Cos’è la politica? Questo, con sguardo ottimista, Agamben suggerisce di chiedersi nell’intervista greca che presentiamo, a ridosso delle elezioni europee (22-25 maggio) in cui il radicale greco Tsipras sarà il candidato della Sinistra. Le questioni su cui il filosofo ci invita a riflettere sono molteplici. Il filo conduttore è rintracciabile in un richiamo a quei dispositivi che, pur assoggettando la materia biologica, investono la nostra capacità di attivare processi di soggettivazione che vi oppongano resistenza. La crisi che stiamo vivendo può allora diventare ricerca di nuove forme. Queste non sono né giuridiche, né morali, ma innanzitutto politiche. Sulla scia del migliore insegnamento foucaultiano, più che un gesto di liberazione, noi dobbiamo costruire una pratica della libertà, non un altro esistenzialismo ma un’etica del sé non ridotta a individualità.
Per cominciare ringrazio tutti per aver letto il libro e «Materiali foucaultiani» per aver organizzato il forum! Non è una cosa scontata!
1. Non sostengo che la morale del debito sostituisce quella del consumo. Trattando del debito dicevo che la “crisi” mette in primo piano la colpa legata al debito, ma questo non esclude le altre morali, le fa invece funzionare insieme.
Nell’introduzione all’edizione italiana dicevo che le differenti morali (la morale del lavoro, la morale del consumismo, la morale del debito) convivono in maniera più contraddittoria di prima del 2007. L’esempio della «televisiun che ha la forza di un leun», con il suo discorso significante colpevolizzante (i giornali televisivi) e le semiotiche della pubblicità che spinge a un consumo compulsivo e frustrante, voleva mostrare questa coesistenza.
Come può il compagno Chicchi dire che la morale della colpa non funziona più, quando tutte le “riforme di struttura” hanno al loro centro e come obiettivo principale il mercato del lavoro?
Intervista a cura di Beppe Caccia – Metropolitan Multiversity
Abbiamo intervistato Christian Marazzi a Lugano, nei giorni della tempesta che ha investito le valute delle potenze economiche emergenti e all’indomani del referendum con cui oltre il 50 per cento degli elettori svizzeri hanno chiesto misure restrittive nei confronti dell’immigrazione proveniente dai paesi dell’Unione Europea. Ne è venuta fuori una lettura originale e stimolante delle politiche monetarie seguite dalla Federal Reserve Bank americana e dalla Banca Centrale Europea, nel quadro dell’evoluzione della crisi finanziaria globale. E alcune utili indicazione per i movimenti sociali costituenti in Europa.
Anche nella comunicazione dominante, la narrazione della “ripresa” ha sostituito la retorica dei “sacrifici”: dalle “lacrime e sangue” dell’austerity si è passati a descrivere l’apertura di un nuovo ciclo, di una nuova fase economica di superamento della crisi. Quanto c’è di reale in questo discorso, guardando ovviamente alle diverse aree economiche e politiche del pianeta? Un discorso vale sicuramente per gli Stati Uniti, un discorso vale per le cosiddette “economie emergenti”, un discorso vale per l’Europa. Ma possiamo dire che la crisi è entrata in una nuova fase e che questa è caratterizzata, in qualche modo, da una “ripresa”?
Nel suo ultimo lavoro Chantal Mouffe propone una lettura delle più pressanti questioni nella teoria politica contemporanea a partire dalla suo modello di democrazia agonistica. Dalla possibilità di un ordine cosmopolitico alle prospettive di una democratizzazione dell’Unione europea, dai limiti dei movimenti contro l’austerity degli ultimi anni fino agli orizzonti di una ‘nuova sinistra’, l’idea di agonismo è per Mouffe la chiave di volta di un ripensamento complessivo del problema democratico e di una strategia per la costruzione di un’alternativa al neoliberismo. Ma la proposta teorica di Mouffe regge davvero?
Neomutualismo apparve, nella primavera del 1999, sulle pagine della rivista di movimento «Banlieues», testata senza fissa periodicità che si collocava nella galassia dell’autonomia diffusa italiana, sforzandosi di operare una ricognizione critica della prospettiva postoperaista. L’orizzonte era quello dei conflitti che attraversavano l’università e si riversavano nei territori della fabbrica diffusa e del terziario avanzato. Redatto in forma anonima ma in realtà realizzato da Valerio Guizzardi, uno dei redattori della rivista, lo scritto qui riproposto compone una storia disinvolta del movimento cooperativo italiano e delle pratiche di mutualismo a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo ventennio del Ventesimo secolo.
La scelta di ospitare una lunga riflessione su forme organizzative considerate “riformiste” può apparire discutibile e perfino equivoca. Tanto più se riferita a certi cliché storiografici o al senso comune della sinistra rivoluzionaria e dei movimenti antagonisti. E perfino se rapportata alla linea del contenitore editoriale che la ospitava. O se paragonata agli esiti infami della cooperazione in Italia (mostrati con chiarezza dalle straordinarie lotte dei lavoratori della logistica).
Tuttavia, in quell’ultimo scorcio di Novecento, che Novecento non era già più, si ragionava su varie ipotesi di ricomposizione di quell’intellettualità di massa – «talvolta integrata in reti produttive avanzate, talatra precaria e “dai piedi scalzi”» – considerata da molti il «bandolo di tutte le matasse». Erano i tempi in cui andavano dispiegandosi pienamente gli effetti di un nuovo modello produttivo: il postfordismo o paradigma dell’accumulazione flessibile. Da più parti si riscontrava come l’agire comunicativo, i saperi e la conoscenza permeassero la produzione. Frammentato, inchiodato alla coincidenza di tempo di vita e tempo di lavoro, disperso e atomizzato, il lavoro intellettuale di massa veniva considerato il nuovo soggetto posto nel punto più avanzato dello sviluppo del capitale. Almeno così si diceva.
In quegli anni fu anche coniata la formula “impresa politica autonoma”, alludendo a un insieme di pratiche che andavano da un’interazione conflittuale col mercato a una fuoriuscita ingegnosa e intraprendente dai vincoli del lavoro subordinato, a forme di produzione autonoma di reddito. Era un’illusione, e nel volgere di pochi anni un cognitariato sempre più precario, o – meglio – un nuovo proletariato, si ritrovò ricacciato nella più classica delle contraddizioni: quella tra capitale e lavoro.
Alla fine dei Nineties, decennio dominato dall’euforia e da retoriche mobilitanti che scommettevano sugli infiniti margini d’innovazione da parte del capitale e sui conseguenti spazi di autonomia da costruire e organizzare, Neomutualismo tracciava uno spettro di riferimenti, diverso e parallelo, alludendo alle remote forme di mutualismo e cooperazione praticate da operai e braccianti. Ne richiamava lo specifico di classe, sottolineandone – al contempo – il carattere di resistenza e lo spirito antagonista: quanto più crescevano e si diffondevano le forme della cooperazione, tanto più dilagavano le lotte. Lo scritto, inoltre, tentava di delineare una temporalità complessa che legava bisogni impellenti e concretissime esigenze dell’oggi a un quadro di trasformazione della società. Last but not least: volgeva una certa pedanteria dell’indagine storiografica in virtù linguistica, rinunciando – ad esempio – all’impiego del sostantivo à la page “impresa”, pur aggettivato in modo alternativo, e risignificando allusivamente un lessico composto da parole come “leghe di resistenza”, “società di mutuo soccorso”, “cooperative di produzione, lavoro, consumo e abitazione”. C’era qualcosa di vagamente lungimirante in questo guardare indietro, e altrove. Non a caso, oltre lo spartiacque simbolico dell’anno 2000, di quelle imprese politiche autonome rimarranno solo macerie.
Di certo, il saggio risente del periodo in cui fu scritto. Il quadro in cui si sviluppano ricostruzione storica e ragionamento politico è quello della riappropriazione dei nessi amministrativi dal basso, opzione in voga negli anni Novanta che puntava sulla determinazione di un welfare municipale. E si percepisce con forza il richiamo all’esodo intraprendente, altra suggestione che – forse – non ha retto alla prova degli anni Zero, né saputo sciogliere l’intricato nodo del politico, e del potere.
Ad ogni modo, al pari del recente romanzo di Valerio Evangelisti Il sole dell’avvenire (leggi l’intervista), Neomutualismo offre importanti spunti di riflessione per ragionare sulle condizioni, sulle pratiche ricompositive, sulla resistenza quotidiana e sulle forme di lotta d’un proletariato senza diritti né fissa occupazione, che passa da un lavoro all’altro in una condizione di perenne intermittenza.
Sembrano gli echi di un passato lontanissimo. Oppure, ad ascoltare con attenzione, può assomigliare alla colonna sonora del presente.
PS: Lo scritto contiene un apparato di note piuttosto importante che contengono non solo gli opportuni riferimenti alle fonti bibliografiche ma anche, e soprattutto, approfondimenti alle argomentazioni proposte. Ciò consente al lettore, volendo, due modi di lettura: o più velocemente del testo per una prima valutazione narrativa per poi passare alle note con calma, oppure tutto insieme per una lettura più complessa e ragionata.
1. Il capitalismo è un oggetto di elevata astrazione, il comune è una forza di ancor più grande astrazione.
La nozione di lavoro astratto di Marx identificò per la prima volta il motore centrale del capitalismo, ovvero la trasformazione del lavoro in equivalente generale. In seguito, Sonh-Rethel (1970) individuò la stretta relazione che passa storicamente tra astrazione del linguaggio, astrazione della merce e astrazione del denaro. Nella cosiddetta ‘introduzione’ ai Grundrisse (scritta nel 1857) Marx chiarisce l’astrazione come metodologia di analisi che emergerà solo dieci anni più tardi nella pagine del Capitale (1867). Come ricordano in molti (Ilyenkov 1960), in Marx il concreto è un risultato, è un prodotto del processo di astrazione: la realtà capitalistica, così come quella rivoluzionaria, è una invenzione. “Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione” (Marx 1857: 101). L’astrazione è sia la tendenza del capitale, sia il metodo del Marxismo. L’operaismo viene quindi a strappare l’astrazione dal doppiopetto del capitale per ricucirla addosso alla tuta del proletario: astrazione è sia il movimento del capitale, sia il movimento della resistenza ad esso.
Negri (1979: 66) muove l’astrazione al centro del metodo della tendenza antagonista come processo di conoscenza collettiva: “il processo dell’astrazione determinata è tutto dentro l’illuminazione collettiva, proletaria, è quindi un elemento di critica e una forma di lotta”. In qualche modo, l’idea del comune nasce come progetto epistemico.
Marx, Karl (1857). Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie. Moscow: Verlag für fremdsprachige Literatur, 1939. Traduzione: Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Torino: Einaudi, 1976.
Ilyenkov, E. Vassilievich (1960). La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx. Milano : Feltrinelli, 1961.
Sohn-Rethel, Alfred (1970). Geistige und körperliche Arbeit. Frankfurt (Main): Suhrkamp. Traduzione: Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Milano, Feltrinelli, 1977.
Negri, Antonio (1979). Marx oltre Marx: Quaderno di lavoro sui Grundrisse. Milano: Feltrinelli.
Con questa intervista a Toni Negri, si apre su globalproject.info una nuova finestra che proporrà con continuità a partire da oggi inedite occasioni di analisi, approfondimento e formazione teorico-politica.
E proprio le caratteristiche della fase “post-austerity”, che si sta affacciando dopo sei anni di gestione capitalistica della crisi, in Europa e nella relazione tra questo spazio e gli scenari globali, saranno al centro del lavoro di queste prime settimane.
A partire, ad esempio, dalle tensioni che hanno investito nelle ultime ore i mercati delle cosiddette “economie emergenti”. E’ il sistema nei cambi ad entrare, per la prima volta dall’inizio della crisi, in fibrillazione, quasi ad indicare come forse sui rapporti valutari il capitale finanziario abbia cominciato a giocarsi la partita per la stabilizzazione e il rilancio delle dinamiche di accumulazione. Provare a comprendere che cosa stia succedendo sarà una delle sfide che MM si prepara ad affrontare.
Chi come noi non ha interessi elettorali è nella migliore posizione per riconoscere la grande importanza che avranno, nel 2014, le elezioni per il parlamento europeo. E’ facile prevedere, nella maggior parte dei Paesi interessati, un elevato astensionismo e una significativa affermazione di forze “euroscettiche”, unite dalla retorica del ritorno alla “sovranità nazionale”, dall’ostilità all’euro e ai “tecnocrati di Bruxelles”. Non sono buone cose, per noi. Siamo da tempo convinti che l’Europa ci sia, che tanto sotto il profilo normativo quanto sotto quello dell’azione governamentale e capitalistica l’integrazione abbia ormai varcato la soglia dell’irreversibilità. Nella crisi, un generale riallineamento dei poteri – attorno alla centralità della BCE e a quel che viene definito “federalismo esecutivo” – ha certo modificato la direzione del processo di integrazione, ma non ne ha posto in discussione la continuità. La stessa moneta unica appare oggi consolidata dalla prospettiva dell’Unione bancaria: contestare la violenza con cui essa esprime il comando capitalistico è necessario, immaginare un ritorno alle monete nazionali significa non capire qual è oggi il terreno su cui si gioca lo scontro di classe. Certo, l’Europa oggi è un’“Europa tedesca”, la sua geografia economica e politica si va riorganizzando attorno a precisi rapporti di forza e di dipendenza che si riflettono anche a livello monetario. Ma solo l’incanto neoliberale induce a scambiare l’irreversibilità del processo di integrazione con l’impossibilità di modificarne i contenuti e le direzioni, di far agire dentro lo spazio europeo la forza e la ricchezza di una nuova ipotesi costituente. Rompere questo incanto, che in Italia è come moltiplicato dalla vera e propria dittatura costituzionale sotto cui stiamo vivendo, significa oggi riscoprire lo spazio europeo come spazio di lotta, di sperimentazione e di invenzione politica. Come terreno sul quale la nuova composizione sociale dei lavoratori e dei poveri aprirà, eventualmente, una prospettiva di organizzazione politica. Certo, lottando sul terreno europeo, essa avrà la possibilità di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalistica. E’ ormai solo sul terreno europeo che possono porsi la questione del salario come quella del reddito, la definizione dei diritti come quella delle dimensioni del welfare, il tema delle trasformazioni costituzionali interne ai singoli paesi come la questione costituente europea. Oggi, fuori da questo terreno, non si dà realismo politico.
Secondo alcuni istituti di ricerca, l’anno prossimo l’economia svizzera dovrebbe cavarsela abbastanza bene, certamente se si guarda alle prospettive poco rosee dei paesi dell’eurozona.
Aumento delle espostazioni, grazie al nostro rapporto privilegiato con l’economia tedesca fortemente orientata alla crescita delle esportazioni; aumento, secondo alcuni istituti, addirittura della massa salariale, anche se in questo caso non si specifica a che livello della scala dei redditi.
Tanto meglio, vien da dire, se il nostro PIL è destinato a crescere attorno al 2%, anche se va detto che la crescita in sé non è garanzia di maggiore equità distributiva. Da anni i frutti della crescita non sgocciolano verso il basso, tanto che le disuguaglianze sono aumentate fortemente da noi come ovunque. E questo è “il” problema, certamente sociale, ma anche economico.
Non a caso alcuni economisti che guardano con disincanto al futuro delle economie occidentali parlano di “stagnazione secolare”, un periodo, che rischia di essere lungo, di domanda cronicamente debole e di crescita anemica, nella migliore delle ipotesi. Il rischio deflazione incombe sul mondo, in particolare in Europa, e se non sarà la grande depressione degli anni Trenta è solo grazie alla presenza della rete della sicurezza sociale, che comunque non pochi politici persistono nel voler ridurre. Ma, avvertono i più, il margine sostenibile di intervento dei governi è molto più risicato per il peso elevato della spesa pubblica. Tutto questo dopo cinque anni dall’esplosione della crisi durante i quali gli interventi delle autorità monetarie sono stati davvero straordinari, rivelandosi però più un sostegno ai mercati finanziari che non all’economia reale.
E quindi, che fare? Le ipotesi sono più o meno queste.Una ulteriore riduzione dei tassi reali d’interesse, nella speranza di rilanciare l’inflazione. Benché politicamente accettabile, non sembra proprio che i prezzi possano invertire la tendenza al ribasso con ulteriori iniezioni di liquidità.
L’altra ipotesi è quella di uscire dalla “bonus culture”, la cultura delle alte remunerazioni dei manager che da due decenni ormai ha visto le grandi imprese privilegiare i prezzi dei titoli azionari rispetto agli investimenti produttivi. Su questo fronte è più probabile assistere ad una riduzione degli stipendi del personale a fronte di un aumento dei dividendi distribuiti agli azionisti, sia per fidelizzarli che per attrarne di nuovi, soprattutto nel settore bancario, confrontato con i bisogni di ricapitalizzazione.
La terza ipotesi, quella che sembra la più ragionevole, è di sfruttare l’eccedenza di risparmio in circolazione per finanziare l’aumento degli investimenti pubblici, con particolare attenzione all’economia ecologicamente sostenibile. E’ quanto auspica ad esempio l’OCSE nel suo Rapporto annuale sull’allocazione dei fondi pensione.
Mediamente, solo lo 0,9% dei fondi pensione analizzati su scala europea è investito in infrastrutture pubbliche, il che è assurdo, dato che i rendimenti dei fondi e delle infrastrutture dovrebbero convergere nel medio-lungo periodo, e questo nell’interesse della collettività.
Certo è che se non si affronta con determinazione il rischio della “stagnazione secolare”, tentando nuove vie e senza paura di commettere possibili errori, nessun ottimismo di fine anno riuscirà a tranquillizzarci.