Posted: Febbraio 2nd, 2014 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, comune, comunismo, crisi sistemica, critica dell'economia politica, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Il lavoro dell’astrazione. Sette tesi provvisorie su marxismo e accelerazionismo
di Matteo Pasquinelli
1. Il capitalismo è un oggetto di elevata astrazione, il comune è una forza di ancor più grande astrazione.
La nozione di lavoro astratto di Marx identificò per la prima volta il motore centrale del capitalismo, ovvero la trasformazione del lavoro in equivalente generale. In seguito, Sonh-Rethel (1970) individuò la stretta relazione che passa storicamente tra astrazione del linguaggio, astrazione della merce e astrazione del denaro. Nella cosiddetta ‘introduzione’ ai Grundrisse (scritta nel 1857) Marx chiarisce l’astrazione come metodologia di analisi che emergerà solo dieci anni più tardi nella pagine del Capitale (1867). Come ricordano in molti (Ilyenkov 1960), in Marx il concreto è un risultato, è un prodotto del processo di astrazione: la realtà capitalistica, così come quella rivoluzionaria, è una invenzione. “Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione” (Marx 1857: 101). L’astrazione è sia la tendenza del capitale, sia il metodo del Marxismo. L’operaismo viene quindi a strappare l’astrazione dal doppiopetto del capitale per ricucirla addosso alla tuta del proletario: astrazione è sia il movimento del capitale, sia il movimento della resistenza ad esso.
Negri (1979: 66) muove l’astrazione al centro del metodo della tendenza antagonista come processo di conoscenza collettiva: “il processo dell’astrazione determinata è tutto dentro l’illuminazione collettiva, proletaria, è quindi un elemento di critica e una forma di lotta”. In qualche modo, l’idea del comune nasce come progetto epistemico.
Marx, Karl (1857). Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie. Moscow: Verlag für fremdsprachige Literatur, 1939. Traduzione: Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Torino: Einaudi, 1976.
Ilyenkov, E. Vassilievich (1960). La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx. Milano : Feltrinelli, 1961.
Sohn-Rethel, Alfred (1970). Geistige und körperliche Arbeit. Frankfurt (Main): Suhrkamp. Traduzione: Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Milano, Feltrinelli, 1977.
Negri, Antonio (1979). Marx oltre Marx: Quaderno di lavoro sui Grundrisse. Milano: Feltrinelli.
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Posted: Febbraio 1st, 2014 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, digital conflict, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, posthumanism, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Antonio Caronia
di Giuseppe Allegri
Non trovo le parole per salutare Antonio Caronia e questo sarà un pessimo post, ma non so fare altrimenti.
Inutile ricordare quanto gli dobbiamo. Personalmente quasi tutta la distopia infinita: Gibson, Dick, Ballard. E poi le visioni sui postumani. In mezzo “i supereroi con superproblemi”, Frank Miller del Batman, The Dark Night e Alan Moore di Watchmen. Nel passaggio dei primissimi anni ’90, io pivellino universitario provinciale a Roma, a leggerlo in fanzine fichissime, rivistone teoriche e a smanettare per improbabili BBS, da analfabeta cibernetico quale ero e sono.
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Qui per ascoltare le sue lezioni a Brera.
Posted: Gennaio 23rd, 2014 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, bio, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, posthumanism, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Biorank: Algoritmi e trasformazioni del bios nel capitalismo cognitivo
di Giorgio Griziotti
Il processo di messa a valore della vita procede in modo sempre più veloce. Oltre alla cattura e all’espropriazione quotidiana del general intellect, elementi sempre più sofisticati della cooperazione sociale costituiscono ambiti di sfruttamento e di accumulazione biocapitalistica. In particolar modo, i social network con i nuovi algoritmi recentemente inseriti, sono in grado di personalizzare le nostre relazioni sociali, creando enormi riserve di “big data” funzionali alla creazione di banche dati per la diffusione di nuove forme di bio-marketing e di potenti strumenti di sussunzione della vita. Ma tali algoritmi possono essere utilizzati anche per fini alternativi. Nel workshop “Algorithm and Capital”, che si è tenuto al Goldsmith College di Londra, lo scorso 21 gennaio, si è discusso anche di moneta digitale, delle sue potenzialità e limiti. Qui presentiamo l’intervento di Giorgio Griziotti.
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Non si tratta più di decidere se bisogna arrivare o meno, alle pratiche dell’ingegneria biologica, ma di cosa fare con queste tecniche. La lotta è ormai portata sulle alternative paradigmatiche del bios e la moltitudine è chiamata a scontrarsi sull’idea e la realtà, modello, linguaggio di corpo che vuol destinare al General Intellect.
Toni Negri “Desiderio del mostro: dal circo al laboratorio alla politica” 2001[1]
L’uso delle tecnologie è l’asse portante della metamorfosi indotta dalla fusione di vita e lavoro caratteristica del capitalismo cognitivo. Una metamorfosi che investe la coppia innato/acquisito, dove quest’ultimo nel darwinista nature vs nurture[2] è il “nutrimento” dell’ambiente, dalla terra madre alla parola.
Per più di un secolo il dibattito speculativo sul binomio alimenta filosofia, psicologia, ricerca medica e scienze umane e fonda l’organizzazione disciplinare della società compresa quella del regime nazista che ne fa il perno della sua ontologia distruttrice.
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Posted: Gennaio 16th, 2014 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, bio, donnewomenfemmes, epistemes & società, postgender | Commenti disabilitati su Judith Butler
Le Nouvel Observateur: Nel 1990 ha pubblicato Gender Trouble (trad. it., Questione di genere), testo che ha segnato l’irruzione, nel dibattito intellettuale, della “teoria del gender”. Di cosa si tratta?
Judith Butler: Intanto ritengo importante precisare di non aver inventato gli “studi di genere” (gender studies): la categoria di “genere” era infatti già in uso dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti, sia all’interno della ricerca sociologica, sia in quella antropologica. In Francia, invece, in particolare sotto l’influsso di Lévi-Strauss, si è preferito parlare di “differenze sessuali”. La cosiddetta “teoria del gender” prende dunque piede solo tra gli anni Ottanta e Novanta, innestandosi proprio all’incrocio tra l’antropologia statunitense e lo strutturalismo francese.
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Posted: Gennaio 14th, 2014 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, bio, digital conflict, epistemes & società, Foucault, post-filosofia, vita quotidiana | 6 Comments »
di Giorgio Agamben
Manifesto 14 gennaio 2014, p. 10
Democrazia dimezzate. In nome della sicurezza il neoliberismo più radicale convive con l’interventismo statale nella vita sociale. Un’anticipazione dall’ultimo numero di «Le Monde Diplomatique» in edicola con «il manifesto» da domani. Nella terra di nessuno al confine tra pubblico e privato avviene la demolizione della vita politica. Videosorveglianza e tracciabilità del Dna individuale sono le nuove tecnologie del controllo
La formula «per ragioni di sicurezza» («for security reasons», «pour raisons de sécurité») funziona come un argomento autorevole che, tagliando corto in ogni discussione, permette di imporre prospettive e misure che non si accetterebbero senza di essa. Bisogna opporgli l’analisi di un concetto dall’apparenza anodino, ma che sembra aver soppiantato ogni altra nozione politica: la sicurezza.
Si potrebbe pensare che lo scopo delle politiche di sicurezza sia prevenire i pericoli, i disordini, persino le catastrofi. Una certa genealogia fa infatti risalire l’origine del concetto al proverbio romano Salus pubblica suprema lex («La salvezza del popolo è la legge suprema»), iscrivendolo così nel paradigma dello stato di emergenza. Pensiamo al senatus consultum ultimum e alla dittatura a Roma; al principio del diritto canonico secondo cui Necessitas non habet legem («La necessità non ha affatto legge»); ai comitati di salute pubblica durante la Rivoluzione francese; alla costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII° (1799), che evoca i «disordini che minaccerebbero la sicurtà dello stato»; o ancora all’articolo 48 della costituzione di Weimar (1919), fondamento giuridico del regime nazional-socialista, che ugualmente menzionava la «sicurezza pubblica».
Per quanto corretta, questa genealogia non permette di comprendere i dispositivi di sicurezza contemporanei. Le procedure di emergenza mirano una minaccia immediata e reale che bisogna eliminare sospendendo per un tempo limitato le garanzie della legge; le «ragioni di sicurezza» di cui si parla oggi costituiscono al contrario una tecnica di governo normale e permanente.
Il buon timoniere
Molto più che nello stato di emergenza, Michel Foucault consiglia di cercare l’origine della sicurezza contemporanea negli albori dell’economia moderna, in François Quesnay (1694–1774) e i fisiocratici. (…)
Uno dei principali problemi che allora i governi dovevano affrontare era quello delle carestie e della fame. Fino a Quesnay, provarono a prevenirli creando granai pubblici e vietando l’esportazione dei cereali. Ma queste misure preventive avevano degli effetti negativi sulla produzione. L’idea di Quesnay fu di ribaltare il procedimento: anziché provare a prevenire le carestie, bisognava lasciare che esse si verificassero, con la liberalizzazione del commercio interno e esterno, per governarle una volta verificatesi.
«Governare» riprende qui il suo senso etimologico: un buon pilota – colui che tiene il timone, non può evitare la tempesta ma, se essa sopraggiunge, deve essere capace di guidare la sua barca.
È in questo senso che bisogna compredere la formula che si attribuisce a Quesnay, ma che in verità egli non ha mai scritto: «Lasciar fare, lasciar passare». Lungi dall’essere solamente il motto del liberismo economico, essa designa un paradigma di governo che situa la sicurezza – Quesnay evoca la «sicurezza dei fattori e degli aratori» – non nella prevenzione dei disordini e dei disastri, ma nella capacità di canalizzarli in una direzione utile.
Bisogna misurare la portata filosofica di questo rovesciamento che sconvolge la tradizionale relazione gerarchica tra le cause e gli effetti: poiché è vano o ad ogni modo costoso governare le cause, è più sicuro e più utile governare gli effetti. L’importanza di questo assioma non è trascurabile: esso regge le nostre società, dall’economia all’ecologia, dalla politica estera e militare fino alle misure di sicurezza e di polizia. È ancora esso che permette di comprendere la convergenza altrimenti misteriosa tra un liberismo assoluto in economia e un controllo securitario senza precedenti.
Orizzonti biometrici
Prendiamo due esempi per illustrare questa apparente contraddizione. Quello dell’acqua potabile, innanzitutto. Benché si sappia che presto essa mancherà su una grande parte del pianeta, nessun paese conduce una politica seria per evitarne lo spreco. Invece, vediamo svilupparsi, ai quattro angoli del globo, le tecniche e gli stabilimenti per il trattamento delle acque inquinate – un grande mercato in divenire.
Consideriamo ora i dispositivi biometrici, che sono uno degli aspetti più inquietanti delle tecnologie securitarie attuali. La biometria è comparsa in Francia nella seconda metà del XIX secolo. Il criminologo Alphonse Bertillon (1853–1914) si basò sulla fotografia segnaletica e sulle misure antropometriche al fine di costituire il suo «ritratto parlato», che utilizza un lessico standardizzato per descrivere gli individui su una scheda segnaletica. Poco dopo, in Inghilterra, un cugino di Charles Darwin e grande ammiratore di Bertillon, Francis Galton (1822–1911), mise a punto la tecnica delle impronte digitali. Ora, questi dispositivi, chiaramente, non permettevano di prevenire i crimini, ma di sorprendere i criminali recidivi. Ritroviamo qui ancora la concezione securitaria dei fisiocrati: è solo dopo che un crimine è stato compiuto che lo Stato può intervenire. (.…)
Il governo della popolazione
L’estensione progressiva a tutti i cittadini delle tecniche di identificazione una volta riservate ai criminali agisce immancabilmente sulla loro identità politica. Per la prima volta nella storia dell’umanità, l’identità non è più funzione della «persona» sociale e della sua riconoscibilità, del «nome» e della «fama», ma di dati biologici che non possono avere alcun rapporto con il soggetto, come gli arabeschi insensati che il mio pollice tinto di inchiostro ha lasciato su un foglio o l’ordine dei miei geni nella doppia elica del Dna. Il fatto più neutro e più privato diventa così il veicolo dell’identità sociale, sottraendogli il suo carattere pubblico.
Se criteri biologici che non dipendono per niente dalla mia volontà determinano la mia identità, allora la costruzione di un’identità politica diviene problematica. Quale tipo di relazione posso io stabilire con le mie impronte digitali o il mio codice genetico? Lo spazio dell’etica e della politica che eravamo abituati a concepire perde di senso ed esige di essere ripensato da cima a fondo. Mentre i cittadini greci si definivano mediante l’opposizione tra il privato e il pubblico, la casa (sede della vita riproduttiva) e la città (luogo della politica), il cittadino moderno sembra piuttosto evolvere in una zona di indifferenziazione tra il pubblico e il privato, o, per impiegare le parole di Thomas Hobbes, tra il corpo fisico e il corpo politico.
Questa indifferenziazione si materializza nella videosorveglianza delle strade nelle nostre città. Questo dispositivo ha conosciuto lo stesso destino delle impronte digitali: concepito per le prigioni, è stato progressivamente esteso ai luoghi pubblici. Ora uno spazio videosorvegliato non è più un’agorà, non ha più alcun carattere pubblico; è una zona grigia tra il pubblico e il privato, la prigione e il foro. Una tale trasformazione dipende da una molteplicità di cause, tra le quali occupa un posto particolare la deriva del potere moderno verso la biopolitica: si tratta di governare la vita biologica dei cittadini (salute, fecondità, sessualità, ecc.) e non più solo di esercitare una sovranità su un territorio. Questo spostamento della nozione di vita biologica verso il centro della politica spiega il primato dell’identità fisica sull’identità politica. (…)
Nei suoi corsi al Collège de France come nel suo libro Sorvegliare e Punire, Foucault accenna una classificazione tipologica degli Stati moderni. Il filosofo mostra come lo Stato dell’Ancien régime, definito come uno stato territoriale o di sovranità, il cui motto era «far morire e lasciar vivere», evolva progressivamente verso uno Stato della popolazione, dove la popolazione demografica si sostituisce al popolo politico, e verso uno stato di disciplina, il cui motto si inverte in «Lasciar vivere, e lasciar morire»: uno Stato che si occupa della vita dei sudditi al fine di produrre corpi sani, docili e ordinati.
Lo Stato in cui viviamo oggi in Europa non è uno stato della disciplina, ma piuttosto – secondo la formula di Gilles Deleuze – uno «Stato del controllo»: esso non ha come scopo ordinare e disciplinare, ma gestire e controllare. Dopo la violenta repressione delle manifestazioni contro i G8 di Genova, nel luglio 2001, un funzionario della polizia italiana dichiarò che il governo non voleva che la polizia mantenesse l’ordine, ma che gestisse il disordine: l’uomo non sapeva quanto avesse ragione. Da parte loro, alcuni intellettuali americani che hanno provato a riflettere sui cambiamenti costituzionali indotti dal Patriot act e la legislazione post-11-settembre preferiscono parlare di «Stato di sicurezza» (security state). (…)
Potenze destituenti
Ponendosi sotto il segno della sicurezza, lo Stato moderno esce dal campo della politica per entrare in una no man’s land di cui si percepisce male la geografia e le frontiere e per il quale il carattere concettuale ci manca. Questo Stato, il cui nome rimanda etimologicamente a una assenza di preoccupazione (securus: sine cura) può al contrario solo renderci più preoccupati dei pericoli che fa correre alla democrazia, poiché una vita politica vi è divenuta impossibile: ora democrazia e vita politica sono – almeno nella nostra tradizione – divenuti sinonimi.
Di fronte a un tale Stato, bisogna ripensare alle strategie tradizionali del conflitto politico. Nel paradigma securitario, ogni conflitto e ogni tentativo più o meno violento di rovesciare il potere forniscono allo Stato l’occasione di governarne gli effetti a beneficio di interessi che gli sono propri. È ciò che mostra la dialettica che associa strettamente terrorismo e risposta dello stato in una spirale viziosa.
La tradizione politica della modernità ha pensato i cambiamenti politici radicali sotto la forma di una rivoluzione che agisce come il potere costitutivo di un nuovo ordine costituito. Bisogna abbandonare questo modello per pensare piuttosto a una potenza puramente destituente, che non potrebbe essere rilevata dal dispositivo di sicurezza e precipitata nella spirale viziosa della violenza. Se si vuole arrestare la deriva antidemocratica dello Stato di sicurezza, il problema delle forme e dei mezzi di una tale potenza destituente costituisce proprio la questione politica essenziale che avremo bisogno di pensare nel corso degli anni a venire.
Posted: Gennaio 11th, 2014 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, Arch, arts, au-delà, bio, epistemes & società | Commenti disabilitati su Transversal House: Deleuze and Guattari in Japan*
di Gary Genosko
L’interesse di Félix Guattari per l’architettura e la cultura giapponese non è particolarmente ben conosciuto.
Forse anche meno conosciute sono le applicazioni critiche dell’importante concetto di trasversalità di Guattari da parte degli architetti e dei critici di architettura in Giappone. I soggetti convergenti di trasversalità/architettura/Giappone sono un approfondimento del mio lavoro sugli usi a cui la trasversalità è stata collocata (Genosko 2000); In questa occasione la questione è indagata in relazione ad una particolare casa. Mentre una totale piena indagine dell’importante e complessa connessione non può essere sviluppata in questo ambito, una descrizione assai concisa sarà sufficiente per dare un indirizzo a un ulteriore lavoro che si occupi di altre case ed edifici, specialmente Ark Dental Clinic of Shin Takamatsu su cui Guattari ha scritto (Guattari 1994).
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Posted: Gennaio 6th, 2014 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, bio, epistemes & società | Commenti disabilitati su terioanthropos
“Riconoscere l’animalità nell’uomo, non solo, ma affermare nell’animalità l’essenza dell’uomo: questo è il pensiero pesante, decisivo, foriero di tempesta, il pensiero di fronte al quale tutto il resto della filosofia moderna viene abbassato a ipocrisia. Schopenhauer l’ha enunciato, e Nietzsche ne è stato l’unico esegeta autentico, verificandolo nel campo degli accadimenti umani… Nel cristianesimo egli combatté la falsa religione, la religione razionalistica, antropocentrica, che ha dato all’uomo una posizione isolata nel mondo, e per far questo ha rinnegato l’animalità nell’uomo… Per questo Nietzsche, che ha usato ogni mezzo perché gli uomini ascoltassero da lui tale verità, si presenta di fronte a noi come un «liberatore», per usare un epiteto con cui i Greci designavano Dioniso”
Giorgio Collii, DOPO NIETZSCHE
Posted: Gennaio 1st, 2014 | Author: agaragar | Filed under: 99%, BCE, bio, comune, comunismo, crisi sistemica, epistemes & società, Marx oltre Marx, postoperaismo, Révolution | Commenti disabilitati su Rompere l’incanto neoliberale: Europa, terreno di lotta
di SANDRO MEZZADRA e TONI NEGRI.
Chi come noi non ha interessi elettorali è nella migliore posizione per riconoscere la grande importanza che avranno, nel 2014, le elezioni per il parlamento europeo. E’ facile prevedere, nella maggior parte dei Paesi interessati, un elevato astensionismo e una significativa affermazione di forze “euroscettiche”, unite dalla retorica del ritorno alla “sovranità nazionale”, dall’ostilità all’euro e ai “tecnocrati di Bruxelles”. Non sono buone cose, per noi. Siamo da tempo convinti che l’Europa ci sia, che tanto sotto il profilo normativo quanto sotto quello dell’azione governamentale e capitalistica l’integrazione abbia ormai varcato la soglia dell’irreversibilità. Nella crisi, un generale riallineamento dei poteri – attorno alla centralità della BCE e a quel che viene definito “federalismo esecutivo” – ha certo modificato la direzione del processo di integrazione, ma non ne ha posto in discussione la continuità. La stessa moneta unica appare oggi consolidata dalla prospettiva dell’Unione bancaria: contestare la violenza con cui essa esprime il comando capitalistico è necessario, immaginare un ritorno alle monete nazionali significa non capire qual è oggi il terreno su cui si gioca lo scontro di classe. Certo, l’Europa oggi è un’“Europa tedesca”, la sua geografia economica e politica si va riorganizzando attorno a precisi rapporti di forza e di dipendenza che si riflettono anche a livello monetario. Ma solo l’incanto neoliberale induce a scambiare l’irreversibilità del processo di integrazione con l’impossibilità di modificarne i contenuti e le direzioni, di far agire dentro lo spazio europeo la forza e la ricchezza di una nuova ipotesi costituente. Rompere questo incanto, che in Italia è come moltiplicato dalla vera e propria dittatura costituzionale sotto cui stiamo vivendo, significa oggi riscoprire lo spazio europeo come spazio di lotta, di sperimentazione e di invenzione politica. Come terreno sul quale la nuova composizione sociale dei lavoratori e dei poveri aprirà, eventualmente, una prospettiva di organizzazione politica. Certo, lottando sul terreno europeo, essa avrà la possibilità di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalistica. E’ ormai solo sul terreno europeo che possono porsi la questione del salario come quella del reddito, la definizione dei diritti come quella delle dimensioni del welfare, il tema delle trasformazioni costituzionali interne ai singoli paesi come la questione costituente europea. Oggi, fuori da questo terreno, non si dà realismo politico.
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Posted: Dicembre 30th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: Archivio, au-delà, bio, epistemes & società, Foucault, Marx oltre Marx, post-filosofia | 7 Comments »
Alias – di Beatrice Andreose, 13.9.2013
Festival della filosofia. Mario Galzigna nel suo libro lancia la provocazione di unire l’empirico e il concettuale. Al pensiero in rivolta affida il compito di contrapporre “i futuri possibili”
Dal pensiero in rivolta alle trame di futuro attraverso una sovversione diffusa. Talvolta, le rivolte del pensiero, intersecano il “movimento reale”, talvolta sono disseminate,disperse, molecolari. Costituiscono sempre una prospettiva libertaria, lontana da discipline e potere, che Mario Galzigna ‚docente di Etnopsichiatria e Storia della cultura scientifica a Ca’ Foscari, ritrova in numerosi artisti ed in insospettabili opere. In Costruzione di un edificio del pittore fiorentino Pietro Cosimo, ad esempio. Un quadro “intrigante ed enigmatico” scelto come immagine di copertina del suo ultimo libro “Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo” Bollati Boringhieri. Nel quadro, sottolinea Galzigna, il concetto di edificio e l’ideale rinascimentale di costruzione convivono. Scelte tematiche e formali dell’artista che ignora i riferimenti mitologici e religiosi della sua epoca per lasciar spazio ad un progetto“ che dischiude il tempo della civilizzazione a un futuro possibile”. Apre il presente “ su scenari futuribili,dove progettazione e utopia diventano contenuti dinamici della temporalità”. Libro densissimo, prosa elegante, in prefazione Mario Galzigna risponde alla provocazione di Foucault( di cui è stato tra i più fedeli allievi italiani assieme ad Alessandro Fontana), avviando una approfondita riflessione sul pensiero che rompe le gabbie della testualità, irrompe col vissuto nella scena del mondo, intacca “alle radici la sovranità e l’autosufficienza del concetto”. Si tratta di un pensiero in cui le categorie astratte trovano nell’esperienza la loro fonte di legittimazione “ Così si unisce ciò che la filosofia ha sempre tenuto distinto: la vita ed il pensiero, l’empirico ed il concettuale”scrive.
“Disperanza” è il neologismo che Galzigna conia per indicare, la sottrazione di futuro che affligge il nostro tempo schiacciato “sul deserto di un eterno presente”. Al pensiero in rivolta-e ai movimenti di rivolta– affida il compito di contrapporre” i futuri possibili”. Si tratta di “ un compito politico. Un compito filosofico. Un nuovo orizzonte di senso per il pensiero. Più modestamente, without vanity, una nuova prospettiva del nostro impegno intellettuale e della nostra ricerca”.
Poiché, per dirla con Foucault, il carattere specifico del potere è di essere repressivo e di reprimere con una particolare attenzione le energie inutili, le intensità dei piaceri ed i comportamenti irregolari, il pensiero insorgente e spaesante pur essendo risultato spesso minoritario nella storia del pensiero occidentale, è tuttavia egualmente fecondo e potente. Galzigna ritesse e incrocia tra loro invenzioni concettuali e forme estetiche di insorti d’eccezione, alcuni border line, altri psicotici, tutti geniali: da Ronald Laing, uno dei grandi padri dell’antipsichiatria europea, al pittore Renè Magritte, dall’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro al libertino Diderot. Ma prima di addentrarci nel volume, una premessa sulla scrittura. L’autore utilizza un suggestivo registro narrativo che rompe le divisioni tra saggio e racconto, rispondendo così ad una esigenza interiore di afferrare l’evento in modo pregnante “restituendogli la sua irriducibile specificità”. Al saggio alterna il racconto. Con quest’ultima forma scrive delle sue esperienze all’interno di due Servizi di Salute Mentale in contesti psichiatrici, e di quella vissuta in Brasile tra gli indios Guaranì a proposito dei quali riutilizza i concetti di sintesi disgiuntiva e disgiunzione creativa.
In quanto alla psichiatria , lo spunto è dunque un caso concreto. Galzigna cita Roland Laing, psichiatra non istituzionale,e parla di una seduta dove ad elaborare risposte non è stato un singolo ma un collettivo, un gruppo che pensa, che produce pensiero. “ Un pensiero in rivolta esce da se stesso. Contraddice se stesso. Si rivolge al mondo, corrode i dispositivi a cui appartiene: rompe abitudini consolidate, destabilizza scenari rassicuranti ed immobili, smascherando lucidamente l’arbitrio e la violenza delle relazioni di potere che lo includono. Abitato dal fervore dell’istante, dalla temibile urgenza del divenire, dall’inquietudine del molteplice, un pensiero in rivolta contrasta l’egemonia dell’uno e la tirannia dell’identico”. A proposito di follia Galzigna parte da Foucault e parla di Esquirol che per la prima volta pschiatrizza le passioni e l’erotismo. In un passaggio di grande effetto dialettico richiama la necessità di legare assieme i saperi, i comportamenti, i modi di vita. “Per farlo occorre descrivere, classificare, mettere a fuoco la trama delle connessioni,il ventaglio delle differenze, lo spettro delle analogie, il gioco delle somiglianze”.
Da pensiero insorgente ad altro pensiero insorgente: intrigante il capitolo dedicato all’amato Antonin Artaud ed il suo teatro della crudeltà. Artaud cancella la scena desiderando “l’impossibilità del teatro” e decretando così la fine di una duplice tirannia: quella del testo e quella dell’autore-creatore. Lo scrittore fugge dalla psicoanalisi, da cui si sente violentato, nonostante si sottoponga nel 1927 a dieci sedute col dottor Renè Allendy che aveva già seguito Anais Nin. Nel suo teatro la parola rompe col mondo della rappresentazione classica e con i valori della cultura occidentale che essa esprime. Diventa così la Parola che sta prima delle parole”: un linguaggio sonoro, scrittura vocale che precede la nascita del senso, che deve essere detta e recitata, più che riprodotta e trasmessa. Che rappresenta la potenza sonora del linguaggio, la sua forza espansiva, la sua prossimità al grido”. In una lettera a Gide, Artaud scrive “I gesti equivarranno a dei segni, i segni varranno delle parole”. Nel suo attraversamento disperato della follia, documentata dalla tremila pagine dei Cahiers de Rodez, Artaud cancella la cesura radicale tra anima e corpo, parola e esistenza, testo e carne e scorpora la parola dall’insieme a cui appartiene originariamente. Così come nella sua pittura che diventa pittogramma.
Nel capitolo dedicato ai libertini Galzigna descrive due visioni antagoniste dell’erotismo fiorite entrambe nel ‘700. Da una parte l’erotismo di Sade che separa il piacere dagli affetti. Dall’altro quello giocoso e affettivo del grande Diderot passando per Restif “ Una problematica di grande attualità che andrebbe ancora oggi ripensata” spiega. Infine il mistero nella pittura di Renè Magritte che nel suo L’impero delle luci reinventa il concetto di sintesi disgiuntiva e creativa. “Un chiaro di luna a mezzogiorno” o “ sogno a mezzogiorno”, come lo definisce lo stesso pittore in una lettera scritta a Scutenaire nel novembre del 1959. Una violazione dei luoghi comuni, del nostro immaginario collettivo, ovvero un paesaggio notturno e un cielo in pieno giorno che mette assieme in una stessa composizione, pur mantenendole distinte, due dimensioni antagoniste:luce e buio, giorno e notte. Ed a proposito di sintesi disgiuntive ecco l’affondo letterario dedicato agli amati Guaranì, un popolo oggetto di genocidio, che Galzigna incontra nell’ottobre 2012, durante un suo soggiorno in Brasile “terra dei contrasti”. Conquistato dalla lingua del cacique , vero e proprio capo spirituale, Galzigna spiega la loro politica anticolonialista vista come una politica di decolonizzazione del pensiero. Perché, come scrive poco prima di morire un altro grande rivoltoso molto caro a Galzigna, l’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro, “è meglio sbagliare ed esplodere che prepararsi per il nulla”.
Posted: Dicembre 28th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: bio, comune, comunismo, critica dell'economia politica, epistemes & società, philosophia, postoperaismo | Commenti disabilitati su Derive post-operaiste e cattura cognitiva
di Carlo Formenti
Analizzando la svolta liberista delle socialdemocrazie europee, Luciano Gallino1 parla di “cattura cognitiva”, riferendosi alla doppia capitolazione delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio di fronte alla controrivoluzione neoliberista: mancata opposizione agli attacchi del nemico di classe e sostanziale accettazione dei suoi paradigmi teorici (Gramsci avrebbe parlato di egemonia e di rivoluzione passiva). In un testo recente2, ho tentato di dimostrare come il processo di cattura cognitiva sia andato ben oltre i confini della socialdemocrazia, coinvolgendo anche la cultura dei movimenti e delle sinistre radicali. La breccia che ha consentito lo “sfondamento” del fronte ideologico anticapitalista è stata la rinuncia a descrivere il conflitto sociale in termini di lotta di classe. Nel testo citato nella nota precedente, ho messo al centro della mia analisi critica: 1) i “nuovi movimenti” che, dall’inizio degli anni Ottanta, hanno progressivamente spostato l’asse dei conflitti sociali verso le contraddizioni di genere, le tematiche ambientali e la lotta per l’estensione dei diritti individuali nel quadro della “democrazia reale” (con estrema approssimazione, si potrebbe parlare di uno slittamento dalla lotta per l‘uguaglianza socioeconomica alla lotta per il riconoscimento delle differenze culturali); 2) la lunga deriva del pensiero post-operaista, a sua volta in progressivo allontanamento dal concetto di classe. In questa sede mi occuperò esclusivamente di questo secondo bersaglio polemico, concentrando l’attenzione su un testo di Maurizio Lazzarato (3) che ho potuto leggere solo successivamente alla pubblicazione del mio ultimo libro.
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