C’è qualcosa che rende simile l’economia alla religione, e cioè che, anche per l’economia, il suo meglio è che essa susciti eretici. Che nella scienza economica ci sia bisogno di eresia ce lo spiegano gli americani che da tempo guardano con inquietudine a quanto sta accadendo in Europa, in particolare a quella famigerata dottrina secondo cui occorre fare tutto il possibile per raggiungere il pareggio di bilancio.
Dopo la riscoperta di Marx è la volta di Lenin, interpretato come un agit prop del capitalismo di stato. La crisi sbriciola la messianica fiducia nel mercato e rende così attuali cassette degli attrezzi teorici troppo rapidamente considerate obsolete. Un recente numero dell’«Economist» affronta il rinnovato protagonismo dello stato nella vita economica.
Nell’ottobre 1921, Lenin tenne alcuni discorsi in cui spiegò il significato della svolta nella gestione dell’economia sovietica inaugurata nella primavera precedente, dopo gli anni del «comunismo di guerra». Lenin la chiamò «Nuova politica economica», donde l’acronimo «Nep» con cui è passata alla storia e poi nel dimenticatoio.
La sua idea di fondo era che, accentrando la produzione e la distribuzione nelle mani dello stato, i bolscevichi avevano commesso l’errore di voler passare direttamente alla produzione e distribuzione su basi comuniste, dimenticando che a ciò si arriva attraverso un lungo e complicato periodo di transizione. La «Nuova politica economica» muoveva dal fatto che avevano subito una grave sconfitta e iniziato una ritirata strategica.
Era senz’altro comprensibile che molti si sentissero sgomenti, perché la svolta della Nep, implicando la possibilità per i produttori di scambiare liberamente sul mercato tutto ciò che dei loro prodotti non era assorbito dalle imposte, significava in buona misura restaurazione del capitalismo. La questione fondamentale, dal punto di vista strategico, era anzi proprio quella di capire chi avrebbe saputo approfittare della nuova situazione: avrebbero vinto i capitalisti, ai quali i bolscevichi stavano aprendo le porte prima serrate della produzione pubblica, e avrebbero cacciato i comunisti, oppure il potere statuale, continuando a regolare la moneta e la produzione, sarebbe riuscito a tener ferme le redini al collo dei capitalisti, creando un capitalismo subordinato allo stato e posto al suo servizio? Molto sarebbe dipeso dal partito comunista: se gli fosse riuscito di organizzare i produttori immediati in modo da sviluppare le loro capacità e di garantire a questo sviluppo il sostegno dello stato, bene; altrimenti, essi sarebbero stati presto asserviti al capitale.
Globalizzazione burrascosa
Così, grosso modo, scriveva Lenin in La Nuova politica economica e i compiti dei centri di educazione politica. Si potrebbe facilmente rilevare che, rilette oggi, le sue parole sembrano una gigantesca metafora del «secolo breve», quasi che cent’anni di evoluzione e rivoluzioni in Europa (e non solo) fossero stati lì contratti in meno di un decennio. Ma non è su questo che qui vorremmo richiamare l’attenzione. Il punto è che nell’analisi di Lenin sta racchiusa l’intera problematica del «capitalismo di stato»: che è questione nient’affatto tramontata, se perfino l’Economist ha sentito il bisogno di dedicarvi un corposo inserto (quattordici pagine!) nell’ultimo numero del mese scorso. Per metterla in forma di domanda: davvero il capitalismo di stato rappresenta un modello che – come scrive il settimanale inglese – sta emergendo a livello mondiale come alternativa al capitalismo liberale di marca angloamericana? E prima ancora, che cos’è il «capitalismo di stato»?
Da un punto di vista fenomenologico, possiamo descriverlo con le stesse parole dell’Economist: il capitalismo di stato «cerca di fondere le forze dello stato con le forze del capitalismo». La promozione della crescita economica è affidata all’azione dei governi, ma essi nel perseguirla si avvalgono anche di strumenti tipici del capitalismo, ivi comprese aziende statali quotate in borsa che nuotano come pesci nel mare della globalizzazione. Una miscela apparentemente contraddittoria che però funziona: a fronte della crisi economica in cui sono drammaticamente precipitate le economie capitalistiche occidentali, il capitalismo di stato può infatti contrapporre il più grande successo economico degli ultimi trent’anni, ossia quel «miracolo cinese» fatto di tassi di crescita del Pil del 9,5% all’anno. Lo stato cinese – ci ricorda l’Economist – non è soltanto il maggiore azionista delle 150 aziende più grandi del Paese, né semplicemente una guida o un pungolo per migliaia di altre: specialmente attraverso il potente Dipartimento dell’organizzazione del Partito comunista, esso plasma nell’insieme il mercato attraverso la gestione della moneta e delle politiche creditizie, indirizzando i flussi di denaro coerentemente con le scelte di politica industriale, e per di più lavora a stretto contatto con le aziende cinesi che si stanno espandendo all’estero (specie nel continente africano).
Lo Stato va in Borsa
Non si tratta, peraltro, di un’esperienza unica nel mondo industrializzato. Le aziende pubbliche costituiscono l’80% della capitalizzazione della borsa cinese, ma anche il 62% di quella russa e il 38% di quella brasiliana: come dire che è in gran parte del «Bric» (l’acronimo che designa Brasile, Russia, India e Cina) che il capitalismo di stato sta celebrando la sua marcia trionfale. Per non parlare dell’espansione dei «fondi sovrani» cinesi e arabi (ma anche norvegesi, russi, australiani), attraverso i quali il Leviatano statale, dopo aver vestito i panni del capitalista industriale, assume anche le sembianze del capitalista finanziario.
Ad una più attenta analisi, tuttavia, la fenomenologia del capitalismo di stato rivela un doppio paradosso. Soprattutto (anche se non solamente) in Cina, le aziende di stato sono diventate più efficienti e più potenti proprio mentre il settore statale complessivamente considerato si restringeva; d’altra parte, la capacità dei governi di incidere sulle leve fondamentali dell’economia si è accresciuta proprio mentre il settore privato si espandeva. L’Economist lo rileva, ma non riesce a darne una spiegazione. Affermare che, in un regime di capitalismo di stato, «i politici hanno di gran lunga più potere che sotto il capitalismo liberale» è semplicemente tautologico: il problema è infatti proprio quello di spiegare che cosa conferisca loro questo potere di «utilizzare il mercato per promuovere fini politici».
C’è un’impegnativa e assai poco meditata affermazione di Lenin dalla quale possiamo prendere le mosse per spiegare il paradosso. Risale ad un testo scritto nei giorni immediatamente precedenti la rivoluzione d’Ottobre e suona così: «il capitalismo monopolistico di stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo». Non è un caso che Lenin la riprenda testualmente in uno intervento (Sull’imposta in natura) che appare proprio nell’anno della svolta verso la Nep: letta insieme ad un’altra che di poco la precede e che spiega il senso della topica («Non significa forse, quando si riferisce all’economia, che nel regime attuale vi sono degli elementi, delle particelle, dei pezzetti e di capitalismo e di socialismo?»), essa mette in chiaro che, nell’opinione del leader bolscevico, l’espressione «capitalismo di stato» nasconde in realtà una duplice problematica: 1) se, e a quali condizioni, la proprietà statale dei mezzi di produzione possa dar luogo a nuovi rapporti di produzione di tipo «socialista»; 2) se, e in che modo, codesti nuovi rapporti di produzione possano coesistere con quelli preesistenti di tipo capitalistico.
Volgendo lo sguardo indietro allo sviluppo economico sovietico degli anni Venti del Novecento, possiamo in effetti apprezzare la pregnanza dell’ipotesi leniniana. La Nep fu bensì connotata da un ampio sviluppo del commercio, dal ristabilimento del ruolo allocativo della moneta e più in genere dall’influenza che i movimenti dei prezzi tornarono ad esercitare sulle scelte di consumo e investimento. Ma fu altresì caratterizzata dall’espansione di un insieme di apparati statali che sottraevano parzialmente la riproduzione allargata dall’influenza diretta dei rapporti mercantili, grazie soprattutto al ruolo svolto dalla pianificazione, dalla centralizzazione del bilancio pubblico e dalla realizzazione di programmi pubblici di investimenti.
Tra Mosca e Weimar
Per altro verso, la spinosa querelle che a metà del decennio si accese all’interno del partito bolscevico circa il carattere «genetico» o «teleologico» della pianificazione, nascondeva la questione (non meno decisiva) se codesta sfera di attività produttive finalmente sottratta all’imperio dei rapporti mercantili dovesse essere complessivamente subordinata al funzionamento del sistema capitalistico o posta, viceversa, in posizione relativamente dominante. Fintanto che si fosse limitato a riflettere le tendenze «spontanee» del sistema economico, il piano non avrebbe mai potuto assurgere a criterio orientativo delle scelte produttive fondamentali a prescindere dalla loro redditività monetaria: per liberare le scelte di politica economica (a cominciare da quella relativa all’industrializzazione) da un impiccio del genere, occorreva al contrario spezzare la logica del pareggio di bilancio, il che a sua volta richiedeva un sistema bancario capace di assecondare le crescenti esigenze di espansione monetaria, evitando al contempo che quest’ultima degenerasse in un’inflazione rovinosa come quella che, giusto in quegli anni, affliggeva l’esperimento socialdemocratico di Weimar.
Il laboratorio di Shenzen
Sta qui, in questo complesso mix di misure reali, monetarie e finanziarie, l’arcano che può consentire allo stato di sottrarre le condizioni d’impiego dei mezzi di produzione (ivi compresa la forza-lavoro) alle esigenze di valorizzazione del capitale. E sta nella duplicità dei rapporti che vengono a presiedere il processo complessivo di produzione e riproduzione sociale il segreto del movimento inversamente oscillatorio della disoccupazione e dell’inflazione che, molti anni dopo, A.W. Phillips avrebbe formalizzato nella sua famosa curva. Già all’epoca della Nep, il prevalere dell’una o dell’altra avrebbe infatti costituito una spia della (relativa) dominanza assunta dall’uno o dall’altro sistema di rapporti di produzione: quelli capitalistici ovvero quelli statuali.
Si racconta che nel 1980, all’indomani del varo della prima «Zona economica speciale» di Shenzhen, i dirigenti cinesi si affannassero a cercare nelle Opere complete di Lenin un qualche appiglio che potesse giustificare la scelta di concedere a privati cittadini diritti di uso e di trasferimento che concernevano il lavoro, i mezzi di produzione, gli edifici e perfino la terra. Non c’è da stupirsi che, alla fine, l’abbiano scovato proprio in alcuni testi redatti all’epoca della Nep, né che Chen Yun – che tra i leader storici del Pcc è stato forse il maggior esperto di pianificazione economica – abbia fin da subito proposto di circoscrivere l’esperimento riformatore iniziato nel 1978 nell’ambito dell’«economia dell’uccello in gabbia»: nella capacità di suscitare le forze dello sviluppo capitalistico e al contempo di controllarle in modo che «non volassero via» possiamo in effetti scorgere la principale realizzazione della strategia trentennale dei comunisti cinesi.
Messa la cosa in questi termini, risulta certo più chiaro il significato di certe espressioni ossimoriche così tipiche dei dirigenti cinesi, a cominciare da quella di «economia di mercato socialista». Il fatto è che il «mercato» è semplicemente un proscenio, ovvero (e più precisamente) una delle istituzioni sociali in cui si manifesta il nesso di dominanza/subordinazione concretamente esistente fra i rapporti di produzione capitalistici e i rapporti di produzione statuali («socialisti»). E il fatto che al momento siano questi ultimi ad essere saldamente attestati in posizione dominante è ciò che consente di giudicare la formazione economico-sociale cinese come irriducibilmente altra rispetto a quelle «capitalistiche» occidentali: non già perché all’interno di queste non si diano forme di cooperazione produttiva non più condizionate dal perseguimento del profitto monetario (basti pensare agli apparati pubblici preposti al welfare: scuole, ospedali, ecc.), ma semplicemente perché esse non sono (più) dominanti. L’infinita e stolida giaculatoria sull’«insostenibilità» del debito pubblico ne costituisce probabilmente la migliore conferma.
Il mercato del pubblico
Lascia perciò perplessi l’Economist allorché, a conclusione del suo rapporto, afferma perentoriamente che «la battaglia che definirà il XXI secolo non si combatterà fra capitalismo e socialismo, ma tra differenti versioni del capitalismo»: quel Lenin suggestivamente ritratto in copertina suggerisce piuttosto che la partita che si gioca intorno al «capitalismo di stato» è affatto aperta e per nulla predeterminabile nei suoi esiti ultimi.
Certo, si può sempre ritenere che il comunismo andrebbe ripensato «a partire dalla distanza dallo statalismo e dall’economicismo», come hanno sostenuto (quasi) tutti i partecipanti ad un importante convegno sull’«idea comunista» svoltosi proprio a Londra qualche anno fa.
All’estremo opposto, dei comunisti che volessero prendere sul serio gli insegnamenti del «miracolo cinese» dovrebbero interrogarsi sulle ragioni del consenso di cui hanno goduto in Occidente quelle politiche economiche che hanno progressivamente smantellato analoghi strumenti di controllo e governo pubblico dell’economia capitalistica, che risalivano agli anni ’30. Mi rendo conto, però, che è difficile credere che si diano parentele di sorta tra il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels e lo Statuto del Partito comunista cinese approvato giusto 160 anni dopo. Se poi si è anarchici, è perfino impossibile.
Per rilanciare il dibattito attorno alla rubrica “America Latina” di Uninomade, mi sembra importante innanzitutto giustificare qui di nuovo il fatto di aver aperto quella rubrica, insistendo sullo studio del pensiero politico e delle pratiche istituzionali, sull’informazione sulle lotte, sulle sconfitte e sulle conquiste dei movimenti popolari e di classe… insomma vorrei prima di tutto spiegare di nuovo perché per noi di Uninomade 2.0, l’America Latina costituisca un vero e proprio laboratorio politico.
Lo scopo di quest’articolo è di caratterizzare, nel quadro teorico post-operaista, il senso logico e storico della marxiana legge del valore, nel passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo.In questa prospettiva, l’analisi si svilupperà in tre stadi. Nel primo si proporrà di precisare cosa bisogna intendere per legge del valore/tempo di lavoro e in cosa consiste la sua articolazione alla legge del plusvalore di cui è una variabile dipendente e storicamente determinata. In riferimento a questa articolazione utilizzeremo la nozione di legge del valore/plusvalore. Nel secondo e nel terzo stadio, l’attenzione sarà focalizzata sulle principali dinamiche che spiegano la forza progressiva della legge del valore/plusvalore nel capitalismo industriale, quindi la sua crisi nel capitalismo cognitivo.
Giorno dopo giorno siamo sempre più debitori: nei confronti dello Stato, delle assicurazioni private, delle imprese… E per onorare i nostri debiti siamo sempre più costretti a diventare «imprenditori» delle nostre vite, del nostro «capitale umano». Il nostro orizzonte materiale ed esistenziale viene così del tutto stravolto.
Il debito, tanto privato che pubblico, è la chiave di volta attraverso la quale leggere il progetto di un’economia fondata sul pensiero neoliberista.
Rileggendo Marx, Nietzsche, Deleuze e Foucault l’autore dimostra che il debito è anzitutto una costruzione politica e che la relazione creditore/debitore è il rapporto sociale fondamentale delle nostre società.
Perché il debito non è semplicemente un dispositivo economico, è anche, e soprattutto, una tecnica di governo e di controllo delle soggettività individuali e collettive.
Come sfuggire alla condizione neoliberista dell’uomo indebitato? Per Maurizio Lazzarato la risposta non è semplicemente economica. Ciò che dobbiamo rimettere in discussione è proprio «il sistema del debito» oggi alla base della struttura del capitalismo.
Maurizio Lazzarato, sociologo e filosofo, vive e lavora a Parigi dove svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove forme di movimenti sociali. In italiano sono disponibili: La politica dell’evento (Rubbettino 2004), Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività (ombre corte, 1997) e Videofilosofia (manifestolibri, 1997).
1. Non c’era bisogno delle parole di Mario Draghi per capire che la crisi ha ormai raggiunto in Europa una soglia di irreversibilità. Crisi di «dimensioni sistemiche», aveva detto Jean-Claude Trichet un paio di mesi fa. Ora Draghi, suo successore alla guida della Banca Centrale Europea, ci informa che «la situazione è peggiorata» (16 gennaio). Difficile capire che cosa significhi il peggioramento di una crisi di «dimensioni sistemiche». Certo è che gli scenari che si prospettano per i prossimi mesi sono assai cupi, non solo per chi ormai da anni sta pagando la crisi e il farmaco che la alimenta – l’austerità, o più “sobriamente” il rigore. Anche settori consistenti del capitale e delle classi dirigenti europee cominciano a essere assaliti dal dubbio che, nel gigantesco processo di riassestamento globale degli equilibri di potere in atto, corrono il rischio di figurare tra i perdenti.
A piu’ di un secolo dalla morte, K.Marx viene trattato, tanto nell’opinione quanto nell’accademia, come ”un cane morto”. La situazione e’ quindi ottima per riprendere lo studio dei suoi testi, per rifare i conti con lui.
Procedere su questa strada, comporta, in primo luogo, sgombrare il terreno dall’ovvio, rifiutare la relazione di causalita’ tra l’attuale discredito di cui gode il Nostro ed il crollo del socialismo di stato nell’Europa dell’Est.
L’inconsistenza logica della dottrina marxista, cosi’ come la cattiva astrazione sulla quale si fondava la legittimita’ dei regimi socialistici, erano nascoste solo agli occhi di chi non voleva vedere. Tutto era chiaro gia’ da prima, da molto prima.
A testimonianza che il senso comune non ha atteso il crollo del muro di Berlino per formulare un giudizio– sulla teoria del socialismo scientifico e sulla natura del socialismo di stato– riproponiamo, qui di seguito, un breve commento a riguardo, scritto nel 1983, in occasione del centenario della morte di Marx, quando il Paese dei Soviet esisteva ancora ( 1 ).
Vers la production de soi, entretien avec André Gorz
Par Yovan GILLES |
Les périphériques vous parlent : Dans votre dernier ouvrage Misères du Présent, Richesses du Possible faisant allusion au livre de J. Rifkin La Fin du Travail, vous affirmez quant à vous : « Il ne s’agit pas du travail au sens anthropologique ou au sens philosophique. (…) Il s’agit sans équivoque du travail spécifique propre au capitalisme industriel » Pouvez-vous développer pour nous cet argument ?
André Gorz : Au sens anthropologique, on appelle habituellement « travail » l’activité par laquelle les humains façonnent et transforment leur milieu de vie. C’est d’abord la malédiction biblique : le monde n’est pas naturellement propice à la survie des humains, il n’est pas « un jardin planté pour eux », disait Hegel. La vie humaine est « improbable », écrivait Sartre, elle rencontre cette improbabilité comme un ensemble d’adversités, de maladies, de raretés. Au sens philosophique, le concept de travail englobe les dimensions multiples de l’activité humaine. La philosophie grecque distinguait le travail-corvée – ponos – qu’il faut accomplir jour après jour pour entretenir le milieu de vie et produire sa subsistance. C’est aussi bien le travail ménager que le travail agricole, dont les hommes, dans les sociétés traditionnelles, se déchargent sur les femmes et les esclaves. Après le ponos, il y a la poiesis : le travail de l’artisan, de l’artiste, du « producteur ». Le travail comme poiesis n’est plus, à la différence du ponos, asservi complètement aux nécessités et aux contraintes matérielles de la subsistance. Il peut s’en émanciper en devenant création, invention, expression, réalisation de soi. C’est cette dimension du travail qui intéresse avant tout Hegel et ensuite Marx : le travail par lequel je m’individualise, me fais personne, inscris dans la matérialité du monde l’idée que je me fais de ce qui doit être.
di Maria Turchetto (il manifesto, 13 Gennaio 2012)
Nuova edizione per Mimesis di un classico del pensiero critico novecentesco, «Il capitale finanziario» di Rudolf Hilferding. Un volume ancora utile alla conoscenza della realtà per poi trasformarla.
La nuova edizione de Il capitale finanziario di Rudolf Hilferding è una vera strenna, di cui sono grata alla casa editrice Mimesis (pp. 544, euro 28). Non certo per il gusto erudito e nostalgico di riavere un classico del marxismo ormai introvabile e citato di seconda e terza mano, ma perché la poderosa opera di Rudolf Hilferding merita davvero, più che una rilettura, una nuova lettura, come suggeriscono nell’introduzione Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro, curatori di questa edizione. Una lettura – scrivono – che aiuti «a produrre un altro testo che (…) sposti di piano quello immediatamente pervenutoci da Hilferding, facendo apparire nuovi oggetti teorici su cui lavorare».
L’indicazione richiama esplicitamente la lezione di Louis Althusser (non a caso del resto il titolo dell’introduzione è «Leggere Il capitale finanziario»), cui i curatori si rifanno anche quando sostengono che il «nucleo del paradigma marxista», da cui oggi si può ben ripartire anche se non è in voga tra i bocconiani, consiste «nel titanico risultato di aver gettato le basi per una teoria scientifica della storia: una teoria che, si badi bene, non ha nulla a che vedere con la visione teleologica e destinale che afflisse certe sue volgarizzazioni dottrinali».
Per dirla tutta, la «visione teleologica e destinale» della storia è stata ben più che una vulgata ad uso delle accademie sovietiche e delle scuole di partito. Era lo «spirito del tempo» dell’Ottocento e di buona parte del Novecento, che Marx aveva faticosamente trasceso ma attraverso il quale veniva (e viene ancora) interpretato. L’idea che il destino del capitalismo sia predicibile permea perciò anche l’opera di Hilferding e ne costituisce la principale debolezza: è la sua predizione di un percorso spontaneo dall’anarchia all’organizzazione pianificata dell’accumulazione sotto la direzione di un «capitale unificato», preludio della transizione al socialismo. La stessa idea destinale permea anche le coeve teorie del crollo e la stessa visione di Lenin dello stadio monopolistico e finanziario come «fase suprema» – cioè ultima – di un capitalismo divenuto incapace di promuovere lo sviluppo delle forze produttive e perciò morto per la storia, anzi ormai «putrefatto». In Lenin la storia del capitalismo descrive una parabola di tipo organico (nascita, crescita, decadenza e morte) anziché un’evoluzione progressiva; lo schema teleologico prevede comunque la fine prossima e certa (nella forma del crollo, dell’abbattimento rivoluzionario o della metamorfosi riformista), indispensabile a conseguire il fine del comunismo.
Il virtuoso e il parassita
Ma non vorrei qui limitarmi a ribadire l’indicazione althusseriana di abbandonare le storie teleologiche (in quanto tali ideologiche, non scientifiche) orientate al/alla fine; quanto proporre una breve riflessione sul perché, a cavallo tra Ottocento e Novecento, la fine del capitalismo venga declinata nelle forme antitetiche della decadenza e del crollo, da un lato, e dell’evoluzione virtuosa, dall’altro. In L’imperialismo, fase suprema del capitalismo Lenin impone una convivenza forzata a due rappresentanti delle declinazioni antitetiche in questione, Hilferding e Hobson. Riprende infatti, com’è noto, la definizione di Hilferding del «capitale finanziario» come «capitale unificato» («Capitale finanziario significa capitale unificato. I settori del capitale industriale, commerciale e bancario, un tempo divisi, vengono posti sotto la direzione comune dell’alta finanza»), associandovi tuttavia il giudizio negativo espresso da Hobson sulla finanza «parassitaria». Di fatto tradisce, in tal modo, il pensiero di entrambi gli autori: per Hilferding, in realtà, l’unificazione di capitale bancario, commerciale e industriale è un processo sostanzialmente virtuoso, foriero di crescita economica e di potenzialità regolatrici; in Hobson, per contro, il capitale finanziario non rappresenta affatto una forma unificata del capitale, ma una sua frangia degenerata che svolge il ruolo perverso di spostare altrove «la ricchezza della nazione» a scapito dello stesso capitale commerciale e produttivo (per inciso, Hobson non è l’unico, all’epoca, a teorizzare una contrapposizione forte tra industria e finanza: penso, ad esempio, a Thoestein Veblen). La convivenza forzata che Lenin impone alle tesi di Hilferding e di Hobson si basa, ancora una volta, su una metafora organica: il capitale cresce (diventa «più grosso» attraverso i processi di concentrazione e centralizzazione in cui il capitale finanziario ha un ruolo chiave, proprio come dice Hilferding), si espande (invade completamente il mondo, come sostengono entrambi gli autori), ma inesorabilmente invecchia (decade dalla sua funzione propulsiva dello sviluppo per diventare «parassitario», proprio come dice Hobson).
In cerca di egemonia
Esistono oggi interpretazioni che consentono di comprendere e integrare le posizioni di Hilferding e di Hobson al di fuori degli schemi teleologici e delle metafore organiche. Penso alla scuola cosiddetta del «Sistema Mondo» – che considero uno sviluppo fecondo del marxismo – e in particolare ai «cicli sistemici» delineati da Giovanni Arrighi. Com’è noto, Arrighi legge i periodi di «espansione finanziaria» come momenti finali di un ciclo e preludio di «trasformazioni egemoniche» che ridisegnano il quadro geopolitico dell’«economia-mondo» capitalistica – ossia il suo strutturarsi in centri, periferie e semiperiferie. Entro queste coordinate teoriche potremmo leggere l’analisi di Hobson come attinente non al capitalismo in generale, ma al capitalismo inglese la cui egemonia, a cavallo tra Ottocento e Novecento, è in crisi; e l’analisi di Hilferding come attinente invece al capitalismo tedesco e alla Germania, che viceversa, nell’epoca in questione, si candida a pieno titolo al ruolo di nuova potenza egemone, disponendo di nuovi strumenti finanziari e di settori industriali strategici. Hilferding sembra in effetti consapevole di avere sotto gli occhi, con il caso tedesco, non tanto una particolarità nazionale (questa, all’epoca, è piuttosto l’ottica degli autori della scuola storica, citati in più luoghi ne Il capitale finanziario), quanto, per così dire, l’ultima release del capitalismo. In altre parole, l’osservatorio privilegiato per lo studio del capitalismo non è più, secondo Hilferding, quell’Inghilterra che Marx aveva indicato come «sede classica» (cioè tipica) nella prefazione alla prima edizione de Il capitale; è invece la Germania, con le banche che offrono credito di capitale e non solo credito di circolazione, con la più estesa adozione della forma della società per azioni e il conseguente primato del controllo sulla proprietà, con i nuovi potenti strumenti che favoriscono la concentrazione e la struttura oligopolistica del mercato.
Se ho proposto queste riflessioni non è semplicemente per contestualizzare l’opera di Hilferding alla sua epoca, visto che il risultato di una simile operazione sarebbe dichiararla datata; al contrario, il mio è un tentativo di «spostarla di piano», proprio come suggeriscono Brancaccio e Cavallaro, inserendola in nuove problematiche per renderla suscettibile di una lettura attuale. Nell’attuale congiuntura credo che interrogarsi sul futuro del capitalismo in chiave destinale – come in sostanza ancora fanno quelli che Brancaccio e Cavallaro definiscono «agitatori di fantasiose “moltitudini” in movimento» – non porti molto lontano; e abbia invece molto più senso cercare di capire a fondo i meccanismi, i conflitti, i processi che operano nel corso di «trasformazioni egemoniche» come quella che stiamo vivendo. In questa prospettiva senza dubbio Hilferding può fornirci strumenti capaci di andare più in profondità rispetto alla «teoria dominante (…) ferma sul suo trono», con cui giustamente Brancaccio e Cavallaro se la prendono nell’introduzione – al contrario degli «ossimorici “liberisti di sinistra”» cui fa tanta soggezione.
La democrazia di carta
In questa prospettiva vanno senz’altro accolte alcune indicazioni di lettura dei curatori. In primo luogo, quella secondo cui la tendenza alla centralizzazione costituisce l’oggetto principale dell’analisi di Hilferding. Il capitale finanziario offre una visione assai complessa dei processi di centralizzazione del capitale, che non rinvia soltanto alle economie di scala ma mette in gioco «una miscela di strategie difensive e predatorie». La logica del capitale, in altri termini, non è semplicemente la razionalità minimax orientata all’efficienza, ma un agire strategico conflittuale di natura in ultima analisi politica (su questo punto ha a suo tempo molto insistito Gianfranco La Grassa, ad esempio in Gli strateghi del capitale, manifestolibri). Ancora, l’analisi dello sviluppo del credito bancario e della diffusione della forma giuridica della società per azioni in Hilferding non sfocia nell’«immagine tranquillizzante che ne danno le teorie economiche e politiche tradizionali, che li presentano come strumenti di “democrazia finanziaria” preposti rispettivamente alla raccolta dei risparmi e alla ripartizione del rischio d’impresa. Al contrario, (…) Hilferding mostra che lo sviluppo del credito e della società per azioni muove il capitale verso poche e piene mani». Il mercato capitalistico non è affatto un mero meccanismo di allocazione di risorse, né il regno di una virtuosa concorrenza: è un potentissimo strumento di concentrazione e centralizzazione. Le stesse politiche economiche e monetarie vanno dunque lette alla luce dei processi di concentrazione e centralizzazione – indicazione questa preziosa, come ben evidenziano i curatori, per la comprensione dell’attuale congiuntura.
Un’ultima precisazione, per non essere fraintesa. Sono convinta che il compito di «spiegare il mondo» sia oggi molto urgente – abbiamo perso, temo, molto terreno su questo fronte. Ciò non significa affatto perseguire la conoscenza per la conoscenza rinunciando alla prospettiva di «cambiare il mondo»: proprio questa prospettiva, tuttavia, rende più ardui e moltiplica i compiti conoscitivi. Va in questo senso pienamente valorizzata l’indicazione con cui Brancaccio e Cavallaro concludono l’introduzione, evocando un poco noto lavoro di Hilferding del 1940, Capitalismo di stato o economia statuale totalitaria?: «Noi crediamo (…) che sia giunto il tempo che i marxisti riesaminino l’esperienza sovietica, con le sue grandezze e i suoi orrori, in chiave finalmente scientifica e storico-critica». È davvero indispensabile affrontare finalmente la questione, oggetto di una rimozione che sta durando troppo, per poter proporre alternative credibili all’ideologia liberista, al capitale finanziario e alle sue politiche economiche.