sabato 3 dicembre e domenica 4 dicembre.
Le prime due sessioni hanno come oggetto la discussione del concetto di welfare del comune. L’ipotesi di partenza è che il welfare del comune (che va oltre il welfare pubblico e va oltre il workfare) si fondi sui due pilastri principali della garanzia di reddito e dell’accesso ai beni comuni come strumenti per favorire la riappropriazione sociale e la distribuzione più equa della rendita socialmente prodotta. La terza si propone di riflettere sul tema della governance dei beni comuni e di quali strumenti e proposizioni sia necessario attuare per immaginare una gestione degli stessi.
Prima sessione:
Analisi del rapporto “comune”, moneta, ricchezza: sabato 3 dicembre: h. 10.30-13.00
Presso: Unione femminile nazionale- Corso di Porta Nuova, 32 – Milano (Mezzi pubblici: Metrò – linea verde: Moscova – linea gialla: Turati – Autobus – 43, 94 – Tram – 29, 30, 33, 11, 1, 2 – http://www.unionefemminile.it/raggiungerci.php)
Programma:
Introduce: Andrea Fumagalli
Relazioni di Michael Hardt e Guy Standing (30 minuti per intervento)
Dibattito con interventi programmati di Marco Silvestri (Il diritto all’insolvenza) e Christian Marazzi (Moneta o reddito come bene comune)
Seconda sessione:
Analisi del rapporto “comune” /pubblico, “comune”/famiglia: sabato 3 dicembre, h. 15.00-19.00
Presso: Unione femminile nazionale – Corso di Porta Nuova, 32 – Milano (Mezzi pubblici: Metrò – linea verde: Moscova – linea gialla: Turati – Autobus – 43, 94 – Tram – 29, 30, 33, 11, 1, 2 – http://www.unionefemminile.it/raggiungerci.php)
Programma
Introduce: Cristina Morini
Relazioni di Carlo Vercellone e Montserrat Galceran (30 minuti per intervento)
h. 16.30 – h. 17.30
Lavoro di discussione in due workshop distinti sui temi:
1.Territorio: esperienze No-Tav e No-Expo di Milano
2. Trasporto: esperienza del ticket crossing di Genova e delle battaglie sui treni regionali nell’hinterland milanese
3. Casa: esperienze di lotta sulla casa esempio, a Milano. Le forme di riappropriazione nel quartiere San Siro.
4.Esperienze di autogestione dei corsi universitari: riappropriazione del sapere.
5.Lavoro di cura e riproduzione: esperienze di gestione del rapporto “comune” – famiglia
6.Sanità: esperienze di gestione e relazione con i degenti
7.Comunità migranti: nuovi modelli possibili di mutuo soccorso
Ore 17.30 -19.00 Relazione sui workshop e dibattito
Terza sessione:
Analisi del rapporto “comune” /istituzioni: domenica 4 dicembre, h. 10.30 – 13-30.
Presso: Circolo Arci Bellezza- Via Bellezza, 16 – Milano (Mezzi pubblici: Autobus 90-91 – Tram – 9, 24. Metrò- linea gialla: Porta Romana)
Programma
Introduce: Sandro Mezzadra
Relazioni di Ugo Mattei e Toni Negri (30 minuti per intervento)
[Quanto sto per esporre rappresenta il mio pensiero. Non è il frutto di un dibattito all’interno di Carmilla, in cui possono convivere punti di vista differenti.]
Le vecchie formule marxiane vanno riviste. Secondo Marx, è noto, si passava storicamente dalla formula originaria M-D-M (merce – denaro – merce) a D-M-D (denaro-merce-denaro). Non ipotizzava che si potesse giungere alla formula attualmente vigente: D-D (denaro-denaro).
Eppure è a questo che siamo. Si parla di crisi dovuta al debito. Debito di chi e verso chi? Tutti i paesi più sviluppati sono indebitati l’uno con l’altro. Attraverso le banche, e soprattutto le banche centrali. Questo non significa che la “crisi” delle loro popolazioni somigli a quella degli africani oppressi dalla siccità, degli asiatici costretti allo schiavismo lavorativo, dei sudamericani condannati a una miseria ancestrale. Ogni passo verso quei “modelli” deriva, più che dalla crisi finanziaria, dai mezzi messi in campo per uscirne.
La lotta degli “intermittenti dello spettacolo” in Francia
a cura di Andrea Inglese
Maurizio Lazzarato, sociologo e filosofo, residente a Parigi, si è occupato approfonditamente del movimento sociale più innovativo e duraturo che la Francia abbia prodotto nell’ultimo ventennio, ossia il movimento dei cosiddetti intermittents du spectacle, artisti, operai o tecnici, che lavorano nell’ambito del cinema, della televisione, della musica o del teatro. Lazzarato, con Antonella Corsani, ha pubblicato nel 2008 anche un libro, Intermittents et Précaires, che raccoglie i risultati di uno studio nato dalla collaborazione tra militanti del movimento e ricercatori universitari intorno alla figura ibrida del “lavoratore culturale”. Ci pare importante, oggi, ritracciare la storia di questa lotta e la riflessione sulla realtà che essa ha prodotto. Almeno da quando un movimento come TQ ha riunito per la prima volta in Italia autori, lavoratori dell’editoria e piccoli editori, per interrogarsi criticamente sul ruolo che la generazione dei trenta-quarantenni riesce a svolgere all’interno del mondo culturale, considerando sia le condizioni di lavoro sia i privilegi e le posizioni di dominio che vigono in esso. […]
Sulla Repubblica del 2 Novembre Barbara Spinelli pone, con la chiarezza e l’acutezza che la distinguono, due problemi decisivi del momento presente. In un articolo dal titolo “Più poteri all’Europa” si chiede quali conseguenze porterà il cosiddetto “commissariamento” europeo che interessa l’Italia – paese evidentemente incapace di uscire dalla situazione di ingovernabilità in cui l’ha spinta l’arroganza ignorante della destra più irresponsabile di tutti i tempi, ma anche la viltà intellettuale e la subalternità del centro-sinistra.
Il “commissariamento” imbarazza indigna e offende – dice Spinelli. Ma non dovrebbe, perché in effetti può essere visto all’incontrario, non come una condizione di debolezza e di inadeguatezza della politica italiana, ma come una condizione di flessibilità che – trasformando la necessità in virtù – darebbe a questo paese l’opportunità di sperimentare un’avanzata forma di cessione di sovranità e quindi aprirebbe le porte ad un ampliamento dell’ambito di governo dell’Unione, e parallelamente, ad una riduzione delle rigidità sovranitarie o nazionaliste. L’Italia potrebbe in questa occasione giocare un ruolo di apertura e di avanguardia, a patto di rovesciare l’atteggiamento oggi prevalente in un atteggiamento di assunzione consapevole del ruolo di innovazione istituzionale che il paese “commissariato” potrebbe assumere, quando accettasse un processo di condivisione delle decisioni economiche, sociali, e politiche, e quando avesse l’autorevolezza necessaria per chiedere agli altri paesi (Francia e Germania incluse) di accettare una simile flessibilità post-nazionale e una simile disposizione post-sovranitaria.
Fin qui m’inchino alla lungimiranza della scrittrice.
Ma c’è un secondo punto su cui – me ne dispiaccio – debbo dichiarare il mio disaccordo. Giustamente Spinelli distingue tra perdita di sovranità e perdita di democrazia. Rinunciare alla sovranità nazionale è buono, dal punto di vista del progresso europeo. Male sarebbe invece, si lascia sfuggire Spinelli se si verificasse una perdita di democrazia. Ma su questo punto non si sofferma abbastanza. E invece dovrebbe.
Come la maggior parte dei commentatori politici, Barbara Spinelli giudica severamente la decisione di Papandreou di indire un referendum per decidere se consegnare o meno quel che resta della società greca al diktat ultramonetarista della banca centrale europea. E’ strano come la grande maggioranza dei commentatori che si definiscono democratici considerino in modo così altezzoso il diritto dei popoli a decidere sul proprio futuro. Si può pensare che Papandreou avrebbe dovuto indire un referendum nella primavera del 2010, prima di esporre il suo popolo alla violenza scatenata dei banchieri che ha spolpato e umiliato la società ellenica. Meglio tardi che mai, verrebbe da aggiungere.
Non si può infatti accettare che si prendano decisioni di vitale importanza che riguardano l’intera società greca (questioni di vita o di morte), senza concedere ai cittadini neppure il diritto di rispondere a un referendum.
Dopo diciotto mesi di devastazione finanziaria e conseguenti impoverimento, disoccupazione, repressione, e umiliazione politica – il premier Papandreou decide di fare una cosa che dovrebbe essere considerata assolutamente normale, in un mondo che ama definirsi democratico. Convoca una consultazione che permetterà al popolo greco di discutere e di decidere se accettare o respingere il diktat della classe finanziaria europea. Non l’avesse mai fatto. La reazione dei mercati è il panico generalizzato, il crollo delle borse, la minaccia di gettare l’Europa in un abisso. Ma non la chiamavano democrazia di mercato? Pare che il capitalismo non sopporti più l’esistenza della democrazia, e l’esistenza stessa della civiltà. Ma se la democrazia e la civiltà decidessero che è venuta l’ora di liberarsi del capitalismo?
Zizek ha detto recentemente che il dogmatismo imperante preferisce pensare che stia per arrivare la fine del mondo (e preferisce sfidarla) piuttosto che ammettere, più ragionevolmente, che è finito il capitalismo. Forse è questa la prospettiva cui dovremmo abituarci, e da cui dovremmo ripartire: il capitalismo è finito. Cosa viene dopo?
Postoperaismo o la trasformazione di capitale e lavoro
di MICHAEL BLECHER
“Un sapere che non afferri la tua vita nella sua interezza vale poco o nulla”, Luciano Ferrari Bravo
I. Poiesi Non-Sistemica
Parlare da outsider di postoperaismo sul maggiore sito ‘postoperaista’ italiano è impresa rischiosa – al di là dei problemi che i protagonisti potrebbero avere con questa definizione.[1] Mi accingo allora subito ad applicare la solita ‘clausola liberatoria’ dichiarando che ‘tutti gli errori sono esclusivamente miei’. Comunque questa specie di re-entry si deve non ultimo al fatto che finora il postoperaismo viene ‘riconosciuto’ più all’estero che non in Italia; almeno se si considera che i libri scritti da Michael Hardt e Antonio Negri, protagonisti di quel postoperaismo, sono dei bestseller internazionali. Inoltre sta nascendo un dibattito internazionale sulle valenze dei loro concetti che si deve probabilmente alla mancanza di un’adeguata teoria e prassi critica di fronte alle ultime mosse auto-valorizzanti che il capitalismo finanziario sta lanciando sotto il profilo di una ‘crisi’ costante.
“The only way to learn is by doing. [The point is] to learn in order to realize goals that were previously considered as unimaginable”, Michael Hardt and Antonio Negri.
Capitalism is ontologically (and almost economically) dead, thus we do not need the kind of transitory revolutions that characterized the relation of opposition between those who produce real value and those who simply invest capital for production to occur. Another transitory revolution would cause a temporary resurrection of capitalism: indeed, capitalism can exist only if something else, us – or the multitude, continue to fight against it. By contrast, the singularities composing the multitude should have the interest on putting their hands on the dispostifs of the State only for dismantling them. A better strategy is a non-reactionary exodus from capital towards a self sustaining, horizontally developed and cooperation-inducing G/Local multi-currency system.
There is the need for a revolutionary transition. What does this mean?
«Occorre tornare a quella critica dell’economia politica che assuma il capitale come rapporto sociale nella sua totalità». Il manifesto, 4 settembre 2011
Le ricette per uscire dalla crisi oscillano tra un liberismo light o un liberismo ancora più radicale di quello che ha prodotto il default di alcune economie nazionali . Un sentiero di lettura a partire dai saggi dello studioso inglese. Rimedi omeopatici che costringono a pensare i rapporti sociali come una totalità da destrutturare. La finanza è il nemico, mentre l’etica del lavoro, la comunità e il rigore sono l’ancora di salvezza del capitalismo.