Posted: Giugno 1st, 2013 | Author: agaragar | Filed under: BCE, comune, crisi sistemica | 37 Comments »
CONTINENTI ALLA DERIVA
L’Unione parla tedesco
di Marco Bascetta
Da nazione a vocazione europeista dopo la catastrofe nazionalsocialista all’egemonia esercitata sugli altri paesi dell’Europa per allontanare dal paese gli effetti della crisi. L’ultimo libro di Ulrich Beck per Laterza
«Oggi il Bundestag tedesco decide sul destino della Grecia», annuncia un notiziario della radio nel febbraio del 2012. È da questo annuncio, inquietante nella sua ostentata naturalezza, che Ulrich Beck prende le mosse per affrontare in un piccolo volume edito da Laterza (Europa tedesca, pp. 96, Euro 12) il tema, spinosissimo, dell’egemonia germanica nell’Europa della crisi. Che il parlamento di uno stato membro possa dettare legge a quello di un altro, non legittimato naturalmente da alcun ordinamento, ma in base a un potere di ricatto che le circostanze gli conferiscono, è un paradosso al quale ci siamo ormai quasi assuefatti. E il fatto che questo potere di decisione passi attraverso i trattati e le istituzioni dell’Unione europea, la valutazione e il giudizio di commissioni e commissari comunitari e transnazionali, perfino attraverso il simulacro di un negoziato, cambia poco alla sostanza e, soprattutto, alla percezione di una profondissima asimmetria, di una dipendenza a senso unico. L’annuncio ci rivela essenzialmente una cosa: la politica europea, in conseguenza dell’architettura comunitaria e delle sue lacune, è ostaggio delle politiche interne dei diversi stati e in particolare di quello economicamente più potente. Dalla Germania europea, quella che abbiamo conosciuto dal 1945 al 1989, saremmo passati, in un breve volgere di anni, – come sostiene Beck – all’Europa tedesca.
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Posted: Maggio 29th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, crisi sistemica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 177 Comments »
di MARCO BERTORELLO e DANILO CORRADI
La crisi da strutturale si va trasformando in sistemica nella misura in cui l’economia di mercato, nel suo produrre disfunzioni e inefficacia, dà vita a un crescente mancato consenso sociale. L’incapacità di quest’ultimo di riversarsi su un progetto alternativo consente all’attuale sistema di permanere ancora saldamente in sella. Ma allo stesso tempo è sempre più evidente il distacco in ordine sparso e atomizzato, e qui sta il limite che sviluppa impotenza, di importanti segmenti della società. Il problema sarà come passare dal mancato consenso al dissenso, dalla critica alla proposta. Quello che intanto appare come un dato ineliminabile è l’incapacità concreta di uscire dalla crisi da parte delle attuali classi dirigenti. Restando quindi su questo punto, sono necessarie alcune considerazioni per comprendere come sia in corso una sorta di fine dell’Impero a cui è sempre più urgente contrapporre un’alternativa, pena il rischio che forze centrifughe e di destra prendano il sopravvento. Se ci convinciamo seriamente della parabola da fine dell’Impero allora saremo costretti a prendere più seriamente anche la necessità di un’alternativa radicale, capace di uscire dagli schemi politici, economici e sociali che il Novecento ancora riversa sul nuovo secolo.
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Posted: Maggio 4th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, crisi sistemica, critica dell'economia politica, Révolution | 4 Comments »
di Etienne Balibar
E ancora una volta, allarme generale! La vecchia «coppia» franco-tedesca, motore o freno a seconda dei pareri, è sull’orlo dell’implosione. Va detto ai nostri vicini quel che si meritano, anche se stanno per diventare i nostri padroni, o dobbiamo iniziare a pensare per noi, ad accettare i compromessi che dovrebbero evitare il peggio? Credo che sarebbe meglio capire che cosa stia succedendo rispetto all’ensemble europeo, le cui componenti, tutte, insieme si sgretoleranno o si salveranno. La costruzione europea si è bloccata sull’ostacolo del bilancio. Per l’opinione pubblica, è screditata. Ciononostante esiste un sistema politico unico, né nazionale né davvero federale, ma che accumula gli effetti negativi di ogni livello e che ormai comanda tutto. Risulta chiaro, osservando le recenti evoluzioni d’Italia e Francia.
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Posted: Aprile 29th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comunismo, crisi sistemica, Révolution | 9 Comments »
di Slavoj Zizek
Nelle ultime pagine della sua monumentale “Seconda guerra mondiale”, Winston
Churchill riflette sull’enigma di una decisione militare: dopo che gli
specialisti (economisti e esperti militari, psicologi, metereologi)
propongono le loro analisi, qualcuno deve assumersi la responsabilità più
semplice e proprio per questa ragione più difficile, quella di convertire
questa complessa moltitudine in un semplice si o no. Dovremmo attaccare,
dobbiamo continuare ad aspettare, eccetera. Questo atto, che non può mai
essere in tutto e per tutto razionale, è quello di un Comandante. Compito
degli esperti è quello di presentare la situazione nella sua complessità,
compito del Comandante è quello di semplificarla in una secca decisione. Il
Comandante è necessario soprattutto in situazioni di profonda crisi. La sua
funzione è quella di sancire un’autentica spaccatura: una spaccatura fra
coloro che vogliono tirare avanti con la vecchia visione del mondo e coloro
che sono consapevoli del necessario cambiamento. L’unica strada per una vera
unità è l’identificazione di una tale spaccatura, e non quella fatta di
compromessi opportunistici. Prendiamo un esempio che sicuramente non è
problematico: la Francia nel 1940. Persino Jacques Duclos, seconda
personalità del Partito Comunista Francese, ammise in una conversazione
privata che se in quel momento si fossero tenute libere elezioni in Francia,
il Maresciallo Petain avrebbe vinto col 90% dei voti. Quando De Gaulle, con
un gesto storico, rifiutò l’accettazione dell’armistizio con i tedeschi e
continuò la resistenza, egli affermò di essere lui, e non il regime di
Vichy, l’unico a parlare in nome della vera Francia (in nome di tutta la
vera Francia, non solo in nome della maggioranza dei francesi). Ciò che
stava dicendo era profondamente vero anche se democraticamente una tale
affermazione era non solo senza legittimazione alcuna, ma era chiaramente in
contrapposizione con l’opinione della maggioranza dei francesi. Margaret
Thatcher, la signora che non era fatta per arretrare, era un Comandante di
questo tipo. Rimanendo ferma sulle sue posizioni all’inizio percepite come
folli, gradualmente trasformò la sua singolare pazzia in norma comunemente
accettata. Quando fu chiesto alla Thatcher quale era stato il suo più grande
successo, lei prontamente rispose: “Il New Labour”. E aveva ragione: il suo
trionfo fu che persino i suoi nemici politici adottarono le sue basi
economiche, il vero trionfo non è la vittoria sul nemico, esso avviene
quando il nemico stesso inizia ad usare il tuo linguaggio, così che le tue
idee costituiscono la base dell’intero campo di battaglia. Ora, cosa rimane
oggi dell’eredità della Thatcher?
L’egemonia neoliberista sta chiaramente frantumandosi. La Thatcher, forse,
era l’unica vera thatcheriana: lei credeva veramente nelle sue idee. Il
neoliberismo odierno, al contrario, “finge solamente di credere in se stesso
e chiede che il mondo finga la stessa cosa” (per citare Marx). In breve,
oggi, il cinismo si mostra apertamente. Richiama il crudele scherzo di
Lubitch in “Essere o non essere”: quando gli fu chiesto dei campi di
concentramento tedeschi nella Polonia occupata, l’ufficiale responsabile del
campo, Ernhardt, ribatté: “Noi facevamo il concentramento, e i polacchi la
campeggiatura”. La stessa cosa non si adatta bene per la bancarotta della
Enron nel gennaio 2002 (e per tutto il crollo finanziario che ne seguì), che
può essere interpretata come una sorta di commentario ironico sul concetto
di “società del rischio”? Migliaia di impiegati che persero il loro lavoro e
i loro risparmi erano certamente esposti a un rischio, ma senza alcuna vera
possibilità di scelta: il rischio appariva loro come un cieco destino.
Coloro che, al contrario, effettivamente avevano la possibilità di
controllare i rischi e di intervenire nella situazione (i top manager),
minimizzarono i loro rischi vendendo le loro azioni prima della bancarotta.
Così è vero che noi viviamo in una società fatta di scelte rischiose, ma
alcuni (i manager di Wall Street) compiono le scelte, mentre altri (le
persone comuni che pagano i loro mutui) si assumono i rischi. Una delle più
strane conseguenze del crollo finanziario e delle misure prese per reagirvi
(enormi somme di denaro impiegate per salvare le banche) è stata il revival
del lavoro di Ayn Rand, una di quelli che si possono chiamare, senza timore
di sbagliarsi, ideologi del capitalismo radicale e sostenitori della
rapacità. Secondo alcune relazioni, ci sono già segnali che lo scenario
descritto ne “La rivolta di Atlante” (lo sciopero dei capitalisti creativi)
sia in atto. John Campbell, deputato repubblicano, ha detto: “I vincenti
stanno iniziando a scioperare. Sto vedendo, in alcuni casi, una sorta di
protesta da parte delle persone che creano lavoro, che si stanno ritirando
dalle loro ambizioni poiché vedono che loro potrebbero essere puniti per
queste”. L’assurdità di una tale reazione è del tipo di quelle che
distorcono completamente la situazione: la maggior parte delle somme
stanziate per il salvataggio stanno finendo esattamente nelle tasche dei
“titani” senza regole descritti da Rand che hanno fallito nelle loro
fantasie creative e ci hanno portato sull’orlo del collasso. Non sono i
grandi geni creativi che stanno aiutando le pigre persone comuni, sono i
cittadini comuni che pagano le tasse che stanno aiutando i fallimentari
“geni creativi”. L’altro aspetto dell’eredità thatcheriana additato dai suoi
critici di sinistra è stato quello dell'”autoritarismo” della sua
leadership, la sua mancanza del senso di collaborazione democratica. Su
questo punto, comunque, le cose sono più complesse di quanto potrebbero
apparire. Le proteste che stanno attraversando l’Europa convergono in una
serie di richieste che, nella loro spontaneità e ovvietà, formano una sorta
di “ostacolo epistemologico” all’appropriato confronto con la presente crisi
del nostro sistema economico. Queste effettivamente possono essere lette
come una versione popolarizzata delle idee di Deleuze: le persone sanno cosa
vogliono, sono capaci di scoprirlo e di formulare le loro richieste, ma solo
attraverso il loro impegno e la loro continua attività. Così abbiamo bisogno
di una democrazia partecipativa, non solo di una democrazia rappresentativa
con i suoi rituali elettorali che interrompono ogni quattro anni la
passività degli elettori; abbiamo bisogno dell’auto-organizzazione delle
moltitudini, non di un Partito leninista centralizzato con un leader,
eccetera. Questo mito dell’auto-organizzazione diretta e non rappresentativa
è l’ultima trappola, la più profonda illusione che deve cadere, la più
difficile a cui rinunciare. Si, in ogni processo rivoluzionario ci sono
momenti estatici di solidarietà collettiva in cui migliaia, centinaia di
migliaia di cittadini occupano insieme un luogo pubblico, come piazza Tahrir
due anni fa. Si, ci sono momenti di intensa partecipazione collettiva
durante i quali le comunità locali animano dibattiti e discutono, in cui le
persone vivono sotto un permanente stato di emergenza, prendendo le cose con
le loro mani, senza leader che li guidino. Ma questi momenti non durano, e
la “stanchezza” qui non è solo un fatto psicologico, è una categoria
dell’ontologia sociale.
La grande maggioranza delle persone, me compreso, vuole essere passivo e
vuole poter contare su un efficiente apparato statale che garantisca
l’andamento dell’intero edificio sociale, così che io possa condurre le mie
occupazioni in pace. Walter Lippmann scrisse nel suo “Opinione pubblica” del
1922 che le masse di cittadini devono essere guidate da una “classe
specializzata i cui interessi oltrepassino il livello dell’immediatezza”.
Questa classe di elite deve agire come un “macchinario conoscitivo” che
aggiri la sconfitta principale della democrazia, l’impossibile ideale del
cittadino onnicompetente. Questo è il modo in cui le nostre democrazie
funzionano. Con il nostro consenso. Non c’è nulla di misterioso in ciò che
Lippmann ha scritto, è un fatto lapalissiano; il mistero risiede nel fatto
che noi, sapendo questo, continuiamo il gioco. Noi agiamo come se stessimo
decidendo liberamente ma in realtà non solo accettiamo ma addirittura
domandiamo che un’invisibile ingiunzione (inscritta nella stessa forma della
nostra libertà di parola) ci dica cosa fare e pensare. “Le persone sanno ciò
che vogliono”, no, loro non lo sanno, e non vogliono saperlo. Hanno bisogno
di una buona elite, che è poi il motivo per cui un vero politico non solo
sostiene gli interessi dei cittadini, ma è anche lo strumento attraverso il
cui essi scoprono ciò che realmente vogliono. Nella lotta fra
un’auto-organizzazione della moltitudine contro l’ordine gerarchico
sostenuto dal riferimento a un leader carismatico, notare l’ironia di come
il Venezuela, un paese lodato da molti per il suo tentativo di sviluppare
esperimenti di democrazia diretta (concili locali, cooperative, fabbriche
autogestite), è anche un paese il cui presidente era Hugo Chavez, leader
forte e carismatico come pochi: è come se fosse in atto la regola freudiana
della trasposizione. Per far sì che gli individui superino se stessi, e si
impegnino in prima persona come agenti politici, è necessario il riferimento
a un leader, un leader che permetta loro di tirarsi fuori dalle paludi come
il barone di Munchausen, un leader che si pensa sappia ciò che essi
vogliono. E’ in questo senso che Alain Badiou ha recentemente fatto notare
come i sistemi orizzontali minino la classica figura del Comandante, ma allo
stesso tempo diano luogo a nuove forme di dominazione che sono molto più
forti di quelle del classico Comandante. La tesi di Badiou è che un soggetto
ha bisogno di un Comandante per elevarsi sopra la sua condizione di “animale
umano” e per praticare la fedeltà a un Evento-Verità. “Il Comandante è colui
che aiuta l’individuo a divenire soggetto. Sarebbe a dire che se uno ammette
che il soggetto emerge nella tensione fra l’individuale e l’universale,
allora è ovvio che l’individuale necessita di una mediazione, e quindi di
un’autorità, per progredire su questa strada. Bisogna rinnovare la posizione
del Comandante, non è vero che si può farne a meno, persino e specialmente
in una prospettiva di emancipazione.” Badiou non ha paura di opporre il
necessario ruolo del Comandante alla nostra sensibilità democratica: “Questa
funzione capitale del leader non è compatibile con la predominante atmosfera
democratica, ed è per questo che io sono impegnato in una dura lotta contro
questa atmosfera (dopo tutto, uno deve iniziare dall’ideologia).”
Dovremmo seguire senza paura il suo suggerimento: per risvegliare
effettivamente gli individui dal loro dogmatico “sonno democratico”, dalla
loro cieca fiducia nelle forme istituzionalizzate della democrazia
rappresentativa, gli appelli all’auto-organizzazione non sono abbastanza: è
necessaria una nuova figura di Comandante. Ciò richiama i famosi versi della
poesia di Rimbaud “A una Ragione”: “Un tocco del tuo dito sul tamburo
scarica tutti i suoni e dà inizio alla nuova armonia./Un tuo passo, è la
leva degli uomini nuovi e il loro segnale di partenza/la tua testa si volge
di là: il nuovo amore! La tua testa si volge di qua: il nuovo amore!”. Non
c’è assolutamente nulla di intrinsecamente fascista in questi versi. Il
supremo paradosso delle dinamiche politiche è che un Comandante è necessario
per tirar fuori gli individui dalla palude della loro inerzia e per
motivarli verso la lotta emancipatoria e auto-trascendente per la libertà.
Ciò di cui abbiamo bisogno noi oggi, in questa situazione, è di una Thatcher
della sinistra: un leader che ripeta i comportamenti della Thatcher nella
direzione opposta, trasformando l’intero campo di presupposti condivisi
dall’elite politica odierna di tutti i principali orientamenti.
Posted: Aprile 24th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, crisi sistemica, Earth, Global, Révolution | 170 Comments »
di ANTONIO NEGRI
Questo è il testo di una conferenza tenuta a Tokyo da Toni Negri all’inizio di aprile, davanti ad un pubblico di militanti antinucleari. Dopo il marzo 2011 e il disastro ecologico e nucleare che il Giappone ha conosciuto, le tematiche sollevate in questa conferenza sono diventate centrali nella discussione politica dei vari gruppi che, chiamano se stessi, una “moltitudine” di soggetti resistenti.
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Posted: Aprile 23rd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, crisi sistemica, critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo, Révolution | Commenti disabilitati su Moneta del comune e reddito sociale garantito
di LAURENT BARONIAN e CARLO VERCELLONE
L’ambizione di quest’articolo è quella di gettare le basi per una concezione della moneta del comune a partire da un’interrogazione omessa dalla teoria economica dei beni comuni.
Quali sono, dunque, le condizioni capaci di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale e di favorire così lo sviluppo di forme di produzione alternative ai principi d’organizzazione sia del pubblico che del privato? Questa domanda richiede d’introdurre nella teoria del Comune il ruolo strutturante della moneta nei rapporti capitale-lavoro.
L’esame del rapporto tra moneta e comune necessita, di conseguenza, di partire da una critica della teoria dei beni comuni dalla quale la moneta, come il lavoro, sono curiosamente assenti. La ragione di quest’assenza si trova nel fatto che questa concezione naturalista dei beni comuni accetta implicitamente uno dei postulati fondatori della teoria economica standard, ovvero la neutralità della moneta, concepita come un semplice strumento tecnico che facilita gli scambi, e non come la cristallizzazione di un rapporto sociale di potere.
Su questa base, si tratterà di caratterizzare un approccio dinamico del comune al singolare nel quale la questione della moneta e delle mutazioni della divisione del lavoro occupa un posto centrale. Questo approccio fondato sulla triade lavoro-moneta-plusvalore servirà allora egualmente da filo conduttore per rianimare la controversia che aveva opposto Marx ai proudhoniani, precursori di un approccio della moneta come comune.
Infine, fonderemo il nostro ragionamento sulle teorie marxiane del circuito per mostrare che il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro.
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Posted: Aprile 6th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, crisi sistemica, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 2 Comments »
di ADELINO ZANINI e GIGI ROGGERO*
Pubblichiamo l’introduzione al volume “Genealogie del futuro. Sette lezioni per sovvertire il presente” (uscito in questi giorni nella collana UniNomade di ombre corte), che raccoglie il corso di autoformazione Commonware del 2012 “Da Marx all’operaismo”.
Formazione militante. Non è semplice oggi tornare a pronunciare queste parole, ancor meno tradurle in una pratica. Troppo pesante sembrerebbe l’ipoteca delle vecchie “scuole di partito” che su di esse grava. Eppure, questa è la sfida: come ripensare la formazione politica dentro le mutazioni soggettive e le pratiche di movimento contemporanee? È una sfida che UniNomade ha assunto. L’abbiamo chiamata Commonware: è un nome apparentemente criptico e volutamente ironico, scelto per dileggiare i pacchetti didattici delle aziende universitarie, i cosiddetti courseware, rovesciandone il senso dentro la libera cooperazione sociale. Non è un caso, del resto, che le sette lezioni raccolte nel presente volume si siano tenute in sede universitaria (quella di Bologna, nello specifico), simbolicamente e concretamente uno dei principali laboratori dei processi di dequalificazione del sapere critico.
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Posted: Marzo 31st, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, Révolution | 3 Comments »
di ANTONIO NEGRI
Che siamo entrati in una fase costituente, tutti lo dicono: ma costituente di che cosa? La Boldrini e Grasso, ma anche tanti altri, ripetono ad ogni entrata in scena che la Costituzione del ’48 è “la più bella costituzione del mondo” – e allora, su quale ramo dovrà appollaiarsi la civetta costituente?
In realtà continuiamo a spendere parole troppo importanti per dir poco o niente. “Costituente” è una di queste parole. Per trasformare il Senato in Camera delle autonomie, non dovrebbe esser necessario il ricorso allo spirito costituente. E neppure per fare una nuova legge elettorale, e neppure per realizzare il riconoscimento dei sindacati, e neppure per abolire le province, e tantomeno per stabilire i criteri del fiscal compact (che, d’altra parte, la Commissione europea ha già statuito), ecc.. Non sembra che in tal modo il desiderio costituente e l’ansia di corrispondere a tempi nuovi siano esaltati – ormai si parla sempre di più di “costituente” ma sempre di più si opera, in realtà, sul terreno amministrativo. Si pensi a quanto avviene sul livello europeo – se “l’Europa non è uno Stato”, non è neppure un ambito costituente, anche se ognuno dei mille produttori di norme e dei mille attori di governance che agiscono dentro il terreno comunitario, si pretendesse costituente. Iniziativa costituente significa invece creare “incidenti democratici di base”, “produzioni istituzionali di democrazia dal basso” e non determinare semplicemente atti amministrativi nell’alto dei cieli della politica dei partiti.
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Posted: Marzo 25th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, crisi sistemica, critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 6 Comments »
by Angela Mitropoulos
Contract & Contagion: From Biopolitics to Oikonomia
Angela Mitropoulos
Contract and Contagion presents a theoretical approach for understanding the complex shifts of post-Fordism and neoliberalism by way of a critical reading of contracts, and through an exploration of the shifting politics of the household. It focuses on the salient question of capitalist futurity in order to highlight the simultaneously intimate, economic and political limits to venturing beyond its horizon.
In capitalist history, as well as in philosophy, finance, migration politics, and theories of globalisation, contagions simultaneously real, symbolic and imagined recur. Where political economy understood value in terms of labour, Contract and Contagion argues that the law of value is the law of the household (oikonomia).
In this book Angela Mitropoulos takes up current and historical theories of affect, intimacy, labour and speculation to elaborate a queer, anti-racist, feminist Marxism, which is to say: a Marxism preoccupied not with the seizure of opportunity to take power, form government, or represent an identity, but a Marxism which partakes of the uncertain movements that break the bonds of fate.
“In this stunning reworking of the philosophical fibres of economy, Angela Mitropoulos provides an expansive realignment of how risk is apportioned and contingency valorised. The result is a febrile politics of debt and credit to pre-occupy the movements in and for the future.” – Randy Martin, author of Empire of Indifference: American War and the Financial Logic of Risk Management
“Angela Mitropoulos’ work moves beyond the impasses of autonomist Marxism and queer theory to forge a critical analysis of the imbrications between economy, nation-state and family. Locating the dynamic of capital in the ‘double movement’ of contract and contagion, Mitropoulos radicalizes the Marxian critique of contract while refusing the foundational nostalgias of the left. Most forcefully, Mitropoulos proposes the prism of household politics (or oikonomia) as a means of interrogating the shifting nexus between the sexual and the economic across different regimes of accumulation. Baroque and incisive, this book will unsettle the most familiar of political categories.” – Melinda Cooper, author of Life as Surplus: Biotechnology and Capitalism in the Neoliberal Era
Bio: Angela Mitropoulos is a political theorist whose corpus spans the registers of radical movements and sustained philosophical enquiry. Her writing has appeared in numerous journals, including Social Text, South Atlantic Quarterly, Mute, Cultural Studies Review, Borderlands, and ephemera; and it has been widely translated, disseminated and taught in both academic and activist contexts.
[Contract & Contagion]
Posted: Marzo 21st, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, crisi sistemica, epistemes & società, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Dieci tesi contro il capitalismo predatorio
di Jean-Claude Lévêque
I
Il capitalismo contemporaneo è la forma estrema dello stesso, ovvero il capitalismo nella sua fase discendente, ancora inedita nei suoi effetti complessivi. La «servitù del debito» è uno dei suoi modi di oppressione e controllo delle masse, ma non il solo.
Si può a ragione parlare di «capitalismo predatorio» o di «Capitalismo assoluto» (Preve), anche se entrambe le definizioni paiono ancora insufficienti per coglierne le caratteristiche dominanti. Il dibattito attuale (considero come posizioni interessanti e opposte quelle di Dardot/Laval, di Bidet, di Lazzarato, Negri, Zizek, Badiou, di Aglietta e di Lévy) stenta a trovare una strategia di uscita dal dominio del capitale finanziario, per ragioni teoriche e ideologiche. Si fanno delle analisi convincenti- anche se non sempre-, ma quello che risulta pressoché impossibile (forse soprattutto perché, in generale, non si tiene conto di Lenin) è trovare un modo per opporsi efficacemente alla retorica intransigente della classe dominante.
La strategia dei capitalisti sembra invece molto più efficace nello spuntare le armi dei movimenti che vi si oppongono. La constante criminalizzazione di qualsiasi forma di opposizione e l’affermazione constante e martellante dell’assenza di alternative lasciano poco spazio ai movimenti.2
Un’altra caratteristica del capitalismo predatorio è la sua connivenza con le mafie mondiali, che ormai spesso appare assolutamente evidente, sebbene negata dai media di regime.
I metodi dei «pirati legalizzati» e dei «pirati fuorilegge» spesso coincidono, sia nei modi che nei risultati ottenuti. Il velo fuorviante della retorica dei “diritti umani” serve solo a occultare il fatto che di essi è stato fatto strame.
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