Festival della filosofia. Mario Galzigna nel suo libro lancia la provocazione di unire l’empirico e il concettuale. Al pensiero in rivolta affida il compito di contrapporre “i futuri possibili”
Dal pensiero in rivolta alle trame di futuro attraverso una sovversione diffusa. Talvolta, le rivolte del pensiero, intersecano il “movimento reale”, talvolta sono disseminate,disperse, molecolari. Costituiscono sempre una prospettiva libertaria, lontana da discipline e potere, che Mario Galzigna ‚docente di Etnopsichiatria e Storia della cultura scientifica a Ca’ Foscari, ritrova in numerosi artisti ed in insospettabili opere. In Costruzione di un edificio del pittore fiorentino Pietro Cosimo, ad esempio. Un quadro “intrigante ed enigmatico” scelto come immagine di copertina del suo ultimo libro “Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo” Bollati Boringhieri. Nel quadro, sottolinea Galzigna, il concetto di edificio e l’ideale rinascimentale di costruzione convivono. Scelte tematiche e formali dell’artista che ignora i riferimenti mitologici e religiosi della sua epoca per lasciar spazio ad un progetto“ che dischiude il tempo della civilizzazione a un futuro possibile”. Apre il presente “ su scenari futuribili,dove progettazione e utopia diventano contenuti dinamici della temporalità”. Libro densissimo, prosa elegante, in prefazione Mario Galzigna risponde alla provocazione di Foucault( di cui è stato tra i più fedeli allievi italiani assieme ad Alessandro Fontana), avviando una approfondita riflessione sul pensiero che rompe le gabbie della testualità, irrompe col vissuto nella scena del mondo, intacca “alle radici la sovranità e l’autosufficienza del concetto”. Si tratta di un pensiero in cui le categorie astratte trovano nell’esperienza la loro fonte di legittimazione “ Così si unisce ciò che la filosofia ha sempre tenuto distinto: la vita ed il pensiero, l’empirico ed il concettuale”scrive.
“Disperanza” è il neologismo che Galzigna conia per indicare, la sottrazione di futuro che affligge il nostro tempo schiacciato “sul deserto di un eterno presente”. Al pensiero in rivolta-e ai movimenti di rivolta– affida il compito di contrapporre” i futuri possibili”. Si tratta di “ un compito politico. Un compito filosofico. Un nuovo orizzonte di senso per il pensiero. Più modestamente, without vanity, una nuova prospettiva del nostro impegno intellettuale e della nostra ricerca”.
Poiché, per dirla con Foucault, il carattere specifico del potere è di essere repressivo e di reprimere con una particolare attenzione le energie inutili, le intensità dei piaceri ed i comportamenti irregolari, il pensiero insorgente e spaesante pur essendo risultato spesso minoritario nella storia del pensiero occidentale, è tuttavia egualmente fecondo e potente. Galzigna ritesse e incrocia tra loro invenzioni concettuali e forme estetiche di insorti d’eccezione, alcuni border line, altri psicotici, tutti geniali: da Ronald Laing, uno dei grandi padri dell’antipsichiatria europea, al pittore Renè Magritte, dall’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro al libertino Diderot. Ma prima di addentrarci nel volume, una premessa sulla scrittura. L’autore utilizza un suggestivo registro narrativo che rompe le divisioni tra saggio e racconto, rispondendo così ad una esigenza interiore di afferrare l’evento in modo pregnante “restituendogli la sua irriducibile specificità”. Al saggio alterna il racconto. Con quest’ultima forma scrive delle sue esperienze all’interno di due Servizi di Salute Mentale in contesti psichiatrici, e di quella vissuta in Brasile tra gli indios Guaranì a proposito dei quali riutilizza i concetti di sintesi disgiuntiva e disgiunzione creativa.
In quanto alla psichiatria , lo spunto è dunque un caso concreto. Galzigna cita Roland Laing, psichiatra non istituzionale,e parla di una seduta dove ad elaborare risposte non è stato un singolo ma un collettivo, un gruppo che pensa, che produce pensiero. “ Un pensiero in rivolta esce da se stesso. Contraddice se stesso. Si rivolge al mondo, corrode i dispositivi a cui appartiene: rompe abitudini consolidate, destabilizza scenari rassicuranti ed immobili, smascherando lucidamente l’arbitrio e la violenza delle relazioni di potere che lo includono. Abitato dal fervore dell’istante, dalla temibile urgenza del divenire, dall’inquietudine del molteplice, un pensiero in rivolta contrasta l’egemonia dell’uno e la tirannia dell’identico”. A proposito di follia Galzigna parte da Foucault e parla di Esquirol che per la prima volta pschiatrizza le passioni e l’erotismo. In un passaggio di grande effetto dialettico richiama la necessità di legare assieme i saperi, i comportamenti, i modi di vita. “Per farlo occorre descrivere, classificare, mettere a fuoco la trama delle connessioni,il ventaglio delle differenze, lo spettro delle analogie, il gioco delle somiglianze”.
Da pensiero insorgente ad altro pensiero insorgente: intrigante il capitolo dedicato all’amato Antonin Artaud ed il suo teatro della crudeltà. Artaud cancella la scena desiderando “l’impossibilità del teatro” e decretando così la fine di una duplice tirannia: quella del testo e quella dell’autore-creatore. Lo scrittore fugge dalla psicoanalisi, da cui si sente violentato, nonostante si sottoponga nel 1927 a dieci sedute col dottor Renè Allendy che aveva già seguito Anais Nin. Nel suo teatro la parola rompe col mondo della rappresentazione classica e con i valori della cultura occidentale che essa esprime. Diventa così la Parola che sta prima delle parole”: un linguaggio sonoro, scrittura vocale che precede la nascita del senso, che deve essere detta e recitata, più che riprodotta e trasmessa. Che rappresenta la potenza sonora del linguaggio, la sua forza espansiva, la sua prossimità al grido”. In una lettera a Gide, Artaud scrive “I gesti equivarranno a dei segni, i segni varranno delle parole”. Nel suo attraversamento disperato della follia, documentata dalla tremila pagine dei Cahiers de Rodez, Artaud cancella la cesura radicale tra anima e corpo, parola e esistenza, testo e carne e scorpora la parola dall’insieme a cui appartiene originariamente. Così come nella sua pittura che diventa pittogramma.
Nel capitolo dedicato ai libertini Galzigna descrive due visioni antagoniste dell’erotismo fiorite entrambe nel ‘700. Da una parte l’erotismo di Sade che separa il piacere dagli affetti. Dall’altro quello giocoso e affettivo del grande Diderot passando per Restif “ Una problematica di grande attualità che andrebbe ancora oggi ripensata” spiega. Infine il mistero nella pittura di Renè Magritte che nel suo L’impero delle luci reinventa il concetto di sintesi disgiuntiva e creativa. “Un chiaro di luna a mezzogiorno” o “ sogno a mezzogiorno”, come lo definisce lo stesso pittore in una lettera scritta a Scutenaire nel novembre del 1959. Una violazione dei luoghi comuni, del nostro immaginario collettivo, ovvero un paesaggio notturno e un cielo in pieno giorno che mette assieme in una stessa composizione, pur mantenendole distinte, due dimensioni antagoniste:luce e buio, giorno e notte. Ed a proposito di sintesi disgiuntive ecco l’affondo letterario dedicato agli amati Guaranì, un popolo oggetto di genocidio, che Galzigna incontra nell’ottobre 2012, durante un suo soggiorno in Brasile “terra dei contrasti”. Conquistato dalla lingua del cacique , vero e proprio capo spirituale, Galzigna spiega la loro politica anticolonialista vista come una politica di decolonizzazione del pensiero. Perché, come scrive poco prima di morire un altro grande rivoltoso molto caro a Galzigna, l’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro, “è meglio sbagliare ed esplodere che prepararsi per il nulla”.
1. All’inizio della seconda decade del ventunesimo secolo, la civilizzazione globale si trova ad affrontare una nuova progenie di cataclismi. Imminenti apocalissi appaiono ridicolizzare le norme e le strutture organizzative delle politica che furono forgiate alla nascita degli stati-nazione, agli albori del capitalismo e in un ventesimo secolo contrassegnato da guerre senza precedenti.
Un’intervista a Judith Butler apparsa su “Le Nouvel Observateur”, il 15 dicembre 2013. La traduzione è di Federico Zappino.
Le Nouvel Observateur: Nel 1990 ha pubblicato Gender Trouble (trad. it., Questione di genere), testo che ha segnato l’irruzione, nel dibattito intellettuale, della “teoria del gender”. Di cosa si tratta?
Judith Butler: Intanto ritengo importante precisare di non aver inventato gli “studi di genere” (gender studies): la categoria di “genere” era infatti già in uso dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti, sia all’interno della ricerca sociologica, sia in quella antropologica. In Francia, invece, in particolare sotto l’influsso di Lévi-Strauss, si è preferito parlare di “differenze sessuali”. La cosiddetta “teoria del gender” prende dunque piede solo tra gli anni Ottanta e Novanta, innestandosi proprio all’incrocio tra l’antropologia statunitense e lo strutturalismo francese.
La nostra seconda vita negli universi digitali, il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana. Tutto ciò ha cancellato le frontiere tra ciò che è umano e ciò che non lo è, mettendo in mostra la base non naturalistica dell’umanità contemporanea.
Sul piano della teoria politica e filosofica, urge adeguare le categorie di comprensione delle identità e dei fenomeni sociali a partire da questo salto. Sul piano dell’analisi, dopo aver constatato la fine dell’umanesimo, occorre vedere in questa trasformazione le insidie di una colonizzazione della vita nel suo complesso da parte dei mercati e della logica del profitto.
Occorre dunque adeguare la teoria ai cambiamenti in atto, senza rimpianti per un’umanità ormai perduta e cogliendo le opportunità offerte dalle forme di neoumanesimo che scaturiscono dagli studi di genere, postcoloniali e dai movimenti ambientali.
In un’intervista del 1981 al giornale “Gai Pied”, parlando della propria omosessualità e dell’amicizia come stile di vita, Foucault diceva: «il problema non è quello di scoprire in sé la verità del proprio sesso, ma di usare la sessualità per arrivare a una molteplicità di relazioni»1. Non si tratta di confessare la verità segreta di un desiderio, «si tratta di chiedersi quali relazioni possono essere istituite, inventate, moltiplicate, modulate attraverso l’omosessualità». Queste parole sul “divenire-omosessuale” esprimono bene la direzione verso cui, negli ultimi tre anni della propria attività al Collège de France (quella specie di «rendiconto pubblico di una libera attività», l’aveva definito nel corso del 1976), Foucault aveva orientato la propria ricerca. Non sorprende, dunque, che in questa torsione Foucault abbia dissodato il terreno della tarda antichità, dedicando gli ultimi tre corsi al mondo greco-romano, e in particolare, nell’ultimo anno, ai Cinici. O meglio: solo chi aveva praticato una lunga serie di fraintendimenti del lavoro foucaultiano a partire dalla Volontà di sapere come “blocco della ricerca”, ritirata davanti a uno scacco o presa d’atto di un fallimentare esito nelle weberiane gabbie d’acciaio della modernità – una sorta di consolatoria ritirata fra gli antichi, insomma, poteva rimanere sorpreso dal fatto che Foucault avesse non cercato nella verità degli antichi il senso del presente, ma piantato nietzscheanamente il concetto di parrhesia, di “parlar franco” (quella franchise con cui Slongo congiunge Foucault a Montaigne), nel cuore del tempo presente.
JU-JITSU POLITIQUE, l’art du levier, est une brochure écrite par la Rotative.
Le principe du « Jujitsu Politique » est d’utiliser les forces adverses pour modifier une situation politique. Les procédés de détournement et d’amplification sont à la base de toute mécanique – utilitaire, guerrière ou scientifique. Ils passent par des combinaisons imprévues de forces et d’outils, et parfois par le simple retournement de l’arme dans un sens contraire.
À l’occasion de l’acquisition des archives Guy Debord par la Bibliothèque nationale de France en 2011 grâce au mécénat, classées Trésor national, l’Institution organise une exposition consacrée aux situationnistes et à leur figure de proue, retraçant leur ambition subversive. Thierry Paquot, philosophe enseignant à l’Institut d’urbanisme de Paris, intime de Guy Debord, nous guide dans les détours de ce parcours, proposé jusqu’au 13 juillet 2013.
Laura Augustìn è antropologa, autrice di Sex at the margins – migration, labour markets and the rescue industry . Il suo lavoro ha sollevato un acceso dibattito mettendo in discussione la narrazione dominante che vuole le sex workers migranti tutte indistintamente vittime di una cosiddetta tratta degli esseri umani, dunque soggetti passivi che spetterebbe alle istituzioni salvare. Agustìn, contestando e demisitificando il mito della tratta, ha così analizzato quella che lei stessa ha definito the rescue industry, ovvero l’industria del salvataggio rappresentata da enti, organizzazioni, associazioni, ma anche singoli che traggono vantaggi e profitti proprio dalla missione salvifica di cui si sono auto-investiti, sovrapponendosi alle sex workers stesse e sovradeterminandole. Per approfondire il lavoro di Laura Augustìn, The Naked Anthropologist è il suo blog.
A seguire, la traduzione di un articolo pubblicato da The Commoner, n. 15, a cura di Silvia Federici
La militante noire américaine Assata Shakur est mal connue, voire inconnue en France. Dans une interview accordée en 1997 à Christian Parenti, un journaliste et sociologue états-unien, et publiée en mars 1998 dans Z Magazine sous le titre « Assata Shakur speaks from exile. Post-modern maroon in the ultimate palenque », elle revient sur sa trajectoire politique, sur l’expérience de la traque policière et de la prison, sur son évasion puis son exil à Cuba. La traduction de cet entretien vise à faire connaître Assata Shakur en France, et à travers elle un pan occulté du mouvement de libération noir, en rendant accessibles en français des textes courts : entretiens, lettres ouvertes, témoignages.
Joanne Deborah Byron, devenue Joanne Chesimard après son mariage, est plus connue sous son nom africain : Assata Olugbala Shakur. Née le 16 juillet 1947 à New York aux États-Unis, celle qui deviendra la marraine du rappeur Tupac Shakur fut une membre active de la section de Harlem du Black Panther Party (BPP) puis de la Black Liberation Army (BLA). Cette dernière, passée du modèle d’auto-défense armée du BPP à la lutte armée, émerge après l’hécatombe dans les rangs des radicaux noirs due à la répression d’État, et notamment au COINTELPRO, un programme d’infiltration, de répression et d’assassinats ciblés dirigé contre les mouvements radicaux noirs, latinos et amérindiens. Formée en 1970, la BLA devient véritablement active à partir de la scission au sein du BPP en 1971. Elle se présente comme un groupe anti-capitaliste, anti-impérialiste, anti-raciste et anti-sexiste, luttant pour « l’institution de relations socialistes dans lesquelles le peuple noir aurait un contrôle total et absolu sur son propre destin en tant que peuple ». La BLA mènera entre autres une campagne défensive et offensive contre les violences policières comme l’avaient fait les Black Panthers et procédera à des éxécutions ciblées de policiers pour protester contre des crimes policiers ou des morts en détention.
1. È nel secondo dopo guerra che si afferma l’intuizione di Pollock – elaborata nell’epoca weimariana – che il mercato capitalista non possa essere considerato in maniera semplicista e retorica come libertà (se non addirittura anarchia) di circolazione e realizzazione del valore delle merci bensì al contrario e fondamentalmente come unità di comando sul livello sociale, come “pianificazione”. Questo concetto socialista, aborrito dal pensiero economico capitalista, rientrava gloriosamente fra le categorie della scienza economica. Il concetto di “capitale sociale” (e cioè di un capitale unificato nella sua estensione sociale, dentro e al di sopra del mercato ed inteso come dispositivo di garanzia del funzionamento del mercato stesso), insomma come sigla di una effettiva direzione capitalista della società, viene sempre più largamente sviluppato.