Posted: Dicembre 26th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Hardt & Negri: auguri per il 2012
Alcune delle lotte sociali più incoraggianti del 2011 hanno posto la democrazia in cima alla lista.
di Michael Hardt e Antonio Negri
Sebbene siano il prodotto di condizioni molto diverse, questi movimenti – dalle insurrezioni della Primavera Araba alle lotte sindacali nel Wisconsin, dalle proteste studentesche in Cile a quelle negli USA e in Europa, dai disordini del Regno Unito alle occupazioni degli indignados spagnoli e dei greci di Piazza Syntagma – condividono un’istanza negativa: Basta con le strutture del neoliberismo! Non si tratta solo di una protesta di tipo economico, ma è di già una protesta politica, diretta contro la falsificazione della rappresentanza. Né Mubarak, né Ben Ali, e nemmeno i banchieri di Wall Street, non i media di élite, e neanche presidenti, governatori, membri del parlamento o altri funzionari elettivi – nessuno di essi ci rappresenta. La forza straordinaria del rifiuto è molto importante, ovviamente, ma il calore di dimostrazioni e scontri non dovrebbe farci perdere di vista un elemento che va al di là di protesta e resistenza. Questi movimenti condividono anche l’aspirazione a un nuovo genere di democrazia, un’aspirazione a volte esitante e incerta, a volte dichiarata e potente. Gli sviluppi di questa aspirazione costituiscono la traccia che siamo più ansiosi di seguire nel corso del 2012.
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Posted: Dicembre 22nd, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, vita quotidiana | 9 Comments »
“Looking for a place to dwell? Or even for an entirely new world to
live in? But maybe you’re afraid radical theory is boring? Then The
Housing Monster is the book for you. The author of the now classic
Abolish Restaurants has come to grips with another vital issue: the
housing question. Class analysis + a critique of daily life +
uncensored innovative graphics + more… Enjoy!”
—Gilles Dauvé
The Housing Monster takes one seemingly simple everyday thing—a
house—and looks at the social relations that surround and determine
it. Starting with the construction site and the physical building of
houses, the book slowly builds and links more and more issues
together: from gentrification and city politics to gender roles and
identity politics, from subcontracting and speculation to union
contracts and negotiation, from intensely personal thoughts and
interactions to large-scale political and economic forces. What starts
as a look at housing questions, broadens into a critique of capitalism
as a whole.
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Posted: Dicembre 17th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, General | Commenti disabilitati su Della colpa e del debito
di Paolo B. Vernaglione
Come alcuni economisti critici hanno scritto, il paradigma biopolitico con cui interpretare la crisi del debito sovrano sancisce l’intreccio inestricabile della valorizzazione delle facoltà umane individuali con una certa configurazione morale, che dà luogo alla costruzione di un’etica pubblica.
Ciò che si manifesta nella crisi finanziaria prodotta da un capitalismo che da almeno tre decenni non esita a mettere in produzione le facoltà umane di linguaggio e cooperazione, è l’esito combinato di un mutamento decisivo dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti, in primo luogo di un sapere sociale ed economico che entra a far parte della natura umana, nell’economia domestica, nel lavoro di cura e nell’estensione della condizione precaria d’esistenza.
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Posted: Dicembre 17th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica | Commenti disabilitati su Stato del debito ed etica della colpa
Intervista a CHRISTIAN MARAZZI
di IDA DOMINIJANNI
La missione impossibile del salvataggio dell’euro, la frana della de-europeizzazione, il cataclisma geopolitico che ne può derivare. Ma con l’austerità non si esce dalla crisi, si produce recessione e depressione. Intervista a Christian Marazzi sulla penitenza dopo l’abbuffata neoliberale e sull’antidoto del comune.
Economista, docente alla Scuola universitaria della Svizzera italiana e, in passato, a Padova, New York e Ginevra, militante e intellettuale di riferimento dei movimenti della sinistra radicale, Christian Marazzi è uno degli analisti più lucidi della crisi economico-finanziaria in corso. Fra i primi a diagnosticarne il carattere storico e l’impatto globale, già nel 2009, quando la crisi impazzava negli Usa, aveva previsto l’inevitabile coinvolgimento dell’eurozona. Fine analista della finanziarizzazione come modus operandi del biocapitalismo postfordista, non crede nella possibilità di uscire dalla crisi o di contenerne le contraddizioni attraverso le politiche del rigore. Partiamo dal salvataggio dell’euro per ragionare di quello che ci attende.
L’andamento della crisi ha dato ragione alle tue analisi. Nel giro di due anni l’epicentro si è spostato dagli Stati uniti all’Europa, e nel giro di poche settimane siamo passati dal rischio di default di alcuni paesi, Italia compresa, al rischio del crollo dell’intera eurozona, che equivale al crollo dell’Unione per come è stata fin qui (malamente) realizzata. Secondo te come può evolvere la situazione?
Gli indizi della cronaca sono eloquenti. In Europa cresce l’astio nei confronti della Germania e della rigidità di Angela Merkel, che non dà segni di cedimento sulle due proposte che ormai tutti considerano indispensabili per evitare il cataclisma di Eurolandia: la monetizzazione dei debiti sovrani da parte della Bce, e l’emissione di eurobond per ridurre il peso dei tassi d’interesse sui buoni del tesoro dei paesi più esposti alla speculazione dei mercati finanziari.
Anche tu le consideri indispensabili?
Sono due misure condivisibili, ma purtroppo fuori tempo massimo: la crisi ha subito nelle ultime settimane una tale accelerazione da renderle inapplicabili. La trasformazione della Bce in una vera banca centrale sul tipo della Federal Reserve – che possa fungere da prestatore di ultima istanza per acquistare i buoni del tesoro dei paesi-membri indebitati, strappando ai mercati il potere di decidere come e quando intervenire – è un’idea sacrosanta, ma ormai irrealizzabile a fronte della fuga di capitali dall’eurozona che è già in corso, come dimostrano l’andamento dell’ultima asta di bond tedeschi e le 1500 tonnellate di oro che pare siano entrate in Svizzera ultimamente. Arrivati a questo punto, la monetizzazione dei debiti da parte della Bce non farebbe che alimentare questa fuga e accelerare il collasso dell’euro: non a caso, almeno fino a oggi, anche Draghi si oppone a questa soluzione. Lo stesso vale per l’istituzione degli eurobond, obbligazioni emesse e garantite dall’insieme dei paesi-membri per “mutualizzare” o socializzare i vari debiti sovrani: anche questa è una misura sensata, ma non ha alcuna possibilità di essere attuata, perché i paesi forti, come la Francia, l’Olanda, la Finlandia, l’Austria e la Germania si vedrebbero aumentare i tassi d’interesse in un periodo in cui le imprese stanno già subendo aumenti proibitivi del costo del denaro per il rarefarsi della liquidità in circolazione. In ogni caso, anche se al vertice di giovedì a Bruxelles si trovasse un accordo parziale, i vincoli d’austerità imposti ai paesi indebitati sarebbero tali da vanificare qualsiasi salvataggio dell’euro. E’ solo questione di tempo.
Dunque in prospettiva tu vedi un tracollo?
Il fatto è che la crisi della moneta unica costruita secondo i precetti monetaristi e neo-liberali è arrivata alla stretta finale. E a me pare del tutto verosimile che la rigidità di Merkel sia una mossa tattica per rendere inevitabile l’uscita della Germania dall’euro e il ritorno al marco. Circola già la data, fra Natale e l’Epifania, mentre tutti saremo in altre faccende affaccendati; come l’inconvertibilità del dollaro, che fu decisa a Ferragosto. E circolano già, qua in Svizzera, leggende metropolitane su due stamperie che starebbero sfornando marchi.
Se davvero andasse così, che tipo di scenario si aprirebbe?
Nascerebbe una zona monetaria forte, con dentro la Germania, l’Olanda, la Finlandia, l’Austria, con agganciati il franco svizzero e la corona svedese. L’euro, fortemente svalutato e con l’effetto inflazionistico conseguente, resterebbe la moneta dei paesi deboli, che in compenso avrebbero la possibilità di ridurre il loro debito. L’incognita di questa ipotesi è la Francia. Per i paesi più tartassati dai mercati, sul piano economico non sarebbe un cataclisma. Ma il vero cataclisma sarebbe geopolitico. Di fatto, questa spaccatura monetaria darebbe il via a un processo di de-europeizzazione, con un asse fra la Germania, la Cina, la Russia e il Brasile, e un altro fra la Francia e gli Stati uniti. Non è uno scenario fantascientifico, le grandi agenzie finanziarie internazionali ci stanno già lavorando. Quello che nessuno dice però è che può essere l’inizio di una nuova guerra fredda, con la Cina, la Russia e la Turchia coordinate per schermare l’Iran dalle minacce israeliane. E’ inquietante che di questo non si parli: il rischio Iran è esplosivo. Ed è inquietante pure che ormai si parli solo della crisi europea, rimuovendo la situazione degli Stati uniti, dove nel frattempo la crisi dei subprime continua, i poveri sono diventati 46 milioni, la disoccupazione è al 15%, Obama non riesce a battere chiodo e per la sua rielezione può sperare solo nella litigiosità dei Repubblicani.
Ci sono differenze, e quali, fra l’andamento della crisi negli Usa e in Europa?
Sul piano economico nessuna: l’Europa dei debiti sovrani è l’equivalente del mercato statunitense dei subprime, solo che al posto dei singoli individui indebitati ci sono gli stati indebitati. Ma una differenza c’è, a tutto svantaggio dell’Europa, ed è politica, anzi istituzionale e costituzionale: in Europa non c’è Costituzione, e non c’è una banca centrale. C’è la Bce che delega la monetizzazione dei debiti ai mercati, emettendo liquidità su richiesta di quelle stesse banche che hanno contribuito a creare debito pubblico e ora ci speculano sopra.
In questo quadro macroregionale e globale, che ruolo e che senso hanno le politiche nazionali del rigore? In Italia sono state create molte aspettative sul passaggio del governo da Berlusconi a Monti e alla sua squadra di “tecnici”, come se ne dipendesse non solo un recupero di credibilità, ma anche un effettivo potere di intervento sulle dinamiche dei mercati. Ma quanta efficacia possono avere i cosiddetti sacrifici sulla crisi del debito sovrano, e relative speculazioni?
Non è così che si esce dalla crisi, e infatti non ne usciremo: l’orizzonte dei prossimi anni è la recessione. Le politiche di austerità hanno un effetto deflazionistico di compressione della domanda interna, né a questo si può sperare di supplire con le esportazioni. Ma le politiche di austerità sono le uniche contemplate dalla dottrina neo-liberale, che in Europa e in tutto l’Occidente è tutt’ora imperante ed è dura a morire. Dunque restano e resteranno in piedi all’insegna dell’emergenza, o, per usare il termine di Naomi Klein, della shock economy, perché consentono di fare quello che in una situazione normale non si può fare: compressione dei salari, riduzione dell’impiego pubblico, depotenziamento dei sindacati; la famosa macelleria sociale. E’ la logica della governance della crisi: una regolazione tecnica e tecnocratica dei rapporti sociali nello stato d’emergenza. Ha detto bene il vicepremier cinese in un’intervista al Financial Times: quello che ci aspetta è un nuovo Medio Evo finanziario e sociale.
Con quali caratteristiche politiche, e antropologico-politiche?Tu non parli mai solo di economia…
Alcuni processi sono ormai evidenti. Il primo è la precarizzazione della Costituzione. Il secondo – l’hai scritto pure tu a proposito del ”passaggio Monti” – è l’azzeramento dell’autonomia del politico sotto lo stato d’eccezione. Il terzo è il passaggio dal Welfare State al Debtfare State: uno Stato in cui il sociale si rappresenta, e viene rappresentato, nella forma del debito, e si disciplina, e viene disciplinato, nel segno del debito. Anzi, del debito e della colpa, secondo il doppio significato della parola tedesca schuld: tema nietzschiano, che oggi torna al centro del bel libro di Maurizio Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté. Il debito come dispositivo antropologico di autodisciplinamento dell’uomo neo-liberale.
E’ chiarissimo da quello che sta accadendo in Italia, dove in un attimo siamo passati dall’etica del godimento del ventennio berlusconiano all’etica penitenziale del governo Monti. Ma quanto pensi che possa reggere, questo dispositivo? Il soggetto neo-liberale descritto da Foucault, l’imprenditore di se stesso che si nutriva di consumo indebitandosi, ora può nutrirsi del senso di colpa per i debiti contratti? Si tratta di uno sviluppo o di una crisi dell’etica neo-liberale?
Per ora, io ci vedo un inveramento: il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell’uomo indebitato. L’imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c’è anche un inveramento, o uno svelamento, dell’essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva.
Però c’è chi si indigna, non ci sta, si ribella. Per fortuna. Che pensi degli Indignados e di OWS?
Per restare nella scia di Foucault, lui degli Indignados avrebbe detto che si tratta di un movimento parresiastico: un movimento di persone che dicono la verità. Denunciare l’ipocrisia dei mercati, svelare che i debiti sono tutti “odiosi”, illegittimi, frutto di rendita e di espropri, e dichiarare che questa crisi l’hanno prodotta le banche e non possiamo pagarla noi, significa affermare la verità del punto di vista del popolo su quella dei mercati. E poi, il movimento di Madrid ha funzionato come uno spazio di democrazia assoluta, come una grande assemblea costituente del comune basata sullo stare insieme nello spazio pubblico: una sorta di ribaltamento dell’etica della paura hobbesiana, in cui mi pare molto visibile l’impronta femminile delle pratica delle relazioni e di un’economia della cura che diventa ecologia politica. La crescita del movimento su scala europea è l’unico antidoto al processo di de-europeizzazione che dicevamo all’inizio. Ma la spinta costituente deve darsi anche delle forme di autodeterminazione locale concreta. Per spezzare il dispositivo cardinale del post-fordismo, lo sfruttamento di saperi, conoscenza e relazioni, non c’è altro modo che ribaltarlo in produzione del comune, tanto più ora che le politiche di austerità comporteranno la privatizzazione ulteriore, la vendita e la svendita dei beni comuni, dall’acqua al patrimonio culturale; ma produrre il comune significa organizzarsi a livello locale, attrezzarsi a gestire nei quartieri l’acqua, l’elettricità, i mezzi di trasporto, le banche stesse.
Loretta Napoleoni, che incontri oggi alla Libreria delle donne di Milano, in un libro di due anni fa sosteneva che la funzione sociale delle banche vive ormai solo nella finanza islamica, e che è da lì che dovremmo riscoprirla: la finanza islamica non specula.
E’ vero, nel senso che dobbiamo reintrodurre la solidarietà al livello giusto, all’altezza delle contraddizioni prodotte dalla crisi. E la ri-socializzazione del debito e della funzione originaria delle banche è una strada per piegare a nostro vantaggio la finanziarizzazione del capitale, lottando sul suo terreno.
Ma la finanziarizzazione si può interrompere, o invertire? Tu ci hai spiegato molto bene che l’economia finanziaria non è più separabile dall’economia reale e si basa sul coinvolgimento attivo di comportamenti e forme di vita della gente comune: il consumatore che usa la carta di credito per fare la spesa, il salariato alle prese con i fondi pensione, i ceti medi strozzati dai mutui per la casa, i poveri che si indebitano fornendo come unica garanzia la loro ‘nuda vita’. Se è così, è possibile de-finanziarizzare, almeno in parte, il sistema, o si tratta solo di bonificarlo dai soprusi delle banche? E se produzione e consumo sono così intrecciati al debito, è possibile evitare un esito recessivo e depressivo della crisi?
La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito di cui abbiamo parlato poco fa, che deprime la domanda e i consumi, e della disciplina della colpa, che deprime le esistenze. Noi dobbiamo lavorare invece per riconvertire la rendita privata in rendita sociale: per la socializzazione del debito, per il rilancio per questa via della domanda e dei consumi di beni socialmente utili, per la riappropriazione dello spazio pubblico, per la ricostruzione di socialità e di felicità collettiva. Il comune è questo e non c’è altro modo per uscire dalla spirale autolesionista della finanziarizzazione. Alcune parole d’ordine delle lotte di questi anni, dal reddito minimo garantito alla Tobin tax, vanno già in questa direzione.
E della parola d’ordine del diritto all’insolvenza che cosa pensi? Nei movimenti viene presentata come un diritto di resistenza alla finanziarizzazione della vita, molti economisti la ritengono una mossa demagogica, altri ci vedono una possibilità di ripristino della sovranità nazionale cancellata dalla tecnocrazia europea.
Penso che sia giusta se diventa una pratica soggettiva e contestuale, non se viene lasciata in mano agli Stati. Ti faccio un esempio: negli Stati uniti sta maturando da tempo una bolla delle borse di studio, che equivale più o meno alla metà del volume dei mutui subprime: in quel caso il diritto all’insolvenza va senz’altro esercitato dagli studenti e dalle loro famiglie per distinguere il debito illegittimo da quello legittimo. Ma non lo affiderei agli Stati, né alla loro velleità di ritrovare per questa via la sovranità nazionale perduta.
Posted: Dicembre 17th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica | Commenti disabilitati su Lotte di classe nel default
di ANDREA FUMAGALLI
La crisi dei debiti sovrani europei ha portato alla ribalta termini che sino a poco tempo erano conosciuti solo agli addetti ai lavori. Tra questi, default e insolvenza sono diventate parole assai comuni anche all’interno dei movimenti sociali che hanno dato vita alle grandi manifestazioni del 15 ottobre scorso. È quindi con perfetto tempismo che DeriveApprodi pubblica la traduzione del libro di François Chesnais Le dettes illégitimes (uscito in Francia nell’estate 2011) con l’accattivante titolo: Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza (pp. 160, euro 10).
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Posted: Dicembre 17th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica | Commenti disabilitati su Un orizzonte sovranazionale per rompere la trappola del debito
di CHRISTIAN MARAZZI
Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza di François Chesnais è un saggio sulla «geometrica potenza» dei mercati finanziari, un manuale prezioso, rigoroso e molto documentato, per i movimenti di resistenza contro gli effetti devastanti della finanziarizzazione che da trent’anni domina il pianeta, distruggendo l’esistenza di milioni di persone, l’ambiente e la democrazia. L’analisi storica del capitalismo finanziario, dalla crisi del modello fordista e del sistema monetario di Bretton Woods fino alla crisi dei debiti pubblici e della sovranità politica di oggi, ha al suo centro la divaricazione tra profitti e condizioni di vita, di reddito e di occupazione, che da tempo è all’origine della produzione di rendite finanziarie, del «divenire rendita dei profitti», quel processo che dalla crisi dei subprime del 2007 alla crisi dell’euro di oggi sta svelando la fragilità del sistema bancario mondiale e la ricerca disperata di misure politiche, istituzionali e soprattutto sociali volte a a salvare il potere dei mercati finanziari. Una crisi la cui funzione è esplicitata in un documento del Fmi del 2010: «le pressioni dei mercati potrebbero riuscire lì dove altri approcci hanno falllito», una vera e propria strategia da shock economy, come Naomi Klein ci ha ben spiegato.
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Posted: Dicembre 12th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Marazzi
di Christian Marazzi: La bolla dell’insubordinazione
La crisi del capitalismo finanziario che si è imposto negli ultimi trent’anni è speculare alla crisi del rapporto tra capitale e lavoro che ha siglato la fine del regime fordista d’accumulazione e la transizione verso un capitalismo caratterizzato dalla centralità della rendita rispetto alle variabili «reali» dell’economia, ossia salario, prezzo e profitto. La finanziarizzazione dell’economia prende avvio negli anni Settanta con la deregolamentazione dei mercati dei cambi che ha fatto seguito alla rottura degli accordi di Bretton Woods, si sviluppa con la deregolamentazione dei mercati finanziari con la nascita dei mercati obbligazionari ai quali gli Stati si rivolgono per finanziare i propri debiti pubblici, si espande ulteriormente alla fine degli anni Ottanta con lo sviluppo dei mercati dei prodotti derivati e, dalla metà degli anni Novanta a oggi, con la globalizzazione dei mercati monetari e finanziari. «Ma l’elemento più impressionante – scrive François Morin nel suo Un mondo senza Wall Street? – è senza alcun dubbio la rapidità con la quale i mercati di copertura si sono sviluppati. Nel 1987, sui mercati delle opzioni e dei futures il volume degli scambi era pari a 1,7 teradollari (T$), mentre alla fine 2009 aveva raggiunto i 426,7 T$. Se si eccettuano i Cds che sono passati da 0,9 T$ nel 2001 a 62,1 T$ nel 2007, prima di calare di nuovo a 30,4 T$ nel 2009, questa folgorante espansione non è stata arrestata dalla crisi». La creazione di liquidità, in altre parole, è praticamente illimitata e lubrifica una finanza di mercato in cui i rischi legati ai più diversi prodotti finanziari sono tra loro tutti correlati, dando origine a processi contagiosi che alimentano una bolla dopo l’altra, dalla bolla internet a quella dei subprime alla bolla dei debiti sovrani. È infatti nella natura stessa dei mercati finanziari il fatto di essere intrinsecamente instabili, soggetti cioè a processi autoreferenziali, tali per cui l’aumento del prezzo di un attivo finanziario non provoca la riduzione della sua domanda, bensì l’opposto, ossia un ulteriore aumento della domanda, facilitato dall’accesso al credito.
L’autonomizzazione della finanza dall’economia reale è l’altra faccia dell’autonomizzazione del capitale dal rapporto diretto tra capitale e lavoro salariato, quel processo che vede il capitale colonizzare sempre nuove «terre vergini», sussumendo prima il lavoro salariato alla finanza e al debito, poi i beni comuni di intere popolazioni attraverso la privatizzazione dei debiti pubblici e, infine, la stessa sovranità degli Stati. È un processo sincopatico, fatto di alternanza tra espansione e contrazione, che nel corso degli ultimi decenni ha visto la biforcazione tra tassi di profitto e tassi di accumulazione, con i primi in costante aumento e i secondi stagnanti, se non regressivi. Gli aumenti dei profitti si effettuano attraverso tagli di salari e occupazione, flessibilizzazione del lavoro e esternalizzazione dei processi di estrazione/appropriazione del valore prodotto nella sfera della circolazione del capitale. In questo movimento espansivo del capitale i beni comuni vengono «recintati», ossia privatizzati, generando esclusione e povertà. L’accumulazione del capitale si effettua a mezzo di esclusione, di sfruttamento non remunerato della vita, di «disoccupazione attiva». Si effettua attraverso la generalizzazione dei rapporti di debito/credito all’intero ciclo di vita del capitale e della forza-lavoro. Di fatto, il capitalismo finanziario è, come ha scritto Maurizio Lazzarato, una vera e propria «fabbrica dell’uomo indebitato».
Nella configurazione odierna del capitalismo finanziario i margini di riforma, di «riregolamentazione[ dei mercati, di ristrutturazione del debito privato e sovrano, sono estremamente ridotti. La rivendicazione del «diritto all’insolvenza» ha infatti senso come obiettivo di uscita dal capitalismo, come processo di insubordinazione dal basso che deve trovare in sé le forme della propria autodeterminazione. La posta in palio non è il fallimento di un paese o di un altro, dato che la finanziarizzazione ha ormai raggiunto un tale livello di interdipendenza da rendere pressoché impossibile qualsiasi riduzione del debito senza effetti devastanti per tutti. La posta in palio è la costruzione di un contro-potere costituente interno ai processi di mobilitazione sociale.
Audiodell’INTERVENTO DI MARAZZI AL SEMINARIO Oltre il welfare verso il commonfare, Milano 3 dicembre 2011
Posted: Dicembre 10th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica, critica dell'economia politica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su intervista a Toni Negri
“La representación es la ausencia de la participación”
Intervista a TONI NEGRI di VERONICA GAGO
En conversación con el filósofo italiano Toni Negri en Buenos Aires, tras su paso por el ciclo Debates y Combates, los rastros de la crisis global se proyectan como crisis de la democracia representativa en el continente europeo, creador de esa fórmula de gobierno hace siglos. Sin embargo, más allá de los encantos de la filosofía, el punto de partida para Negri es firme: son las experiencias sociales las que crean el pensamiento. En esa estela, antepone su entusiasmo con el movimiento estudiantil chileno, frente al cual dio una conferencia en una universidad ocupada hace una semana, y con el movimiento de “indignados” de España, donde estuvo un mes atrás. Para este intelectual ya convertido en visitante asiduo de Argentina, se trata de auspiciar una época de transición en la cual la pasión democrática común rompa y vaya más allá de los bloqueos que impone la democracia representativa. El acelerado escenario de crisis del antiguamente llamado Primer Mundo pone un tono de urgencia a estas discusiones.
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Posted: Dicembre 10th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, critica dell'economia politica, Marx oltre Marx | Commenti disabilitati su Marazzi
Ciò a cui oggi assistiamo è una forma rinnovata di allocazione di ricchezza come monetizzazione del comune. La crisi europea è l’esito dell’ avvitamento della finanziarizzazione che ha portato alla situazione dei debiti sovrani che rapidamente determina una de-europeizzazione.Un probabile scenario è l’ uscita dall’euro della Germania e anche i grandi istituti bancari e le multinazionali disegnano questo scenario.
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Posted: Dicembre 10th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica | 4 Comments »
Un appello europeo da Firenze
10/12/2011
“Un’altra strada per l’Europa”. Il forum “La via d’uscita”, che si è svolto il 9 dicembre al teatro Puccini su iniziativa di Sbilanciamoci, Rete@sinistra, il manifesto e Lavoro e Libertà, lancia un appello internazionale. All’interno, il testo e i link a tutti i materiali dell’incontro.
Tutto esaurito il 9 dicembre a Firenze al Teatro Puccini. 800 persone per tutta la giornata hanno partecipato al Forum “La via d’uscita” promosso da Rete@sinistra, Sbilanciamoci, Il Manifesto e Lavoro e libertà. Gli interventi – molto attesi – di Rossana Rossanda hanno aperto e concluso l’incontro, in mezzo una fitta serie di proposte su che si può fare per l’Europa, per trovare alternative alle misure del governo Monti, per riaprire spazi di democrazia. L’incontro si è concluso con la proposta di un appello europeo, lanciato e firmato dai relatori e da oggi aperto alla raccolta di firme. Ne pubblichiamo qui integralmente il testo.
Proposta di Appello Europeo per “Un’altra strada per l’Europa”
La crisi dell’Europa è l’esaurirsi di un percorso fondato sul neoliberismo e sulla finanza. Negli ultimi vent’anni il volto dell’Europa è stato il mercato e la moneta unica, liberalizzazioni e bolle speculative, perdita di diritti ed esplodere delle disuguaglianze. Alla crisi finanziaria, le autorità europee e i governi nazionali hanno dato risposte irresponsabili: hanno rifiutato di intervenire con gli strumenti dell’Unione monetaria per arginare la crisi, hanno imposto a tutti i paesi politiche di austerità e tagli di bilancio, che saranno ora inseriti nei trattati europei. I risultati sono che la crisi finanziaria si estende a quasi tutti i paesi, l’euro potrebbe saltare, si profila una nuova grande depressione, c’è il rischio della disintegrazione dell’Europa.
L’Europa può sopravvivere soltanto se cambia strada. Un’altra Europa può essere possibile, se prende il volto del lavoro, dell’ambiente, della democrazia, della pace, di più integrazione. È la strada indicata da una parte importante della cultura e della società europea, dai movimenti per la giustizia, dalle proteste in tutti i paesi contro le politiche di austerità dei governi. È una strada che non ha ancora trovato un’eco tra le forze politiche europee.
La strada per un’altra Europa deve far convergere le visioni di cambiamento, le proteste sociali, le politiche nazionali ed europee verso un quadro comune. Proponiamo cinque obiettivi da cui partire:
Ridimensionare la finanza. La finanza – all’origine della crisi – dev’essere messa nelle condizioni di non devastare più l’economia. L’Unione monetaria dev’essere riorganizzata e deve garantire collettivamente il debito pubblico dei paesi che adottano l’euro; non può essere accettato che il peso del debito distrugga l’economia dei paesi in difficoltà. Tutte le transazioni finanziarie devono essere tassate, devono essere ridotti gli squilibri prodotti dai movimenti di capitale, una regolamentazione più stretta deve impedire le attività più speculative e rischiose, si deve creare un’agenzia di rating pubblica europea.
Integrare le politiche economiche. Oltre a mercato e moneta servono politiche comuni in altri ambiti, che sostituiscano il Patto di Stabilità e Crescita, riducano gli squilibri, cambino la direzione dello sviluppo.
In campo fiscale occorre armonizzare la tassazione in Europa, spostando il carico fiscale dal lavoro alla ricchezza e alle risorse non rinnovabili, con nuove entrate che finanzino la spesa a livello europeo. La spesa pubblica – a livello nazionale e europeo – dev’essere utilizzata per rilanciare la domanda, difendere il welfare, estendere le attività e i servizi pubblici.
Le politiche industriali e dell’innovazione devono orientare produzioni e consumi verso maggiori competenze dei lavoratori, qualità e sostenibilità. Gli eurobond devono essere introdotti non per rifinanziare il debito, ma per finanziare la riconversione ecologica dell’economia europea, con investimenti capaci di creare occupazione e tutelare l’ambiente.
Aumentare l’occupazione, tutelare il lavoro, ridurre le disuguaglianze.I diritti del lavoro e il welfare sono elementi costitutivi dell’Europa. Dopo decenni di politiche che hanno creato disoccupazione, precarietà e impoverimento, e hanno riportato le disuguaglianze in Europa ai livelli degli anni trenta, ora serve mettere al primo posto sia la creazione di un’occupazione stabile, di qualità, con salari più alti e la tutela dei redditi più bassi che la democrazia e la contrattazione collettiva.
Proteggere l’ambiente.La sostenibilità, l’economia verde, l’efficienza nell’uso delle risorse e dell’energia devono essere il nuovo orizzonte dello sviluppo europeo. Tutte le politiche devono tener conto degli effetti ambientali, ridurre il cambiamento climatico e l’uso di risorse non rinnovabili, favorire le energie pulite, le produzioni locali, la sobrietà dei consumi.
Praticare la democrazia. La forme della democrazia rappresentativa e della democrazia solciale attraverso partiti, rappresentanza sociale e governi nazionali, sono sempre meno capaci di dare risposte ai problemi. A livello europeo, la crisi toglie legittimità alle burocrazie – Commissione e Banca centrale – che esercitano poteri senza risponderne ai cittadini, mentre il Parlamento europeo non ha ancora un ruolo adeguato. In questi decenni la società civile europea ha sviluppato movimenti sociali e pratiche di democrazia partecipativa e deliberativa – dalle mobilitazioni dei Forum sociali alle proteste degli indignados in molti paesi – che hanno dato ai cittadini la possibilità di essere protagonisti. Queste esperienze hanno bisogno di una risposta istituzionale. Occorre superare il divario tra i cambiamenti economici e sociali di oggi e gli assetti istituzionali e politici che sono fermi a un’epoca passata. L’inclusione sociale e politica dei migranti è una condizione imprescindibile di promozione della convivenza civile e rappresenta un’opportunità per l’inclusione dell’area europea dei movimenti dell’Africa mediterranea che hanno rovesciato regimi autoritari.
Fare la pace. L’integrazione europea ha consentito di superare molti conflitti, ma l’Europa resta responsabile della presenza di armi nucleari e di un quinto della spesa militare mondiale: 316 miliardi di dollari nel 2010. Con gli attuali problemi di bilancio, drastici tagli e razionalizzazioni della spesa militare sono indispensabili. L’Europa deve costruire la pace intorno a sé con una politica di sicurezza umana anziché di proiezione di forza militare. L’Europa si deve aprire alle nuove democrazie del Medio oriente, così come si era aperta ai paesi dell’Europa dell’est. Si deve aprire ai migranti riconoscendo i diritti di tutti i cittadini del mondo.
Le mobilitazioni dei cittadini, le esperienze della società civile, del sindacato e dei movimenti che hanno costruito quest’orizzonte diverso per l’Europa devono ora trovare ascolto nelle forze politiche e nelle istituzioni nazionali ed europee.
Trent’anni fa, all’inizio della “nuova guerra fredda” tra est e ovest, l’Appello per il disarmo nucleare europeo lanciava l’idea di un’Europa libera dai blocchi militari e chiedeva di “cominciare ad agire come se un’Europa unita, neutrale e pacifica già esistesse”. Oggi, nella crisi dell’Europa della finanza, dei mercati, della burocrazia, dobbiamo lanciare l’idea e le pratiche di un’Europa egualitaria, di pace, verde e democratica.
Primi firmatari (relatori e organizzatori dell’incontro di Firenze):
Rossana Rossanda, Maurizio Landini, Paul Ginsborg, Luigi Ferrajoli, Mario Pianta, Massimo Torelli, Gabriele Polo, Giulio Marcon, Guido Viale, Annamaria Simonazzi, Norma Rangeri, Donatella Della Porta, Alberto Lucarelli, Mario Dogliani, Tania Rispoli, Claudio Riccio, Gianni Rinaldini, Chiara Giunti, Domenico Rizzuti e Vilma Mazza.
Per adesioni:info@reteasinistra.it
• Gli interventi della giornata si possono vedere e ascoltare sul sito di globalproject.info:
Prima sessione. La via d’uscita. L’Europa e l’Italia, crisi economica e democrazia
Seconda sessione. Italia, le alternative all’austerità, al debito, per il lavoro
Terza sessione. La democrazia, la politica
Conclusioni
• La sintesi degli interventi della giornata si può leggere sul sito di peacereporter.it
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