La potenza di astrazione e il suo antagonismo. Sulle psicopatologie del capitalismo cognitivo

Posted: Marzo 28th, 2013 | Author: | Filed under: au-delà, bio, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 1 Comment »

di MATTEO PASQUINELLI

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La vita fende la materia, elabora e contrae la materia, dando vita alle virtualità contenute nel materiale in direzioni sconosciute. La vita emerge come divenire-concetto, divenire-pensiero o, nel caso della coscienza, come divenire-cervello. — Elisabeth Grosz[1]

Il dibattito filosofico-politico degli ultimi anni, almeno alle latitudini del pensiero francese e italiano, è stato caratterizzato da una oscillazione concettuale che ha focalizzato di volta in volta il lavoro immateriale o il lavoro affettivo, l’economia della conoscenza o l’economia del desiderio, il cognitivo o il biopolitico. Nessuna agenda di ricerca o politica è stata immune a questa oscillazione, talvolta recitando in modo polemico un polo contro l’altro. Dopo un periodo al lavoro sull’economia della conoscenza, per esempio, una maggiore attenzione veniva data al lavoro affettivo (tornando a riscoprire quello che il femminismo aveva già tentato di politicizzare negli anni ’70), mentre le biotecnologie occupavano il palco centrale del dibattito sulle nuove forme di potere. Spesso è capitato di sentire lamentele contro un paradigma cognitivo che si dimenticava della materialità biologica e genetica del corpo, della sua libido, dei suoi affetti, ecc. Da alcuni come Lazzarato la noopolitica fu allora proposta come estensione dello spazio del biopotere per arrivare a coprire anche le nuove forme dell’immaginario collettivo e delle tecnologie della conoscenza.[2] Ma solo recentemente si è cominciato propriamente a capire l’importanza delle neuroscienze nelle ricerche dell’operaismo e del post-strutturalismo.[3]

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IMPERO LATINO

Posted: Marzo 27th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, au-delà, post-filosofia | 42 Comments »

di Giorgio Agamben

buddha

Nell’immediato dopoguerra il filosofo francese Alexandre Kojève aveva
suggerito la creazione di un’unione dei paesi mediterranei accomunati da
cultura e interessi. Alla luce della problematica ascesa della Germania come
potenza continentale, questa idea potrebbe tornare attuale.

Nel 1947 un filosofo, che era anche un alto funzionario del governo
francese, Alexandre Kojève, pubblicò un testo dal titolo L’impero latino,
sulla cui attualità conviene oggi tornare a riflettere. Con singolare
preveggenza, l’autore affermava che la Germania sarebbe diventata in pochi
anni la principale potenza economica europea, riducendo la Francia al rango
di una potenza secondaria all’ interno dell’ Europa continentale.

Kojève vedeva con chiarezza la fine degli stati-nazione che avevano segnato
la storia dell’ Europa: come l’ età moderna aveva significato il tramonto
delle formazioni politiche feudali a vantaggio degli stati nazionali, così
ora gli stati-nazione dovevano cedere il passoa formazioni politiche che
superavano i confini delle nazioni e che egli designava col nome di
“imperi”.

Alla base di questi imperi non poteva essere, però, secondo Kojève, un’
unità astratta, che prescindesse dalla parentela reale di cultura, di
lingua, di modi di vita e di religione: gli imperi – come quelli che egli
vedeva già formati davanti ai suoi occhi, l’ impero anglosassone (Stati
Uniti e Inghilterra) e quello sovietico dovevano essere «unità politiche
transnazionali, ma formate da nazioni apparentate». Per questo, egli
proponeva alla Francia di porsi alla testa di un “impero latino”, che
avrebbe unito economicamente e politicamente le tre grandi nazioni latine
(insieme alla Francia, la Spagna e l’ Italia), in accordo con la Chiesa
cattolica, di cui avrebbe raccolto la tradizione e, insieme, aprendosi al
mediterraneo.

La Germania protestante, egli argomentava, che sarebbe presto diventata,
come di fatto è diventata, la nazione più ricca e potente in Europa, sarebbe
stata attratta inesorabilmente dalla sua vocazione extraeuropea verso le
forme dell’ impero anglosassone. Ma la Francia e le nazioni latine sarebbero
rimaste in questa prospettiva un corpo più o meno estraneo, ridotto
necessariamente al ruolo periferico di un satellite.

Proprio oggi che l’ Unione europea si è formata ignorando le concrete
parentele culturali può essere utile e urgente riflettere alla proposta di
Kojève. Ciò che egli aveva previsto si è puntualmente verificato. Un’ Europa
che pretende di esistere su una base esclusivamente economica, lasciando da
parte le parentele reali di forma di vita, di cultura e di religione, mostra
oggi tutta la sua fragilità, proprio e innanzitutto sul piano economico.

Qui la pretesa unità ha accentuato invece le differenze e ognuno può vedere
a che cosa essa oggi si riduce: a imporre a una maggioranza più povera gli
interessi di una minoranza più ricca, che coincidono spesso con quelli di
una sola nazione, che sul piano della sua storia recente nulla suggerisce di
considerare esemplare. Non solo non ha senso pretendere che un greco o un
italiano vivano come un tedesco; ma quand’ anche ciò fosse possibile, ciò
significherebbe la perdita di quel patrimonio culturale che è fatto
innanzitutto di forme di vita. E una politica che pretende di ignorare le
forme di vita non solo non è destinata a durare, ma, come l’ Europa mostra
eloquentemente, non riesce nemmeno a costituirsi come tale.

Se non si vuole che l’ Europa si disgreghi, come molti segni lasciano
prevedere, è consigliabile pensare a come la costituzione europea (che, dal
punto di vista del diritto pubblico, è un accordo fra stati, che, come tale,
non è stato sottoposto al voto popolare e, dove loè stato, come in Francia,è
stato clamorosamente rifiutato) potrebbe essere riarticolata, provando a
restituire una realtà politica a qualcosa di simile a quello che Kojève
chiamava l'”Impero latino”.


Jean Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno

Posted: Marzo 24th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, au-delà, critica dell'economia politica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su Jean Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno

di Giovanni Coppolino Billè

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Ci sono libri che fungono da cerniera tra una prima fase del pensiero di un autore e la sua produzione successiva, anzi è addirittura indispensabile che ci siano per comprendere l’intentio principaledell’autore. Sembrerebbe così anche per questo libro di Baudrillard, se non fosse per una consapevolezza già matura nel procedere invece per stratificazioni. Qui infatti non si tratta di collegare diversi temi di ricerca, ma di anticiparne alcuni trattandone altri, servendosi dell’analisi per giungere ad una sintesi da far esplodere poi di volta in volta, nelle angolature più riposte, in tutte le opere successive. Come in tutti i pensatori “maturi” dall’inizio (a cui per la verità non corrisponde subito una forma adeguata al pensiero, come a tratti emerge anche in questo lavoro di confine), Baudrillard ci invita a mettere da parte il nesso causale nella ricostruzione del suo pensiero, per pensare davvero tutto quanto e insieme, evitando la comodità filologica della catalogazione.

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Nous disons révolution

Posted: Marzo 22nd, 2013 | Author: | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, comune, donnewomenfemmes, postgender, Révolution | Commenti disabilitati su Nous disons révolution

di BEATRIZ PRECIADO

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Pare che i vecchi guru dell’Europa coloniale si stiano ostinando a voler spiegare agli attivisti dei movimenti Occupy, Indignados, handi-trans-froci-lesbiche-intersex e post-porn che non potremo fare la rivoluzione perché non abbiamo nessuna ideologia. Dicono «un’ideologia» esattamente come mia madre diceva «un marito». Bene: non abbiamo bisogno né di ideologie né di mariti. Noi, nuove femministe, non abbiamo bisogno di mariti perché non siamo donne. Così come non abbiamo bisogno d’ideologie perché non siamo un popolo. Né comunismo né liberalismo. Né ritornello catto-musulmano-ebraico. Parliamo un altro linguaggio. Loro dicono rappresentazione. Noi diciamo sperimentazione. Loro dicono identità. Noi diciamo moltitudine. Loro dicono controllare la banlieue. Noi diciamo meticciare la città. Loro dicono il debito. Noi diciamo cooperazione sessuale e interdipendenza somatica. Loro dicono capitale umano. Noi diciamo alleanza multi-specie. Loro dicono carne di cavallo. Noi diciamo saliamo in groppa ai cavalli per sfuggire insieme al macello globale. Loro dicono potere. Noi diciamo potenza. Loro dicono integrazione. Noi diciamo codice aperto. Loro dicono uomo-donna, Bianco-Nero, umano-animale, omossessuale-eterosessuale, Israele-Palestina. Noi diciamo ma lo sai che il tuo apparato di produzione della verità non funziona più. Quanti Galileo saranno necessari, questa volta, per farci reimparare a nominare le cose e noi stessi? Loro ci fanno la guerra economica a colpi di machete digitale neoliberale. Ma noi non piangeremo per la fine dello Stato-sociale – perché lo Stato-sociale era anche l’ospedale psichiatrico, il centro d’inserimento per handicappati, il carcere, la scuola patriarcale-coloniale-eterocentrata. È tempo di mettere Foucault alla dieta handi-queer e di scrivere la Morte della clinica. È tempo di invitare Marx a un atelier eco-sessuale. Non possiamo giocare lo Stato disciplinare contro il mercato neoliberale. Entrambi hanno già siglato un accordo: nella nuova Europa, il mercato è l’unica ragione di governo, lo Stato diventa un braccio punitivo la cui unica funzione è ormai di ricreare la finzione dell’identità nazionale sulla base della paura securitaria. Noi non vogliamo definirci né come lavoratori cognitivi né come consumatori farmaco-pornografici. Noi non siamo né Facebook, né Shell, né Nestlé, né Pfizer-Wyeth. Noi non vogliamo produrre francese, ma neanche europeo. Noi non vogliamo produrre. Noi siamo la rete viva decentralizzata. Noi rifiutiamo una cittadinanza definita dalla nostra forza di produzione, o dalla nostra forza di riproduzione. Noi vogliamo una cittadinanza totale definita dalla condivisione delle tecniche, dei fluidi, delle semenze, dell’acqua, dei saperi… Loro dicono la nuova guerra pulita verrà fatta con i droni. Noi vogliamo fare l’amore con i droni. La nostra insurrezione è la pace, l’affetto totale. Loro dicono crisi. Noi diciamo rivoluzione.

(Traduzione Judith Revel)

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Nous disons RÉVOLUTION

Il paraît que les gourous de la vieille Europe coloniale s’obstinent dernièrement à vouloir expliquer aux activistes des mouvements Occupy, Indignados, handi-trans-pédégouine-intersex et postporn que nous ne pourrons pas faire la révolution parce que nous n’avons pas une idéologie. Ils disent «une idéologie» comme ma mère disait «un mari». Et bien, nous n’avons besoin ni d’idéologie ni de mari. Les nouvelles féministes, nous n’avons pas besoin de mari parce que nous ne sommes pas des femmes. Comme nous n’avons pas besoin d’idéologie parce que nous ne sommes pas un peuple. Ni communisme ni libéralisme. Ni la rengaine catholico-musulmano-juive. Nous parlons un autre langage. Ils disent représentation. Nous disons expérimentation. Ils disent identité. Nous disons multitude. Ils disent maîtriser la banlieue. Nous disons métisser la ville. Ils disent dette. Nous disons coopération sexuelle et interdépendance somatique. Ils disent capital humain. Nous disons alliance multi-espèces. Ils disent viande de cheval dans nos assiettes. Nous disons montons sur les chevaux pour échapper ensemble à l’abattoir global. Ils disent pouvoir. Nous disons puissance. Ils disent intégration. Nous disons code ouvert. Ils disent homme-femme, Blanc-Noir, humain-animal, homosexuel-hétérosexuel, Israël-Palestine. Nous disons tu sais bien que ton appareil de production de vérité ne marche plus… Combien de Galilée nous faudra-t-il cette fois pour réapprendre à nommer les choses, nous-mêmes ? Ils nous font la guerre économique à coups de machette digitale néolibérale. Mais nous n’allons pas pleurer pour la fin de l’Etat-providence, parce que l’Etat-providence était aussi l’hôpital psychiatrique, le centre d’insertion de handicapés, la prison, l’école patriarcale-coloniale-hétérocentrée. Il est temps de mettre Foucault à la diète handi-queer et d’écrire la Mort de la clinique. Il est temps d’inviter Marx dans un atelier éco-sexuel. Nous n’allons pas jouer l’Etat disciplinaire contre le marché néolibéral. Ces deux-là ont déjà passé un accord : dans la nouvelle Europe, le marché est la seule raison gouvernementale, l’Etat devient un bras punitif dont la seule fonction sera de re-créer la fiction de l’identité nationale par l’effroi sécuritaire. Nous ne voulons nous définir ni comme des travailleurs cognitifs ni comme consommateurs pharmacopornographiques. Nous ne sommes pas Facebook, ni Shell, ni Nestlé, ni Pfizer-Wyeth. Nous ne voulons pas produire français, pas plus que produire européen. Nous ne voulons pas produire. Nous sommes le réseau vivant décentralisé. Nous refusons une citoyenneté définie par notre force de production ou notre force de reproduction. Nous voulons une citoyenneté totale définie par le partage des techniques, des fluides, des semences, de l’eau, des savoirs… Ils disent la nouvelle guerre propre se fera avec des drones. Nous voulons faire l’amour avec les drones. Notre insurrection est la paix, l’affect total. Ils disent crise. Nous disons révolution.

Libération, 20 mars 2013


Deleuze

Posted: Febbraio 22nd, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, au-delà, epistemes & società, post-filosofia, Révolution | Commenti disabilitati su Deleuze

di Fabrizio Denunzio

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Nuova edizione di un saggio germinale di Gilles Deleuze dedicato al filosofo David Hume. Una teoria del rapporto tra stato e società postrivoluzionarie alimentata dal ruolo che alcuni sentimenti hanno nel costruire un nuovo ordine

Leggendo con attenzione Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume di Gilles Deleuze (nuova edizione a cura di A. Vinale, Cronopio, pp. 174, euro 16), si rimane sorprendentemente impressionati dalla volontà dell’autore di confrontarsi con il mondo delle scienze sociali. La sorpresa dipende in massima parte dalla formazione culturale di Deleuze e dal momento storico in cui compare il suo libro.

Come ricorda il curatore, a cui dobbiamo una nuova traduzione che ha il merito di emendare quella precedente di Marta Cavazza e di rendere quanto mai lucido il complesso dettato originale deleuziano, il lavoro su Hume inizia nel 1947 in occasione del conseguimento del diploma nazionale per l’insegnamento scolastico della filosofia e viene pubblicato nel 1953.

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Fobia e perversione nell’insegnamento di Jacques Lacan

Posted: Febbraio 18th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, au-delà, lacanism | Commenti disabilitati su Fobia e perversione nell’insegnamento di Jacques Lacan

Rossella Armellino e Maria Parisi (cura)

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Frutto di un lavoro collettivo sul Seminario IV. La relazione d’oggetto di Jacques Lacan, questo volume raccoglie vari contributi di studiosi noti e meno noti, giovani e meno giovani, apprendisti e maestri, psicoanalisti e filosofi, stranieri e italiani, tutti facenti capo – questi ultimi – alla Associazione Lacaniana di Napoli, agguerrito avamposto di ricerca e divulgazione della dottrina lacaniana fondato nel 2008, i cui membri sono passati – chi in maniera più diretta, chi in maniera più indiretta – per l’insegnamento di Paola Caròla, figura chiave della psicoanalisi napoletana degli ultimi trent’anni alla quale la raccolta è meritoriamente dedicata.

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DALLA PARTE DEL SOGGETTO: IL RAPPORTO LACAN – FOUCAULT: di Amalia Mele [–>]


URBAN 5

Posted: Febbraio 10th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, arts, au-delà, comune, epistemes & società, Révolution, situationism | Commenti disabilitati su URBAN 5

Urban 5

MILLEPIANI/URBAN 5
CARTOGRAFIE DEL DESIDERIO
Per la creazione di una nuova polis

Testi di: Tiziana Villani, Thierry Paquot, Giairo Daghini, Anselm Jappe, Lucien Kroll, Ubaldo Fadini, Paul D. Miller, VOINA, Camilla Pin, Enzo Scandurra, Claudia Mattogno, Giovanni Attili, Carlo Cellamare

Testi di: Tiziana Villani, Thierry Paquot, Giairo Daghini, Anselm Jappe, Lucien Kroll, Ubaldo Fadini, Paul D. Miller, VOINA, Camilla Pin, Enzo Scandurra, Claudia Mattogno, Giovanni Attili, Carlo Cellamare

In che modo è possibile ripensare i modi dell’abitare contemporaneo?
La prima considerazione che intendiamo proporre in questo volume riguarda l’esistente, ciò che conosciamo e che attraversiamo tutti i giorni, il consueto che distrattamente ci accompagna nei diversi momenti in cui si declinano le nostre esistenze.
Lo spazio dell’urbano contemporaneo disegna in modo decisivo la trasformazione dei processi sociali in corso, e per quanto le sue forme possano apparire differenziate, tutte testimoniano una sorta di onda d’urto che si frantuma in direzioni diverse senza potersi poi ricomporre.
I rapporti di lavoro, di vicinanza, di periferizzazione, di riorientamento verde di alcuni spazi, appaiono molto fragili se confrontati con i processi speculativi e di cementificazione.
È possibile immaginare delle nuove agora nel tempo della “gentrificazione” e della marginalizzazione degli spazi urbani?
Lo spazio della condivisione in cui il potere viene sospeso è uno spazio materiale, oltre che simbolico, che nell’oggi deve farsi carico della transitorietà che caratterizza l’abitare umano. Strumento dunque tanto più necessario perché dovrà assumere caratteri rizomatici e indispensabili al fine di restituire luoghi e pensieri alla creazione di nuove situazioni e di nuove istituzioni che ripensino i lavori, i saperi, la cura, le relazioni, le forme della comunicazione.
Gli interventi qui raccolti non si limitano a descrivere, ma si spingono ad interpretare queste domande urgenti spesso partendo da esperienze o territori profondamente diversi.
Il problema del “naturale”, del “verde”, della resilienza, della sostenibilità è assunto in questo numero, nella domanda di nuova articolazione tra il biologico e il tecnologicamente avanzato, che solo nel reciproco intrecciarsi potranno indicare condizioni più soddisfacenti di esistenza. Questi spazi sono “porosi”, ossia territori di interscambio e contaminazione continua, ma non per questo si tratta di spazi dell’abbandono e del degrado; occorre modificare lo sguardo e l’approccio considerando le potenzialità che ogni luogo offre. L’abitare, i movimenti di territorializzazione e di deterritorializzazione chiamano in causa quella specifica attenzione che Gilles Deleuze e Félix Guattari sottolineavano quando affermavano che la prima delle arti è l’architettura, poiché l’uomo nasce con essa, considerazione da coniugare con le Immagini di città di Walter Benjamin, in cui è quasi una compromissione corporea quella che coinvolge il viaggiatore con le città che attraversa. Inoltre, impossibile in proposito non tener presente la lucida analisi di Jean-Pierre Vernant, che intende ripensare l’istituzione delle agora, luogo essenziale della polis: “Lo spazio urbano non gravita più intorno a una cittadella reale che lo domina, ma è incentrato sull’agora che, più che il mercato dove si scambiano i prodotti, è il luogo per eccellenza in cui si discute liberamente tra uguali. Il miracolo greco (che tale non è) è questo: un gruppo umano si propone di spersonalizzare il potere sovrano, di metterlo in una situazione tale che nessuno possa più esercitarlo da solo, a modo suo. E affinché sia impossibile appropriarsene, lo si ‘deposita al centro’ […] Depositare il kratos, il potere di dominio, in questo luogo pensato come centrale, equidistante da ogni membro della città, non significa soltanto spersonalizzarlo, ma anche neutralizzarlo…”. (J.P. Vernant, Senza frontiere. Memoria, mito e politica, Milano, R. Cortina, 2005, p. 128).
Agora di transito dunque, luoghi per una discussione tra eguali, capaci di mettere insieme creazione e saperi, atti alla soddisfazione della prima tra le dimensioni “in comune”: quella dell’abitare.

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Antonio Caronia

Posted: Gennaio 31st, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, arts, au-delà, bio | Commenti disabilitati su Antonio Caronia

Contemplare o partecipare, comunque fingere

di Antonio Caronia

[Pubblicato in: Filosofie di Avatar. Immaginari, soggettività, biopolitiche, a cura di A.C. e Antonio Tursi,Mimesis, Milano 2010.]

Come sempre, più di quello che che si vede, in Avatar (il film) è importante ciò che non si vede.Ciò di cui il film si è nutrito per nascere, e ciò di cui si nutre dopo che è nato per crescere esvilupparsi nell’immaginario.I siti internet, per esempio. Il sito ufficiale del film (http://james-camerons-avatar.wikia.com/wiki/Pandora), e la Pandorapedia (www.pandorapedia.com), che è il sito dedicato alla storia, la geologia e la biologia del pianeta, alla cultura dei Na’vi, e alla storia della RDA, gli invasori terrestri. Sul primo nucleo del manuale di 350 pagine preparato dagli esperti riuniti da Cameron durante la preparazione del film, il sito sta rapidamente aggregando una community, sul modello di Wikipedia, per estendere e raffinare le nostre conoscenze su un mondo che non esiste. La fonetica Na’vi, per esempio, è già sufficientemente nota, ma sulla sintassi di quel linguaggio c’è ancora molto lavoro da fare. Niente di nuovo, certo. Da quando c’è internet, buona parte dell’attività “di culto” legata ai film si svolge lì. E tutto il mondo dei videogiochi, dei MMO e dei MMORPG funziona su una logica di questo tipo.

Costruire un mondo di finzione come se fosse reale. Il modello a cui tutto ciò si ispira è naturalmente il lavoro maniacale e futilmente sublime che oltresettant’anni fa fece John Ronald Reuel Tolkien per dare consistenza ontologica e spessore storico alla sua Middle Earth, la Terra di mezzo.

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Foucault: l’ignota tragedia della soggettività

Posted: Dicembre 15th, 2012 | Author: | Filed under: au-delà, bio, post-filosofia, Révolution | Commenti disabilitati su Foucault: l’ignota tragedia della soggettività

di Michele Spano’

Si racconta che Michel Foucault, interrogato da un giovane studente sui fatti del terrorismo italiano, abbia risposto: «L’importante, oggi, è soprattutto San Crisostomo». L’aneddoto è il miglior viatico alla lettura del corso «Del governo dei viventi» (tenuto presso il Collège de France tra il 1979 e il 1980. il volume è stato pubblicato con il titolo Du gouvernement des vivants, Seuil, pp. 400, euro 26) e del seminario Mal faire dire vrai, tenuto nel 1981 presso l’Università di Lovanio e pubblicato dalla Presses Universitaires de Louvain (euro 30).

I due testi, che una felice congiuntura editoriale ha voluto fossero pubblicati insieme, sono infatti un’occasione preziosa per tornare sulle questioni – centrali nell’ultima riflessione foucaultiana – del rapporto tra governo e verità, e, dunque, sulla relazione di assoluta transitività che lega, nell’immanenza di un’ellisse, assoggettamento e soggettivazione, etica e politica (e – come emerge da questi testi – perfino quella bestia nera foucaultiana che è il diritto).

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Benjamin

Posted: Dicembre 13th, 2012 | Author: | Filed under: au-delà, philosophia | Commenti disabilitati su Benjamin

di Antonio Gnoli

“Era talmente povero da non potersi neppure permettere di comprare la carta.
Utilizzava qualunque foglio”. “Sfogliando delle lettere di Georges Bataille,
ne trovai una in cui lui citava alcune buste alla Bibliothèque di Parigi “.
Giorgio Agamben ha curato una raccolta di scritti dello studioso mai
pubblicati: “È una parte dei Passagen su Baudelaire più ampia di quella
conosciuta”.

Terribili dovettero essere gli ultimi anni di vita di Walter Benjamin. In
una sequenza di eventi negativi, tra il 1938 e il 1940, egli abitò a Parigi
nell´isolamento e nell´estrema povertà. Le sue giornate trascorrevano alla
Bibliothèque nationale, il solo luogo che gli garantiva la necessaria
concentrazione per portare avanti il suo progetto. Lavorava alla stesura di
un grande libro, tra le carte e i foglietti che maniacalmente appuntava. Poi
la situazione precipitò. E fu come cadere rovinosamente da un precipizio.
Nel giro di pochi mesi l´ebreo Benjamin intraprese una fuga che si concluse,
come è noto, con il suicidio a Port-Bou, nel settembre del 1940, sul confine
spagnolo. Si favoleggiò che insieme alle poche cose necessarie alla
sopravvivenza Benjamin si trascinasse una valigia con il manoscritto al
quale aveva febbrilmente lavorato. È molto probabile che quella valigia, che
si disse fosse andata perduta, sia solo una leggenda. E che la verità sia
un´altra. A raccontarcela è Giorgio Agamben che scoprì quelle carte, oggi
finalmente pubblicate da Neri Pozza.

Come arrivò a quella scoperta?

«Casualmente. In quel periodo, la fine degli anni Settanta, stavo lavorando
al ritrovamento delle ultime carte di Benjamin, compreso il famoso
manoscritto dei Pariser Passagen che si riteneva fosse andato perduto.
Quando un giorno, sfogliando delle lettere di Georges Bataille ne trovai una
in cui Bataille, scrivendo a un amico conservatore alla Bibliothèque
nationale, citava alcune buste contenenti dei manoscritti di Benjamin. In
margine alla lettera c´era un´annotazione del conservatore che indicava la
Bibliothèque nationale come il luogo in cui quei manoscritti si trovavano».

Cominciò così la caccia al tesoro?

«Fu una ricerca elettrizzante. Alla fine trovai i manoscritti in un armadio.
Li aveva lasciati in deposito la vedova di Bataille. Da notare che la
Bibliothèque non catalogava i lavori in deposito, per cui sarebbero potuti
rimanere sepolti lì ancora per decenni».

Cosa esattamente ha trovato?

«Tutto quello che poi è diventato questo libro che sarebbe dovuto uscire nel
1996. Ma tormentate vicende editoriali ne impedirono la pubblicazione».

A cosa allude?

«Alla decisione allora della casa editrice Einaudi di non pubblicarlo. Mi
chiesero delle cose assurde, per esempio di tagliare il libro perché
l´edizione intera avrebbe danneggiato il volume sui Passagen. Sarebbe stato
come chiedere a un dantista che scopre un nuovo manoscritto della Commedia
di non pubblicarlo perché altrimenti avrebbe danneggiato le precedenti
edizioni».

Passano quasi vent´anni. Nel frattempo scadono i diritti sulle opere di
Benjamin e il libro finalmente vede la luce con il titolo Baudelaire, un
poeta lirico nell´età del capitalismo avanzato. Perché è così importante e
cosa lo differenzia dai Passagen che Einaudi ha pubblicato con il titolo
Parigi, capitale del XIX?

«Benjamin, negli ultimi anni della sua vita, stava lavorando a un´opera
fondamentale. E in un primo momento quest´opera sono i Passagen di Parigi
che contengono un capitolo dedicato a Baudelaire. Man mano che va avanti, il
capitolo cresce al punto da soppiantare il lavoro precedente. Per cui il
“Baudelaire” da modello in miniatura diventa l´opera completa».

Ma allora il libro dei Passagen pubblicato da Einaudi che cosa è?

«È semplicemente il grande schedario organizzato da Benjamin. Tanto è vero
che il curatore delle opere di Benjamin, R. Tiedemann, messo da me al
corrente di questa scoperta, appose una nota nell´ultimo volume in cui dice
che se avesse conosciuto prima questi materiali si sarebbe potuta fare
un´edizione storico critica del libro su Baudelaire che avrebbe cambiato
molte cose. Quindi questa che ho curato è la prima edizione mondiale. So che
anche i tedeschi, sulla base del ritrovamento, ne faranno una».

Ma alla fine cosa aggiunge di sostanziale?

«Intanto, si entra con chiarezza nell´officina di Benjamin, nel suo modo di
lavorare. Che non è affatto neutro. Quando decide di spostare l´attenzione
su Baudelaire prende l´enorme schedario dei Passagen e lo riordina, lo mette
per così dire in movimento. È come se il materiale fin lì raccolto venisse
chiamato a nuova vita».

Si passa, lei scrive, dalla documentazione alla costruzione del testo.

«Che non è un passaggio inerte, passivo, esoterico. Ma un modo per tessere
la connessione tra i suoi concetti fondamentali: “aura”, “allegoria”,
“merce”, “prostituzione”, eccetera. Fino a ieri si pensava che le Tesi sul
concetto della storia fossero l´ultimo lavoro di Benjamin. In realtà, quelle
“Tesi” – come lui ci mostra – sono soltanto l´apparato teorico di una
sezione del libro su Baudelaire. È chiaro che cambia la prospettiva. In un
frammento annota: bisogna costruire l´oggetto come monade».

Un´affermazione enigmatica.

«Si riferisce alle monadi di Leibniz. Le quali è vero che non hanno
finestre, ma non ce l´hanno in quanto esse stesse rappresentano l´universo.
Lo contengono. Quindi, gli oggetti cui si riferisce Benjamin sono quelli
dove già è riflessa la costruzione dell´intero».

Lavorare sul piccolo, sul trascurabile, per scoprire il grande. Era questo
il suo principio micrologico?

«Sì. Lei dice “trascurabile” e questa parola rimanda all´altro principio che
lo orienta: lavorare sugli stracci, sui rifiuti, sulle categorie secondarie
e spesso nascoste. Non a caso sceglie i passages parigini che a quell´epoca,
dal punto di vista architettonico, erano considerati un oggetto assurdo che
non interessava a nessuno, salvo ai surrealisti che li riscoprivano come
oggetto strano».

Benjamin insomma scende in un sottosuolo che quasi nessuno conosce.

«A un certo punto, per definire il proprio lavoro, Freud dice che se non
potrà muovere gli dei muoverà l´acheronte, ossia l´inferno. Anche quello di
Benjamin è un principio acherontico. Egli non indaga le grandi categorie, i
grandi concetti su cui si sono soffermati gli storici della cultura, smuove
gli inferi della Parigi del XIX secolo. Legge la storia a contropelo».

E Baudelaire è il “Virgilio” che lo condurrà nel suo inferno?

«Assolutamente. Per lui Baudelaire è il poeta che di colpo si accorge che
tutto è cambiato, che ogni cosa ha a che fare con il mercato e la merce. È
il teorico del moderno, ma il moderno è anche l´arcaico».
Sembra un modo di lavorare di altri tempi quello di Benjamin di annotare
tutto su dei foglietti.
«Era una necessità. In quegli anni era talmente povero da non potersi
neppure permettere di comprare la carta. Utilizzava qualunque foglio: dal
rovescio delle lettere che gli spedivano ai blocchetti di carta della San
Pellegrino che prendeva nei bar».

Come si manteneva?

«Con i pochi soldi che gli spedivano Adorno e l´Institut für
Sozialforschung. Si angosciò quando seppe che glieli avrebbero ridotti».

Quanto furono fondamentali i rapporti con Adorno e Horkheimer?

«Meno di quanto si pensi. C´è un episodio rivelatore. Qualche anno fa uscì
dagli archivi dell´università, a cui Benjamin si era rivolto per ottenere
l´abilitazione, la scheda che motivava il rifiuto. Benjamin aveva presentato
come lavoro Le origini del dramma barocco. Il professore che esaminò il
testo confessò di non averci capito nulla, perciò chiese il parere del suo
giovane assistente, che era Max Horkheimer, il quale redasse una nota –
firmata – in cui bocciava Benjamin. Quell´atto cambiò radicalmente la sua
vita. Non so se in bene o in male. Ma gliela rese durissima».