Posted: Marzo 22nd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, au-delà, comune, donnewomenfemmes, postgender, Révolution | Commenti disabilitati su Nous disons révolution
di BEATRIZ PRECIADO
Pare che i vecchi guru dell’Europa coloniale si stiano ostinando a voler spiegare agli attivisti dei movimenti Occupy, Indignados, handi-trans-froci-lesbiche-intersex e post-porn che non potremo fare la rivoluzione perché non abbiamo nessuna ideologia. Dicono «un’ideologia» esattamente come mia madre diceva «un marito». Bene: non abbiamo bisogno né di ideologie né di mariti. Noi, nuove femministe, non abbiamo bisogno di mariti perché non siamo donne. Così come non abbiamo bisogno d’ideologie perché non siamo un popolo. Né comunismo né liberalismo. Né ritornello catto-musulmano-ebraico. Parliamo un altro linguaggio. Loro dicono rappresentazione. Noi diciamo sperimentazione. Loro dicono identità. Noi diciamo moltitudine. Loro dicono controllare la banlieue. Noi diciamo meticciare la città. Loro dicono il debito. Noi diciamo cooperazione sessuale e interdipendenza somatica. Loro dicono capitale umano. Noi diciamo alleanza multi-specie. Loro dicono carne di cavallo. Noi diciamo saliamo in groppa ai cavalli per sfuggire insieme al macello globale. Loro dicono potere. Noi diciamo potenza. Loro dicono integrazione. Noi diciamo codice aperto. Loro dicono uomo-donna, Bianco-Nero, umano-animale, omossessuale-eterosessuale, Israele-Palestina. Noi diciamo ma lo sai che il tuo apparato di produzione della verità non funziona più. Quanti Galileo saranno necessari, questa volta, per farci reimparare a nominare le cose e noi stessi? Loro ci fanno la guerra economica a colpi di machete digitale neoliberale. Ma noi non piangeremo per la fine dello Stato-sociale – perché lo Stato-sociale era anche l’ospedale psichiatrico, il centro d’inserimento per handicappati, il carcere, la scuola patriarcale-coloniale-eterocentrata. È tempo di mettere Foucault alla dieta handi-queer e di scrivere la Morte della clinica. È tempo di invitare Marx a un atelier eco-sessuale. Non possiamo giocare lo Stato disciplinare contro il mercato neoliberale. Entrambi hanno già siglato un accordo: nella nuova Europa, il mercato è l’unica ragione di governo, lo Stato diventa un braccio punitivo la cui unica funzione è ormai di ricreare la finzione dell’identità nazionale sulla base della paura securitaria. Noi non vogliamo definirci né come lavoratori cognitivi né come consumatori farmaco-pornografici. Noi non siamo né Facebook, né Shell, né Nestlé, né Pfizer-Wyeth. Noi non vogliamo produrre francese, ma neanche europeo. Noi non vogliamo produrre. Noi siamo la rete viva decentralizzata. Noi rifiutiamo una cittadinanza definita dalla nostra forza di produzione, o dalla nostra forza di riproduzione. Noi vogliamo una cittadinanza totale definita dalla condivisione delle tecniche, dei fluidi, delle semenze, dell’acqua, dei saperi… Loro dicono la nuova guerra pulita verrà fatta con i droni. Noi vogliamo fare l’amore con i droni. La nostra insurrezione è la pace, l’affetto totale. Loro dicono crisi. Noi diciamo rivoluzione.
(Traduzione Judith Revel)
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Nous disons RÉVOLUTION
Il paraît que les gourous de la vieille Europe coloniale s’obstinent dernièrement à vouloir expliquer aux activistes des mouvements Occupy, Indignados, handi-trans-pédégouine-intersex et postporn que nous ne pourrons pas faire la révolution parce que nous n’avons pas une idéologie. Ils disent «une idéologie» comme ma mère disait «un mari». Et bien, nous n’avons besoin ni d’idéologie ni de mari. Les nouvelles féministes, nous n’avons pas besoin de mari parce que nous ne sommes pas des femmes. Comme nous n’avons pas besoin d’idéologie parce que nous ne sommes pas un peuple. Ni communisme ni libéralisme. Ni la rengaine catholico-musulmano-juive. Nous parlons un autre langage. Ils disent représentation. Nous disons expérimentation. Ils disent identité. Nous disons multitude. Ils disent maîtriser la banlieue. Nous disons métisser la ville. Ils disent dette. Nous disons coopération sexuelle et interdépendance somatique. Ils disent capital humain. Nous disons alliance multi-espèces. Ils disent viande de cheval dans nos assiettes. Nous disons montons sur les chevaux pour échapper ensemble à l’abattoir global. Ils disent pouvoir. Nous disons puissance. Ils disent intégration. Nous disons code ouvert. Ils disent homme-femme, Blanc-Noir, humain-animal, homosexuel-hétérosexuel, Israël-Palestine. Nous disons tu sais bien que ton appareil de production de vérité ne marche plus… Combien de Galilée nous faudra-t-il cette fois pour réapprendre à nommer les choses, nous-mêmes ? Ils nous font la guerre économique à coups de machette digitale néolibérale. Mais nous n’allons pas pleurer pour la fin de l’Etat-providence, parce que l’Etat-providence était aussi l’hôpital psychiatrique, le centre d’insertion de handicapés, la prison, l’école patriarcale-coloniale-hétérocentrée. Il est temps de mettre Foucault à la diète handi-queer et d’écrire la Mort de la clinique. Il est temps d’inviter Marx dans un atelier éco-sexuel. Nous n’allons pas jouer l’Etat disciplinaire contre le marché néolibéral. Ces deux-là ont déjà passé un accord : dans la nouvelle Europe, le marché est la seule raison gouvernementale, l’Etat devient un bras punitif dont la seule fonction sera de re-créer la fiction de l’identité nationale par l’effroi sécuritaire. Nous ne voulons nous définir ni comme des travailleurs cognitifs ni comme consommateurs pharmacopornographiques. Nous ne sommes pas Facebook, ni Shell, ni Nestlé, ni Pfizer-Wyeth. Nous ne voulons pas produire français, pas plus que produire européen. Nous ne voulons pas produire. Nous sommes le réseau vivant décentralisé. Nous refusons une citoyenneté définie par notre force de production ou notre force de reproduction. Nous voulons une citoyenneté totale définie par le partage des techniques, des fluides, des semences, de l’eau, des savoirs… Ils disent la nouvelle guerre propre se fera avec des drones. Nous voulons faire l’amour avec les drones. Notre insurrection est la paix, l’affect total. Ils disent crise. Nous disons révolution.
Libération, 20 mars 2013
Posted: Marzo 21st, 2013 | Author: agaragar | Filed under: 99%, anthropos, crisi sistemica, epistemes & società, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Dieci tesi contro il capitalismo predatorio
di Jean-Claude Lévêque
I
Il capitalismo contemporaneo è la forma estrema dello stesso, ovvero il capitalismo nella sua fase discendente, ancora inedita nei suoi effetti complessivi. La «servitù del debito» è uno dei suoi modi di oppressione e controllo delle masse, ma non il solo.
Si può a ragione parlare di «capitalismo predatorio» o di «Capitalismo assoluto» (Preve), anche se entrambe le definizioni paiono ancora insufficienti per coglierne le caratteristiche dominanti. Il dibattito attuale (considero come posizioni interessanti e opposte quelle di Dardot/Laval, di Bidet, di Lazzarato, Negri, Zizek, Badiou, di Aglietta e di Lévy) stenta a trovare una strategia di uscita dal dominio del capitale finanziario, per ragioni teoriche e ideologiche. Si fanno delle analisi convincenti- anche se non sempre-, ma quello che risulta pressoché impossibile (forse soprattutto perché, in generale, non si tiene conto di Lenin) è trovare un modo per opporsi efficacemente alla retorica intransigente della classe dominante.
La strategia dei capitalisti sembra invece molto più efficace nello spuntare le armi dei movimenti che vi si oppongono. La constante criminalizzazione di qualsiasi forma di opposizione e l’affermazione constante e martellante dell’assenza di alternative lasciano poco spazio ai movimenti.2
Un’altra caratteristica del capitalismo predatorio è la sua connivenza con le mafie mondiali, che ormai spesso appare assolutamente evidente, sebbene negata dai media di regime.
I metodi dei «pirati legalizzati» e dei «pirati fuorilegge» spesso coincidono, sia nei modi che nei risultati ottenuti. Il velo fuorviante della retorica dei “diritti umani” serve solo a occultare il fatto che di essi è stato fatto strame.
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Posted: Marzo 17th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, comune, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Walter Benjamin. Una costellazione che brilla di nuova luce
di Paolo B. Vernaglione
Giorgio Agamben, sprofondato per anni nello studio del pensiero e dell’opera di Walter Benjamin, porta alla luce il senso storico dell’opera dell’autore dei Passagen. In anni di ricerche, nel paziente lavoro archeologico di documentazione e restitutio in integrum del pensiero del più importante e necessario critico e teorico del materialismo, si dispiega una ragione costruttiva dell’intero testo vivente che costituisce l’opera di Benjamin. E’ il risultato di una scrupolosa e ahimè oggi non praticata documentazione e ricostruzione filologica dell’opera benjaminiana che ha condotto Agamben a ritrovare un significato eccedente ogni qualificazione del Benjamin “già edito”.
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Posted: Marzo 15th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, donnewomenfemmes, Révolution | Commenti disabilitati su “If I can’t dance, I don’t want to be part of your revolution”. One billion rising e la conflittualità femminista.
di GIOVANNA ZAPPERI
“Se non posso ballare, non voglio partecipare alla vostra rivoluzione”, così recita una famosa citazione attribuita ad Emma Goldmann, femminista anarchica di origine russa ma attiva soprattutto negli Stati Uniti a cavallo tra otto e novecento.
La frase rimanda ad un episodio dell’autobiografia, in cui un amico la avrebbe redarguita per il suo modo, giudicato spericolato ed eccessivo, di ballare alle feste, un comportamento poco consono, secondo lui, alla serietà della lotta politica. La risposta di Goldmann cristallizza il rifiuto femminista di identificare la lotta con l’abnegazione e il sacrificio di sé, nella convinzione che gli ideali anarco-femministi per cui ci si batteva all’inizio del novecento portassero necessariamente con sé l’euforia della liberazione: una giusta causa non poteva richiedere alle donne di diventare delle suore, né al movimento di trasformarsi in un convento. La citazione di Emma Goldmann – che è in realtà una rielaborazione di alcune sue dichiarazioni – condensa forse in modo paradigmatico il modo in cui alcune istanze del femminismo radicale dell’inizio del ventesimo secolo sono state appropriate dai femminismi degli anni ’70, arrivando fino a noi: la rivoluzione femminista come una rivoluzione che coinvolge i corpi e i desideri in una forma che invade ogni aspetto della vita nel rifiuto di ogni tentazione normalizzante, mortifera, o sacrificale.
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Posted: Marzo 6th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, Révolution | Commenti disabilitati su Per un governo decoloniale. Malcolm X e gli Indigènes de la république
di MATTHIEU RENAULT
Su Bouteldja, H., Khiari, S. Nous sommes les Indigènes de la république. Paris : Amsterdam, 2012 ; Khiari, S. Malcolm X. Stratège de la dignité noire. Paris : Amsterdam, 2013.
“I colonizzati dall’interno”: una questione di strategia
Quando qualche mese fa è stata annunciata l’imminente pubblicazione di un saggio su Malcolm X ad opera di Sadri Khiari (da ora in avanti MX) per le Éditions Amsterdam, ci è immediatamente sembrato opportuno mettere a confronto questo testo con le tesi e le posizioni espresse dal movimento, nato nel 2005 e trasformatosi in partito nel 2010, degli Indigènes de la république (PIR), di cui il nostro autore è uno dei membri fondatori, nonché una delle sue firme più importanti, e su cui, nell’autunno del 2012, era stata già pubblicata dalla stessa casa editrice una raccolta di articoli e di interventi, accompagnati da una lunga intervista, con il titolo Nous sommes les Indigènes de la république (da ora in poi abbreviato NSIR). La questione più importante da sollevare ci sembrava la seguente: in che misura e in quale maniera i movimenti radicali neri americani costituivano una fonte di ispirazione e di riflessione per il PIR? Porre tale questione, semplice e all’apparenza scontata, ci sembrava tuttavia essere un modo di dare un po’ di respiro al pesante dibattito che circondava gli Indigènes de la république liberando, anche solo momentaneamente, la questione della “Francia postcoloniale” dalla prospettiva e dal lessico attraverso cui è generalmente formulata e in parte rinchiusa.
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Posted: Febbraio 22nd, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, epistemes & società, post-filosofia, Révolution | Commenti disabilitati su Deleuze
di Fabrizio Denunzio
Nuova edizione di un saggio germinale di Gilles Deleuze dedicato al filosofo David Hume. Una teoria del rapporto tra stato e società postrivoluzionarie alimentata dal ruolo che alcuni sentimenti hanno nel costruire un nuovo ordine
Leggendo con attenzione Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume di Gilles Deleuze (nuova edizione a cura di A. Vinale, Cronopio, pp. 174, euro 16), si rimane sorprendentemente impressionati dalla volontà dell’autore di confrontarsi con il mondo delle scienze sociali. La sorpresa dipende in massima parte dalla formazione culturale di Deleuze e dal momento storico in cui compare il suo libro.
Come ricorda il curatore, a cui dobbiamo una nuova traduzione che ha il merito di emendare quella precedente di Marta Cavazza e di rendere quanto mai lucido il complesso dettato originale deleuziano, il lavoro su Hume inizia nel 1947 in occasione del conseguimento del diploma nazionale per l’insegnamento scolastico della filosofia e viene pubblicato nel 1953.
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Posted: Febbraio 18th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, au-delà, lacanism | Commenti disabilitati su Fobia e perversione nell’insegnamento di Jacques Lacan
Rossella Armellino e Maria Parisi (cura)
Frutto di un lavoro collettivo sul Seminario IV. La relazione d’oggetto di Jacques Lacan, questo volume raccoglie vari contributi di studiosi noti e meno noti, giovani e meno giovani, apprendisti e maestri, psicoanalisti e filosofi, stranieri e italiani, tutti facenti capo – questi ultimi – alla Associazione Lacaniana di Napoli, agguerrito avamposto di ricerca e divulgazione della dottrina lacaniana fondato nel 2008, i cui membri sono passati – chi in maniera più diretta, chi in maniera più indiretta – per l’insegnamento di Paola Caròla, figura chiave della psicoanalisi napoletana degli ultimi trent’anni alla quale la raccolta è meritoriamente dedicata.
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DALLA PARTE DEL SOGGETTO: IL RAPPORTO LACAN – FOUCAULT: di Amalia Mele [–>]
Posted: Febbraio 16th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Toni Negri: l’abdicazione del papa tedesco
di TONI NEGRI
Più di vent’anni fa uscì l’enciclica Centesimus Annus, del Papa polacco, in occasione del centenario della Rerum Novarum – era il manifesto riformista, fortemente innovatore, di una Chiesa che si voleva ormai sola rappresentante dei poveri dopo la caduta dell’impero sovietico. A quel documento, i miei compagni parigini di Futur Antérieur ed io dedicammo un commento che era insieme un riconoscimento ed una sfida: lo intitolammo “La V Internazionale di Giovanni Paolo II” (riprendiamo il documento qui sotto).
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Posted: Febbraio 16th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, comune, post-filosofia, vita quotidiana | 10 Comments »
di Marco Dotti
Furio Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo, Roma 2013
«Non è niente, sono qui, sono ancora qui». Arthur Rimbaud concludeva con queste parole la rivendicazione di un’infanzia sfrontata, in quell’«inferno che sovverte l’ordine» che per molti tratti fu la Comune di Parigi. Un ritorno a cui Rimbaud aggiunse, alla maniera di un post-scriptum, un’altra attestazione, stavolta relativa all’azzeramento di ogni senso di colpa. Fosse pure, questo senso di colpa, postumo, preventivo o soltanto preteso: «Industriali, principi, senati: a morte! Ci è dovuto», scriveva il diciottenne Rimbaud.
Era il 1872 e l’eco della Comune si poteva ancora sentire, ma i suoi giorni erano oramai proscritti dalla ripresa di un tempo storico che cannoni e baionette del generale e futuro presidente Mac-Mahon avevano saputo riattivare nel corso ordinario delle cose. Il tempo “borghese”, ritrovava così la sua scansione ritmica nel doppio coup al tavolo gioco e davanti alla macchina che garantiva serialità del lavoro.
Quanto di questo tempo era rimasto e ancora rimaneva attaccato a chi, fosse pure per poco, si era sentito animato e sconvolto dalla zona franca e comune della rivolta? Quale stratificazioni di lieux communs, di vecchi abiti scambiati per nuovi e di nuovi presi per vecchi nel corso riattivato delle cose? Quel corso delle cose che, è vicenda nota, venne interrotto solo per poche settimane dal 18 marzo alla fine di maggio del 1871, quando con la Comune si instaurò – la definizione è di Furio Jesi – «un tempo di qualità inconsueta», quasi festiva, dove ogni avvenimento sembrava accadere lì e ora, ma per sempre. Qualche mito genuino sembrava allora mostrarsi, ma presto si sarebbe ingenuamente “corrotto” al contatto con l’ombra delle grandi mitologie borghesi che già avevano marchiato la storia.
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Posted: Febbraio 14th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, philosophia, post-filosofia, vita quotidiana | 9 Comments »
di ANTONIO GNOLI
“ARRENDIAMOCI, NON POSSIAMO CONOSCERE LA REALTÀ”.
Parla il filosofo Carlo Sini mentre viene ripubblicata la sua opera che mette in discussione il pensiero occidentale.
Ho qualche dubbio che i filosofi – come si sente dire in giro – conoscano i
sentieri della felicità e ci accompagnino per mano lungo quegli ameni
percorsi. Ma un tale sospetto non deve indurre a gettarci tra le braccia dei
torturatori del concetto, dei paranoici del pensiero, attenti a che nulla
del reale sfugga alla loro occhiuta attenzione. La filosofia ha molto di
problematico, di sfuggente, soprattutto oggi in cui le certezze sono messe
in discussione alla radice. E a pensarlo, fra gli altri, con un percorso
molto originale, è Carlo Sini che sta per compiere 80 anni. Allievo di
Emanuele Barié ed Enzo Paci, per decenni professore di teoretica alla
cattedra di Milano, Sini sta pubblicando per Jaca Book la sua intera opera.
Dove ha sparso i suoi interessi: nel mondo antico, che è all’origine –
almeno in Occidente – del passaggio denso di conseguenze dall’oralità alla
scrittura; in quello moderno sovrastato da Spinoza ed Hegel e infine in
quello contemporaneo dal quale affiorano i nomi di Husserl, Peirce e
Wittgenstein.
«È un quadro veritiero, fatalmente approssimativo quello che lei riassume.
Ma in fondo l’ultima parola non è mai la nostra. Diceva Peirce: il
significato della mia vita è affidato agli altri».
Ma gli altri possono avere molti pregiudizi.
«Il che prova che la verità non è mai qualcosa di definitivo, siamo sempre
in errore. In cammino. Non a caso io parlo di “transito della verità”».
A nessuno piace l’errore. La filosofia greca e poi il cristianesimo ci hanno
insegnato a diffidare dell’errore e del peccato, suggerendo i modi per
evitarli.
«C’è in queste filosofie o visioni del mondo un’idea di perfezione che ha
provocato danni e fraintendimenti. E tutto ciò è nato dalla pretesa di
affidare alla scrittura il ruolo di cardine su cui l’Occidente ha fondato il
proprio sapere».
Prima i saperi si costituivano oralmente. Poi arriva la scrittura. Tutto
diventa più semplice. Perché diffidarne?
«Non è una diffidenza, ma la consapevolezza che l’introduzione della
scrittura modifica la nostra percezione del mondo. Il Logos, di cui parlano
i greci, non potrebbe sussistere senza la scrittura».
Perché?
«Per il semplice motivo che ogni scrittura ha un supporto che è fuori dal
corpo di chi parla. La scrittura – diversamente dall’oralità – ci pone di
fronte a un sapere oggettivo che va interpretato. Quando è la voce a
trasmettere il sapere, non c’è separazione o distanza tra ciò che diciamo e
il mondo che lo accoglie e di cui facciamo parte. Nella scrittura invece va
ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà con la scienza».
Questo è un passaggio ulteriore.
«È una continuità. Senza la scrittura alfabetica e matematica – che sono
scritture per tutti – non avremmo avuto l’universale e quindi la scienza.
L’universale – che i greci hanno chiamato Logos – ha determinato il corso
del sapere occidentale. È stata la nostra forza, la nostra potenza, ma anche
la nostra superstizione e il nostro equivoco».
Capisco la potenza, ma perché superstizione ed equivoco?
«Per la semplice ragione che sia la scienza che il senso comune pensano che
ci sia un mondo fuori di noi che possiamo conoscere».
Effettivamente è così: da un lato la realtà dall’altro noi che l’avviciniamo
e la conosciamo. Se vuole, molto rozzamente, siamo in una delle tante
versioni del realismo.
«Posizione ingenua. Perché o noi facciamo parte di quella realtà oppure è
illusorio pensare di conoscerla».
Eppure, se non riuscissi a distinguermi dalla realtà esterna, allo stesso
modo, non potrei conoscerla.
«Obiezione giusta. Nel senso che noi siamo parte della realtà pur
distinguendoci da essa. Siamo parte della verità ma non siamo la verità».
Un bel paradosso. Allora cosa siamo?
«Siamo nella differenza del sapere, o meglio siamo in ciò che chiamo
“l’essere in errore”. Verità ed errore sono in qualche modo due facce della
stessa medaglia ».
Anche la scienza partecipa della verità e dell’errore. Ne fa esperienza, nel
senso che corregge continuamente l’errore.
«Il lavoro della scienza è meraviglioso, va bene così, ne beneficiamo tutti.
Sarebbe insensato rifiutare la scoperta di una cura contro il cancro o
condannare
un treno perché copre distanze lunghe in tempi sempre più brevi. Altra cosa
è l’idea che gli scienziati per lo più si fanno del loro lavoro. Qui prevale
quello che Husserl chiamava il pregiudizio “naturalistico”. Ossia il
riferimento ingenuo e inconsistente a un misterioso mondo che è “là fuori” e
a un ancor più misterioso “qui dentro”».
Lei, insomma, mette in discussione il modo tradizionale di concepire il
dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto, la realtà e la coscienza. Dove
collocherebbe tutto ciò?
«Nella vita che si svolge e che si traduce negli innumerevoli archivi
dell’accaduto, i quali ricompongono di continuo il passato in nuovi archivi
e mappe per il futuro».
Vedo che usa la parola “archivio”. Immagino che non sia solo il deposito
delle conoscenze al quale attingiamo.
«È qualcosa di più strategico, è il modo di venire alla luce della verità
pubblica».
I filosofi hanno a volte il vizio di rispondere a una complicazione con una
complicazione ulteriore. Cos’è la verità pubblica?
«È quella, per esempio, che in questo momento io e lei pratichiamo in questa
conversazione».
Una conversazione che al lettore potrà apparire troppo tecnica.
«Un margine di oscurità è preferibile a insulse certezze. E poi distinguerei
tra competenza e sapere, anche se tra loro sono connessi. Una competenza
analitica la posso apprendere anche da un computer opportunamente
programmato; il sapere in senso complessivo non può invece fare a meno del
coinvolgimento delle emozioni corporee profonde. Si tratta di creare
un’intesa condivisa, cioè anche pubblica o comune».
Ciò che è pubblico è anche esposto al fraintendimento, al rumore mediatico,
al sentire massificato.
«Che cosa sia stato e sia nel profondo il “secolo della masse” –
l’espressione deriva da Sorel – è ancora una domanda attuale. Non abbiamo un
pensiero all’altezza del problema, io credo. Che cosa significa fare
politica, fare cultura, e quindi fare anche filosofia, in un tempo
globalizzato, massificato, mercificato e via dicendo, non l’ha chiaro
nessuno. La fiumana trascina le nostre antiche barche, ormai senza governo».
Appellarsi al passato o alla tradizione?
«Mi sembra evidente che la nostra grande tradizione storico-culturale si è
formata in società così differenti dall’attuale che la pretesa di travasare
in essa i nostri contenuti e i nostri stili di pensiero si rivela fatalmente
utopica».
Propone una variante della filosofia della crisi?
«No, ma occorre prendere atto della crisi se la si vuole affrontare. Direi
perciò che l’evidente crisi del modello capitalistico va in parallelo con la
crisi di ciò che un tempo si considerava alta cultura. Il liberalismo
politico e il liberalismo economico sono falliti nei loro propositi
esattamente come la scuola pubblica e l’universale alfabetizzazione. Non
possiamo rinunciarvi perché non conosciamo modelli più efficienti o più
realistici, ma non ne deriviamo affatto quel benessere per tutti e quella
diffusa formazione critica e liberatrice che erano attesi».
Suggerisce la rassegnazione?
«Suggerisco la consapevolezza. Ogni civiltà è destinata a tramontare: “Della
civiltà non rimarrà che un cumulo di macerie e di cenere, ma sopra le ceneri
aleggerà lo spirito”, lo ha detto Wittgenstein. Ci troviamo in mezzo a un
grande sommovimento che ci sovrasta e ci inquieta. Il nostro compito è
rimettere in gioco la verità. Disincagliarla dal dogmatismo. Non conosco
modo migliore per riprendersi il futuro».