Posted: Ottobre 9th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, bio, epistemes & società, racisme | Commenti disabilitati su Decolonizzare la cultura. Razza, sapere e potere: genealogie e resistenze
Intervista a L. Franceschini autore del volume “Decolonizzare la cultura. Razza, sapere e potere: genealogie e resistenze” a cura di F. Della Sala.
F. Della Sala: Ci troviamo qui con Leonardo Franceschini per presentare il suo libro dal titolo “Decolonizzare la cultura. Razza, sapere e potere: genealogie e resistenze“. Come da titolo, il saggio propone di analizzare il concetto e le forme del razzismo attraverso un dettagliato percorso storico e filosofico. Prima di affrontare i temi trattati nello scritto, è bene comprendere le motivazioni che hanno portato alla sua stesura. Oggi il problema del razzismo viene trattato con urgenza dai media, dalla politica ma anche gli stessi intellettuali, filosofi e letterati che hanno denunciato a più riprese il fenomeno. E’ però interessante notare come, malgrado ciò, sembra che il Suo lavoro metta in discussione queste posizioni, in quanto solo apparentemente critiche. Anzi, nella conferenza da Lei tenuta a Barcellona dichiara apertamente che le campagne antirazziste dei media e della politica sono in realtà limitanti, in quanto solo “una delocalizzazione epistemica” può realmente produrre risultati concreti nella lotta contro il fenomeno del razzismo. Per riassumere, la sua posizione è dunque apertamente critica nei confronti del razzismo, ma anche profondamente scettica verso l’atteggiamento antirazzista sino ad oggi proposto. Partendo da simili premesse, quali sono state le motivazioni che hanno portato alla stesura di questo libro che, in tal senso, pretende di far maggior luce sul fenomeno razzista anche in quelle zone d’ombra spesso dimenticate da giornalisti, politici ed intellettuali?
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qui la seconda parte dell’intervista
Posted: Ottobre 9th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, arts, au-delà, bio, crisi sistemica, digital conflict, epistemes & società, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | Commenti disabilitati su DOPO IL FUTURO:DAL FUTURISMO AL CYBERPUNK.L’ESAURIMENTO DELLA MODERNITA’
di Tiziana Terranova
Bifo_futuroFranco Berardi (Bifo), Dopo il futuro: Dal Futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della Modernità, DeriveApprodi, Roma 2013, pp. 136, € 14.00
In una delle sue lezioni al Collège de France, Michel Foucault offre questa spiegazione del rapporto tra il sapere dell’intellettuale e la lotta. Non spetta all’intellettuale esortare il popolo alla lotta (‘battetevi contro questo in tale o talaltro modo’), piuttosto quello che il sapere dovrebbe fare è dire, rivolgendosi a coloro che vogliono lottare, ‘se volete lottare, ecco dei punti chiave, delle linee di forza, delle zone di chiusura e di blocco’1. È chiaro che nonostante il titolo del nuovo libro di Franco Berardi sia carico di parole quale ‘dopo il futuro’ e ‘esaurimento’, esso non può fare a meno o non intende dissaduere dalla lotta, dalla ricreazione del futuro, non è un libro cioè che ci dissuade da quell’atto fondamentale per qualsiasi pratica politica costituente che è credere nel mondo. E tuttavia, da schizoanalista qual è, si tratta di un libro che pone pesantemente l’accento sui blocchi del desiderio e quindi delle lotte, o nei termini del libro, esso pone la centralità della questione della sensibilità, dell’empatia e dell’etica. Si tratta di un libro che pratica l’arte schizoanalitica della diagnosi, mettendo in evidenza tutta una serie di sintomi, culturali e sociali, che mostrano l’evoluzione e l’esaurimento di quella idea di futuro che ha giocato un ruolo fondamentale nei movimenti politici del novecento, e le conseguenze oggi del suo esaurimento.
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Posted: Ottobre 6th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, bio, epistemes & società, Révolution, riots, sud, U$A, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Filosofia del filo spinato
Nell’epoca delle telecamere per la videosorveglianza, delle tecniche biometriche di identificazione, dei dissuasori per arredo urbano, il filo spinato potrebbe sembrare obsoleto. Eppure è tuttora molto utilizzato in tutto il mondo, anche se in Occidente è limitato a impieghi molto circoscritti, poiché lo si associa ai campi di concentramento. Passare in rassegna tutti i suoi usi, e i suoi sostituti, è un esercizio che può insegnare molto.
di Olivier Razac *
Inventato nel 1874 dall’agricoltore statunitense Joseph Glidden per recintare le proprietà delle Grandi Pianure, il filo spinato diventò subito uno strumento politico di importanza primaria. In meno di un secolo e mezzo, è servito di volta in volta a recintare le terre degli indiani d’America e a rinchiudere intere popolazioni al tempo della guerra di indipendenza di Cuba (1895-1898) o della seconda guerra dei boeri in Sudafrica (1899-1902); ha circondato le trincee nella prima guerra mondiale, e di filo spinato era l’incandescente recinzione dei campi di concentramento e sterminio nazisti.
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Posted: Settembre 30th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, bio, epistemes & società, post-filosofia | 8 Comments »
da Alfa+ Quotidiano in rete
di Paolo B. Vernaglione
Scrivere è Il bel rischio perché è pericoloso. Essere nel linguaggio per l’animale umano comporta avere a che fare con il lato oscuro, il rovescio di sé, di cui oggi invero la superficie della prassi raramente rende conto. Nell’immensa opera di Foucault, scrivere significa confrontarsi con un’esteriorità, cioè riconoscere il mondo e l’insieme delle relazioni individuali, come effetto di un’azione comunque rischiosa in cui trovano corpo relazioni molteplici e intricate.
Nel 1968 il critico letterario della rivista “L’Art” Claude Bonnefoy, propone a Foucault una serie di interviste sul senso della scrittura come impresa personale. Leggere adesso quest’unica conversazione, interrotta e redatta da Philippe Artières, curatore dell’edizione francese del saggio, procura un piacere non dissimile da quello intenso e sfrangiato che si prova nello studiareStoria della follìa, Le parole e le cose, Il coraggio della verità. Con un supplemento, che emerge al vivo dalla puntuale traduzione di Antonella Moscati. Foucault infatti, incitato dalle domande di Bonnefoy, parla dello scrivere come “rovescio del ricamo”, cioè di quel modo in cui corpo e linguaggio tentano di aderire l’un l’altro nella radicale differenza che li separa.
Per Foucault non si tratta infatti di spiegare, denotare, indicare alcunché nel registro del saggio, della conferenza, della lezione universitaria; bensì di riflettere su quell’attività quotidiana che presiede l’insieme dei registri discorsivi, di quel carattere impersonale del linguaggio in cui si costituisce biologicamente e storicamente la soggettività. Quanto qui l’uso della facoltà di linguaggio sia in rapporto alla verità, in cui si consumano e si producono le scienze mediche, fisiche e sociali, emerge nel tema della morte che ogni scrivere organizza e mette in forma: la morte degli altri, nel caso di un’archeologia dei discorsi e delle pratiche, in cui ciò che è scritto è del passato, di gente morta. La propria morte che, a partire da quella di chi è trapassato, si organizza come morte individuale, nell’esibire la finitudine quale limite in cui è inscritta la natura umana.
Per Foucault non si tratta né di resuscitare storicisticamente il passato, né di ricostruirlo in una comunicazione, ma, in un’indagine genealogica, giocare la distanza tra quel passato e il nostro presente. Si tratta, con postura simile a quella di Walter Benjamin, di misurarlo e connetterlo alla serie di origini non originarie che contrassegnano i saperi, la loro storia, i loro rapporti con i poteri. L’immagine di questa attività così individuale e così lontana dall’espressione di una qualche identità personale, disloca un orizzonte di necessità. In questa conversazione Foucault distingue due luoghi dello scrivere, dello scrittore (più o meno professionista) e dello “scrivente” che è colui che incontrando un tema, un campo di indagine, un archivio, una filosofia, ne cerca la fonte, ne indaga l’ambito, ne manifesta i limiti, in modalità critica, ovvero affatto monumentale o celebrativa o apologetica.
Scrivere dunque è fare diagnosi, rendersi un anatomopatologo (di uomini infami, di norme ordinative, di modi di governo degli uomini), in quell’atto colmo di distanza dal mondo in cui si iscrive qualcosa nel corpo degli altri. Scrivere, dice Foucault a proposito dei suoi autori preferiti, Roussell, Artaud, Kafka, è il tentativo di far defluire nelle sillabe deposte sul foglio l’intera sostanza del corpo; “non essere altro che quegli scarabocchi, morti e ciarlieri a un tempo. Ma a questa riduzione della vita non si arriva mai…”.
Il bel rischio è da leggere insieme alla conferenza Che cos’è un autore?(1969), in italiano nella raccolta di Scritti letterari in risposta alle critiche sollevate L’archeologia del sapere. In quel testo Foucault testimonia la trasformazione del soggetto-autore, designato nell’età classica e fino alla metà del XVIII secolo, in una funzione-autore, in cui si raccoglie un regime di appropriazione (proprietà letteraria, diritti d’autore), un’imputazione nominale (“Rousseau ha affermato”, “Nietzsche ha detto…”), un’identità progettuale (omogeneità di stile, di discorsi, di tematiche), secondo l’eredità delle norme di inclusione/esclusione tramandate alla critica letteraria dalla tradizione interpretativa cristiana.
Ma per quanto sedimentato nell’odierna leggera inconsapevolezza del “piacere di scrivere”, il bel pericolo rimane un’urgenza, una necessità improcrastinabile in cui, aggiungiamo, allo stesso tempo tremano e si consolidano i profili definiti dello scrivente e dello scrittore. In quella zona di neutralizzazione che delimita il carattere specifico e arbitrario della prassi umana, si colloca l’anonimato, effetto di ogni scrittura. Forse oggi più di ieri esso vale quale criterio per distinguere ciò che è letteratura da ciò che, in maniera sempre più intensa e nauseante, è produzione narcisistica e mediatica di sé.
La grande editoria, che presiede al divenire merce del linguaggio, allestisce allo stesso tempo un teatro del consumo narrativo, mentre la critica letteraria ne produce l’ontologia, da cui sarebbe ora di prendere le distanze per costruire una resistenza facendo fronte comune di donne e uomini di buona volontà. L’esemplare lezione di Foucault infatti è che scrivere è proscrivere la nozione culturale di autore, mostrare che i tanti piccoli “io” che consumano carta, bit, e pagine culturali sono funzioni mercantili in cui la facoltà di linguaggio diviene forza di sfruttamento. Perché già da sempre e proprio ora, in essa tutti si è inscritti.
Michel Foucault
Il bel rischio
Cronopio (2013), pp. 86
€ 10,00
Posted: Settembre 28th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, bio, comunismo, critica dell'economia politica, epistemes & società, Révolution | Commenti disabilitati su Sulla formazione delle anime nell’epoca della valorizzazione della vita
di Paolo B. Vernaglione
E’ probabile che per attribuire un senso a quanto oggi va sotto il nome ambiguo e multisignificativo di “formazione” sia necessario mettere in prospettiva i concetti di orgine europea di istruzione e di educazione.
Ma per fare questo sarebbe opportuno indagare una archeologia del presente in cui si presentano valorizzate le attività umane, nel punto della modernità chiamato post-fordismo. Questa piega densa e flessibile del nostro tempo infatti sembra in qualche modo riepilogare la cultura bimillenaria europea, ma in primo luogo sembra far emergere i punti storici di frattura, le differenze e le dispersioni in cui oggi possiamo riconoscere le dinamiche inerenti alla formazione, i loro rapporti con la ricerca e con le scienze, nonché con l’insieme del sapere che, almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, si è accumulati intorno e nel concetto di formazione, al punto da “formarlo” e deformarlo a sua volta.
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Posted: Settembre 25th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, bio, epistemes & società, post-filosofia | 8 Comments »
di Silverio Zanobetti
Nel suo Devi cambiare la tua vita Sloterdijk distingue un mondo moderno in cui le forze umane vengono mobilitate sotto il segno del lavoro e della produzione e un mondo antico in cui la mobilitazione estrema delle stesse forze si verifica in nome dell’esercizio e della perfezione. Se il mondo antico dovesse risorgere lo farebbe in nome di una vita incentrata sull’esercizio. In effetti l’esplosione contemporanea dell’offerta e della domanda di corsi di Coaching manager dedicati ai top manager e “a chi ne sente la necessità”, sono tesi proprio a migliorare le performance del “capitale umano” attraverso un’ottimizzazione delle competenze relazionali. In questi corsi ci si premura di sottolineare come l’elemento alla base del lavoro su di sé è l’ “individuo”, i suoi tratti caratteriali unici, che devono essere valorizzati: percezione, sensazione, memoria, durata costituiscono quella materia di soggettivazione che viene così catturata. Attraverso un lavoro su di sé l’individuo deve imparare a modulare i suoi stati emozionali, a diventare imprenditore di se stesso: l’esercizio diventa tortura laddove la cornice entro la quale questo esercizio si compie è costituita dall’attuale economia del debito[1]. Da qui la demoltiplicazione della forma impresa in tutto il campo sociale.
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Posted: Settembre 2nd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, bio, comunismo, postoperaismo, Révolution, vita quotidiana | 7 Comments »
di Antonio Negri
When we speak of the globalization of markets we also speak of a limitation imposed on the sovereignty of nation-states. In Western Europe, the essential error of national left-wing movements and parties [des gauches nationales] has been their failure to understand that globalization is an irreversible phenomenon.
Up until the fall of the Soviet Union, the US leadership succeeded in combining – with prudence, but also with manifest consistency – the national specificities of countries belonging to the Western alliances (and NATO, above all) with the continuity of classical imperialism, marshalling them together against ‘real socialism’. Ever since 1989, with the fall of the Soviet bloc, the ‘hard power’ of the United States has been replaced little by little by the ‘soft power’ of the markets: the freedom of commerce and money have subordinated the old instruments of power (the military and the international police), and financial power and the authoritarian management of public opinion have determined the field in which the new liberal actions that support market policies will be undertaken from now on. Neoliberalism has organized itself powerfully on the global level: today it manipulates the current economic and social crisis to its own advantage and can quite probably look forward to a radiant future… A democratic and peaceful transformation of the political foundations [assises] of neoliberalism is unimaginable on the global level – at least so long as no revolutionary ruptures take place.
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Posted: Agosto 29th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, bio, donnewomenfemmes, postgender, Révolution | Commenti disabilitati su Judith Butler
Quella che segue è la prima parte di una lunga intervista realizzata da Ursula del Aguila per la rivista francese Têtu . La traduzione, a quattro mani, proviene dall’originale in francese, che si trova qui, e da una versione in spagnolo, che si può leggere qui. Grazie ad Anna del Laboratorio Le Antigoni per la traduzione dal francese.
Il nuovo soggetto della rivoluzione (parte prima)
Il femminismo si è trovato in un vicolo cieco. È il parere di Judith Butler, importante filosofa all’origine delle teorie queer, ma è anche quello di Beatriz Preciado, che comincia il suo Testo Junkie chiedendosi: «che genere di femminista sono io oggi, una femminista dipendente dal testosterone, o un transgender dipendente dal femminismo?». Non serve a niente addentrarsi ulteriormente nella denuncia perpetua delle ineguaglianze di cui le donne sono vittime, bisogna piuttosto analizzare la sostanza stessa dell’identità «donna» che le imprigiona. Anche la Butler si interessa, dagli inizi degli anni novanta, alla realtà del genere, sempre disturbata (si pensi al suo famoso Gender Trouble), ma attraverso la lente dell’omosessualità.
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Posted: Agosto 27th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, bio, donnewomenfemmes, epistemes & società, post-filosofia, psichè, Révolution | 20 Comments »
di Judith Butler
[Esce in questi giorni la nuova traduzione italiana di The Psychic Life of Power : Theories in Subjection di Judith Butler (La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, a cura di Federico Zappino, Mimesis 2013). Ne presentiamo un estratto. «Ognuno di noi – si legge nel risvolto di copertina dell’edizione italiana – contribuisce attivamente a creare i meccanismi di quel potere che poi subisce. […] Butler ricostruisce scrupolosamente il modo in cui ogni soggetto è sempre compromesso con il potere che lo assoggetta. Questo circolo virtuoso di collaborazione, spesso inconsapevole, si crea nella contiguità e nella mutua reciprocità tra universo psichico individuale e universo della cultura condivisa. Universi che creano una dimensione comune, senza soluzione di continuità. Lungi dall’esprimere giudizi morali su questo meccanismo – autentico tratto distintivo del nostro tempo –, tra le pieghe dell’analisi di Butler l’unica forma di emancipazione possibile si può ravvisare nel momento in cui la connessione tra mondo interno psichico e mondo esterno sociale viene individuata, esplicitata e messa a tema in modo critico dal soggetto che la produce»].
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