Posted: Giugno 7th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comune, comunismo, crisi sistemica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | Commenti disabilitati su PHILOSOPHERS OF THE WORLD UNITE!
CfP: Philosophers of the World Unite! Theorizing Digital Labour and Virtual Work: Definitions, Forms and Transformations
Call for Papers: Philosophers of the World Unite! Theorizing Digital Labour and Virtual Work: Definitions, Forms and Transformations
Special issue of tripleC: Communication, Capitalism & Critique
Supported by:
tripleC: Communication, Capitalism & Critique. Open Access Journal for a Global Sustainable Information Society.
http://fuchs.uti.at/wp-content/CfP_DigitalLabour.pdf
COST Action IS1202 “Dynamics of Virtual Work”-Working Group 3 (http://dynamicsofvirtualwork.com, http://dynamicsofvirtualwork.com/wg3/),
Editors: Marisol Sandoval, Christian Fuchs, Jernej A. Prodnik, Sebastian Sevignani, Thomas Allmer.
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Posted: Giugno 3rd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, comunismo, crisi sistemica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | 14 Comments »
di Toni Negri
Postfazione di Gerald Raunig, Fabbriche del sapere, industrie della creatività, ombre corte / cartografie 2012
Inutile insistere sulla ricchezza e l’efficacia della ricerca di Gerald Raunig. La sua scrittura si muove su quel terreno che si stende dai Mille Plateaux di Deleuze-Guattari fino alle costituzioni del postoperaismo ed ivi produce modulazioni ricche ed articolate della critica del potere ed inaugura nuove linee di fuga, diserzioni, dialettiche di nuovi mondi, riterritorializzazioni creative… È un controcanto questo a tutti quegli sviluppi del pensiero postmoderno (ed anche postoperaista) che coagulano linee di critica (altrimenti aperte) ed inclinano in maniera teoreticistica e rigida momenti di resistenza (altrimenti vivaci). È dunque un controcanto essenziale che ci rimette tutti con i piedi per terra.
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Posted: Maggio 16th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, comune, comunismo, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | 356 Comments »
di Mona Chollet
da “Le Monde Diplomatique”, maggio 2013
Si lavora e, in cambio, si ricevono soldi. Questa logica è così ben impressa nella mente, che la prospetti- va di garantire un reddito di base incondizionato, cioè di versare a ciascuno una somma mensile sufficiente a permettergli di vivere, indipendentemente dall’attività lavorati- va, sembra un’aberrazione. Siamo ancora convinti di dover strappare a una natura arida e ingrata i mezzi per la sussistenza individuale; ma la realtà è ben diversa.
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Posted: Aprile 29th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comunismo, crisi sistemica, Révolution | 9 Comments »
di Slavoj Zizek
Nelle ultime pagine della sua monumentale “Seconda guerra mondiale”, Winston
Churchill riflette sull’enigma di una decisione militare: dopo che gli
specialisti (economisti e esperti militari, psicologi, metereologi)
propongono le loro analisi, qualcuno deve assumersi la responsabilità più
semplice e proprio per questa ragione più difficile, quella di convertire
questa complessa moltitudine in un semplice si o no. Dovremmo attaccare,
dobbiamo continuare ad aspettare, eccetera. Questo atto, che non può mai
essere in tutto e per tutto razionale, è quello di un Comandante. Compito
degli esperti è quello di presentare la situazione nella sua complessità,
compito del Comandante è quello di semplificarla in una secca decisione. Il
Comandante è necessario soprattutto in situazioni di profonda crisi. La sua
funzione è quella di sancire un’autentica spaccatura: una spaccatura fra
coloro che vogliono tirare avanti con la vecchia visione del mondo e coloro
che sono consapevoli del necessario cambiamento. L’unica strada per una vera
unità è l’identificazione di una tale spaccatura, e non quella fatta di
compromessi opportunistici. Prendiamo un esempio che sicuramente non è
problematico: la Francia nel 1940. Persino Jacques Duclos, seconda
personalità del Partito Comunista Francese, ammise in una conversazione
privata che se in quel momento si fossero tenute libere elezioni in Francia,
il Maresciallo Petain avrebbe vinto col 90% dei voti. Quando De Gaulle, con
un gesto storico, rifiutò l’accettazione dell’armistizio con i tedeschi e
continuò la resistenza, egli affermò di essere lui, e non il regime di
Vichy, l’unico a parlare in nome della vera Francia (in nome di tutta la
vera Francia, non solo in nome della maggioranza dei francesi). Ciò che
stava dicendo era profondamente vero anche se democraticamente una tale
affermazione era non solo senza legittimazione alcuna, ma era chiaramente in
contrapposizione con l’opinione della maggioranza dei francesi. Margaret
Thatcher, la signora che non era fatta per arretrare, era un Comandante di
questo tipo. Rimanendo ferma sulle sue posizioni all’inizio percepite come
folli, gradualmente trasformò la sua singolare pazzia in norma comunemente
accettata. Quando fu chiesto alla Thatcher quale era stato il suo più grande
successo, lei prontamente rispose: “Il New Labour”. E aveva ragione: il suo
trionfo fu che persino i suoi nemici politici adottarono le sue basi
economiche, il vero trionfo non è la vittoria sul nemico, esso avviene
quando il nemico stesso inizia ad usare il tuo linguaggio, così che le tue
idee costituiscono la base dell’intero campo di battaglia. Ora, cosa rimane
oggi dell’eredità della Thatcher?
L’egemonia neoliberista sta chiaramente frantumandosi. La Thatcher, forse,
era l’unica vera thatcheriana: lei credeva veramente nelle sue idee. Il
neoliberismo odierno, al contrario, “finge solamente di credere in se stesso
e chiede che il mondo finga la stessa cosa” (per citare Marx). In breve,
oggi, il cinismo si mostra apertamente. Richiama il crudele scherzo di
Lubitch in “Essere o non essere”: quando gli fu chiesto dei campi di
concentramento tedeschi nella Polonia occupata, l’ufficiale responsabile del
campo, Ernhardt, ribatté: “Noi facevamo il concentramento, e i polacchi la
campeggiatura”. La stessa cosa non si adatta bene per la bancarotta della
Enron nel gennaio 2002 (e per tutto il crollo finanziario che ne seguì), che
può essere interpretata come una sorta di commentario ironico sul concetto
di “società del rischio”? Migliaia di impiegati che persero il loro lavoro e
i loro risparmi erano certamente esposti a un rischio, ma senza alcuna vera
possibilità di scelta: il rischio appariva loro come un cieco destino.
Coloro che, al contrario, effettivamente avevano la possibilità di
controllare i rischi e di intervenire nella situazione (i top manager),
minimizzarono i loro rischi vendendo le loro azioni prima della bancarotta.
Così è vero che noi viviamo in una società fatta di scelte rischiose, ma
alcuni (i manager di Wall Street) compiono le scelte, mentre altri (le
persone comuni che pagano i loro mutui) si assumono i rischi. Una delle più
strane conseguenze del crollo finanziario e delle misure prese per reagirvi
(enormi somme di denaro impiegate per salvare le banche) è stata il revival
del lavoro di Ayn Rand, una di quelli che si possono chiamare, senza timore
di sbagliarsi, ideologi del capitalismo radicale e sostenitori della
rapacità. Secondo alcune relazioni, ci sono già segnali che lo scenario
descritto ne “La rivolta di Atlante” (lo sciopero dei capitalisti creativi)
sia in atto. John Campbell, deputato repubblicano, ha detto: “I vincenti
stanno iniziando a scioperare. Sto vedendo, in alcuni casi, una sorta di
protesta da parte delle persone che creano lavoro, che si stanno ritirando
dalle loro ambizioni poiché vedono che loro potrebbero essere puniti per
queste”. L’assurdità di una tale reazione è del tipo di quelle che
distorcono completamente la situazione: la maggior parte delle somme
stanziate per il salvataggio stanno finendo esattamente nelle tasche dei
“titani” senza regole descritti da Rand che hanno fallito nelle loro
fantasie creative e ci hanno portato sull’orlo del collasso. Non sono i
grandi geni creativi che stanno aiutando le pigre persone comuni, sono i
cittadini comuni che pagano le tasse che stanno aiutando i fallimentari
“geni creativi”. L’altro aspetto dell’eredità thatcheriana additato dai suoi
critici di sinistra è stato quello dell'”autoritarismo” della sua
leadership, la sua mancanza del senso di collaborazione democratica. Su
questo punto, comunque, le cose sono più complesse di quanto potrebbero
apparire. Le proteste che stanno attraversando l’Europa convergono in una
serie di richieste che, nella loro spontaneità e ovvietà, formano una sorta
di “ostacolo epistemologico” all’appropriato confronto con la presente crisi
del nostro sistema economico. Queste effettivamente possono essere lette
come una versione popolarizzata delle idee di Deleuze: le persone sanno cosa
vogliono, sono capaci di scoprirlo e di formulare le loro richieste, ma solo
attraverso il loro impegno e la loro continua attività. Così abbiamo bisogno
di una democrazia partecipativa, non solo di una democrazia rappresentativa
con i suoi rituali elettorali che interrompono ogni quattro anni la
passività degli elettori; abbiamo bisogno dell’auto-organizzazione delle
moltitudini, non di un Partito leninista centralizzato con un leader,
eccetera. Questo mito dell’auto-organizzazione diretta e non rappresentativa
è l’ultima trappola, la più profonda illusione che deve cadere, la più
difficile a cui rinunciare. Si, in ogni processo rivoluzionario ci sono
momenti estatici di solidarietà collettiva in cui migliaia, centinaia di
migliaia di cittadini occupano insieme un luogo pubblico, come piazza Tahrir
due anni fa. Si, ci sono momenti di intensa partecipazione collettiva
durante i quali le comunità locali animano dibattiti e discutono, in cui le
persone vivono sotto un permanente stato di emergenza, prendendo le cose con
le loro mani, senza leader che li guidino. Ma questi momenti non durano, e
la “stanchezza” qui non è solo un fatto psicologico, è una categoria
dell’ontologia sociale.
La grande maggioranza delle persone, me compreso, vuole essere passivo e
vuole poter contare su un efficiente apparato statale che garantisca
l’andamento dell’intero edificio sociale, così che io possa condurre le mie
occupazioni in pace. Walter Lippmann scrisse nel suo “Opinione pubblica” del
1922 che le masse di cittadini devono essere guidate da una “classe
specializzata i cui interessi oltrepassino il livello dell’immediatezza”.
Questa classe di elite deve agire come un “macchinario conoscitivo” che
aggiri la sconfitta principale della democrazia, l’impossibile ideale del
cittadino onnicompetente. Questo è il modo in cui le nostre democrazie
funzionano. Con il nostro consenso. Non c’è nulla di misterioso in ciò che
Lippmann ha scritto, è un fatto lapalissiano; il mistero risiede nel fatto
che noi, sapendo questo, continuiamo il gioco. Noi agiamo come se stessimo
decidendo liberamente ma in realtà non solo accettiamo ma addirittura
domandiamo che un’invisibile ingiunzione (inscritta nella stessa forma della
nostra libertà di parola) ci dica cosa fare e pensare. “Le persone sanno ciò
che vogliono”, no, loro non lo sanno, e non vogliono saperlo. Hanno bisogno
di una buona elite, che è poi il motivo per cui un vero politico non solo
sostiene gli interessi dei cittadini, ma è anche lo strumento attraverso il
cui essi scoprono ciò che realmente vogliono. Nella lotta fra
un’auto-organizzazione della moltitudine contro l’ordine gerarchico
sostenuto dal riferimento a un leader carismatico, notare l’ironia di come
il Venezuela, un paese lodato da molti per il suo tentativo di sviluppare
esperimenti di democrazia diretta (concili locali, cooperative, fabbriche
autogestite), è anche un paese il cui presidente era Hugo Chavez, leader
forte e carismatico come pochi: è come se fosse in atto la regola freudiana
della trasposizione. Per far sì che gli individui superino se stessi, e si
impegnino in prima persona come agenti politici, è necessario il riferimento
a un leader, un leader che permetta loro di tirarsi fuori dalle paludi come
il barone di Munchausen, un leader che si pensa sappia ciò che essi
vogliono. E’ in questo senso che Alain Badiou ha recentemente fatto notare
come i sistemi orizzontali minino la classica figura del Comandante, ma allo
stesso tempo diano luogo a nuove forme di dominazione che sono molto più
forti di quelle del classico Comandante. La tesi di Badiou è che un soggetto
ha bisogno di un Comandante per elevarsi sopra la sua condizione di “animale
umano” e per praticare la fedeltà a un Evento-Verità. “Il Comandante è colui
che aiuta l’individuo a divenire soggetto. Sarebbe a dire che se uno ammette
che il soggetto emerge nella tensione fra l’individuale e l’universale,
allora è ovvio che l’individuale necessita di una mediazione, e quindi di
un’autorità, per progredire su questa strada. Bisogna rinnovare la posizione
del Comandante, non è vero che si può farne a meno, persino e specialmente
in una prospettiva di emancipazione.” Badiou non ha paura di opporre il
necessario ruolo del Comandante alla nostra sensibilità democratica: “Questa
funzione capitale del leader non è compatibile con la predominante atmosfera
democratica, ed è per questo che io sono impegnato in una dura lotta contro
questa atmosfera (dopo tutto, uno deve iniziare dall’ideologia).”
Dovremmo seguire senza paura il suo suggerimento: per risvegliare
effettivamente gli individui dal loro dogmatico “sonno democratico”, dalla
loro cieca fiducia nelle forme istituzionalizzate della democrazia
rappresentativa, gli appelli all’auto-organizzazione non sono abbastanza: è
necessaria una nuova figura di Comandante. Ciò richiama i famosi versi della
poesia di Rimbaud “A una Ragione”: “Un tocco del tuo dito sul tamburo
scarica tutti i suoni e dà inizio alla nuova armonia./Un tuo passo, è la
leva degli uomini nuovi e il loro segnale di partenza/la tua testa si volge
di là: il nuovo amore! La tua testa si volge di qua: il nuovo amore!”. Non
c’è assolutamente nulla di intrinsecamente fascista in questi versi. Il
supremo paradosso delle dinamiche politiche è che un Comandante è necessario
per tirar fuori gli individui dalla palude della loro inerzia e per
motivarli verso la lotta emancipatoria e auto-trascendente per la libertà.
Ciò di cui abbiamo bisogno noi oggi, in questa situazione, è di una Thatcher
della sinistra: un leader che ripeta i comportamenti della Thatcher nella
direzione opposta, trasformando l’intero campo di presupposti condivisi
dall’elite politica odierna di tutti i principali orientamenti.
Posted: Aprile 27th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: comune, comunismo, philosophia, post-filosofia, postoperaismo | 78 Comments »
di TONI NEGRI
C’è, in questa riscrittura badiousiana della Repubblica di Platone, un richiamo al “comunismo” come forma di governo, “quinta” oltre le quattro criticate dal fondatore dell’idealismo filosofico: dunque, oltre la Timocrazia (o il governo degli eroi) e l’Oligarchia (dei principi), oltre la Democrazia e la Tirannide (sempre fra loro ciclicamente intercambiabili). Ed è un bel concetto, questo, quasi una innovazione teorica – essa ha, come molte proposte del post-moderno avuto espressione già in altri episodi della filosofia politica, come nelle varie esperienze democratiche di costruzione di comunità ecclesiali, nel Medioevo o nella Riforma, o nella “democrazia assoluta” spinoziana, o nelle stesse utopie anarchiche e socialiste della modernità. Che un solido Philosophe – ovvero un uomo dei Lumi, come a me pare Badiou – rivendichi quest’ideale, è non solo atteso ma bello. Nel suo libro che non è una trattazione sistematica della Repubblica di Platone, né un semplicemente un ammodernamento del testo, né l’esperienza di un dialogo amoroso del filosofo con Amantea (figura femminile e “repubblicana”, invenzione davvero formidabile) – nel suo libro dunque, la si legge con gioia quest’avventura ideale – solo relativamente appassita da qualche noioso esercizio antiquario.
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