Moltitudine e potere dopo l’11 marzo 2011 in Giappone

Posted: Aprile 24th, 2013 | Author: | Filed under: 99%, crisi sistemica, Earth, Global, Révolution | 170 Comments »

di ANTONIO NEGRI

art4

Questo è il testo di una conferenza tenuta a Tokyo da Toni Negri all’inizio di aprile, davanti ad un pubblico di militanti antinucleari. Dopo il marzo 2011 e il disastro ecologico e nucleare che il Giappone ha conosciuto, le tematiche sollevate in questa conferenza sono diventate centrali nella discussione politica dei vari gruppi che, chiamano se stessi, una “moltitudine” di soggetti resistenti.

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Moneta del comune e reddito sociale garantito

Posted: Aprile 23rd, 2013 | Author: | Filed under: 99%, comune, crisi sistemica, critica dell'economia politica, postcapitalismo cognitivo, Révolution | Commenti disabilitati su Moneta del comune e reddito sociale garantito

di LAURENT BARONIAN e CARLO VERCELLONE

rivolta

L’ambizione di quest’articolo è quella di gettare le basi per una concezione della moneta del comune a partire da un’interrogazione omessa dalla teoria economica dei beni comuni.

Quali sono, dunque, le condizioni capaci di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale e di favorire così lo sviluppo di forme di produzione alternative ai principi d’organizzazione sia del pubblico che del privato? Questa domanda richiede d’introdurre nella teoria del Comune il ruolo strutturante della moneta nei rapporti capitale-lavoro.

L’esame del rapporto tra moneta e comune necessita, di conseguenza, di partire da una critica della teoria dei beni comuni dalla quale la moneta, come il lavoro, sono curiosamente assenti. La ragione di quest’assenza si trova nel fatto che questa concezione naturalista dei beni comuni accetta implicitamente uno dei postulati fondatori della teoria economica standard, ovvero la neutralità della moneta, concepita come un semplice strumento tecnico che facilita gli scambi, e non come la cristallizzazione di un rapporto sociale di potere.

Su questa base, si tratterà di caratterizzare un approccio dinamico del comune al singolare nel quale la questione della moneta e delle mutazioni della divisione del lavoro occupa un posto centrale. Questo approccio fondato sulla triade lavoro-moneta-plusvalore servirà allora egualmente da filo conduttore per rianimare la controversia che aveva opposto Marx ai proudhoniani, precursori di un approccio della moneta come comune.

Infine, fonderemo il nostro ragionamento sulle teorie marxiane del circuito per mostrare che il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro.

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Le tre missioni di Nietzsche

Posted: Aprile 17th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, philosophia, post-filosofia | Commenti disabilitati su Le tre missioni di Nietzsche

di Sossio Giametta

N.1

È vero che Nietzsche non si può e non si deve capire? Chi era e che cosa ha fatto? A fronte delle tre crisi: della filosofia, della civiltà cristiano-europea e della religione, ha compiuto tre missioni: distruzione della filosofia concettuale a favore del moralismo; trasfigurazione del tramonto dell’Occidente in poesia e filosofia tragica e d’altra parte legittimazione e accelerazione della crisi; fondazione della religione laica, meta della modernità.

“Ho letto come sempre con piacere il Suo saggio sul Crepuscolo degli idoli di Nietzsche, che non conosco o non ricordo. La Sua scrittura chiara ed efficace mi aiuta, come sempre, a capire. Ma, una volta che ho capito, il pensiero complessivo di Nietzsche mi sfugge. Mi appassiona, mi avvince, ma alla fine mi sfugge.” Così mi scrisse, il 30 aprile 1997, Norberto Bobbio, un faro della cultura italiana, che mi onorava della sua amicizia.

La difficoltà di comprendere Nietzsche è così diffusa, che in Italia è finita in una canzone di un noto cantante pop, “Zucchero” Fornaciari. La canzone si domanda e ripete: “Nietzsche, che dice? Boh, boh!”

Lo strano è che questa difficoltà c’è con Nietzsche, che scrive in modo chiaro, e non con pensatori che scrivono in modo oscuro, come Heidegger, Hegel, Schleiermacher ecc. Si può allora dire anche di lui ciò che egli ha detto dei filosofi tedeschi, che sarebbero tutti degli “Schleiermacher”, cioè facitori di veli? oscuratori?

Certo, questa non era la sua intenzione. Anzi, la sua intenzione era esattamente il contrario. Egli voleva essere un portatore di luce.

Ma allora, dove sta la difficoltà?

La difficoltà sta sia dalla parte degli interpreti, sia dalla parte delle molteplici e intricate missioni di Nietzsche.

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L’io, l’ex e il plurale di porno attraverso l’etichetta, l’ironia, il fake

Posted: Aprile 14th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, epistemes & società | 1.826 Comments »

di Massimo Canevacci

mutante

La mutazione della pornografia in porno-senza-scrittura è il tratto caratteristico dell’infiltrazione del digitale nella comunicazione psico-culturale attraverso l’orizzontalità dei social network. Le crescenti difficoltà a distinguere le differenze attrattive tra sesso, eros e porno fissano nella pupilla il centro della visione etnografica.

Il porno digitale sviluppa nuovi panorami basati su una probabile mutazione di quello che era inconsciente ottico, e che ora è una spianata in cui si rafforza un’alleanza autoritariamente disinibita tra quello che era un super-io e i resti dell’es. Un’ambigua eroptica, miscela di ottica ed erotica incollata allo schermo digitale. L’oscillazione di tale distinzione porta a un rafforzamento senza concetto tra pulsioni più distratte che distorte (prive di rimozione e sublimazione) e autorità introiettate/accettate (non più autorevoli). L’es emerso diventa un ex affine a un super-io che, insieme, allagano l’io. Un ex-es. In questa terra di nessuno, abita saltuariamente un ioporno: uno strano essere mutante di cui si sa poco, pochissimo, e che andrebbe “ricercato” con minuziose etnografie partecipate per illuminare tale io incollato al porno e spianato dall’alleanza tra es e super-io. Dalla classica metapsicologia illuminista (dove è l’es sarà l’io) si transita all’attuale probabile dove è l’ex, sarà ioporno. L’es diventa “qualcosa” che si sta staccando dal – e che già non è più parte del – soggetto: forse un pulsare del feticismo digitale che unifica il qualcosa con il qualcuno, difficile da definire persino nei contorni. Ogni “io” è diventato un tu (you), un generico “cosa-uno”. Quelle che erano perversioni – e che causavano il turbamento di un soggetto in maturazione – ora sono tassonomie brevi, classificazioni secche, caselle opzionali, su cui cliccare, sostare alcuni minuti, passare alle successive senza drammi, angosce o sensi di colpa. Tantomeno mimesi. Il soggetto ioporno sguscia tra rituali di iniziazione o di perversione e si incolla nella putrefazione carnale illuminata dei pixel. Molta politica contemporanea (compresi i porno studies) flette e riflette tale ioporno, lo legittima e lo performa con indifferente supposizione.

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L’economia politica delle identità

Posted: Aprile 10th, 2013 | Author: | Filed under: anthropos, au-delà, donnewomenfemmes, Révolution | 2 Comments »

di Cinzia Azzurra

vampire

Segnate da un iniziale sguardo critico, le teorie queer hanno recentemente riscoperto l’opera di Karl Marx. Un percorso di lettura a partire da alcuni saggi pubblicati negli Stati Uniti

Judith Butler racconta nella sua seconda prefazione a Gender Trouble che, al momento di inviare il suo manoscritto all’editore Routledge, tutto si sarebbe aspettata tranne l’enorme attenzione che il libro avrebbe attratto. Un’attenzione tale da cambiare il volto della teoria femminista contemporanea, al punto che molte teoriche non esitano a parlare di una «terza ondata» femminista. In Italia il libro è arrivato con ben quattordici anni di ritardo e con il titolo piuttosto dubbio di Scambi di genere, che rende poco l’idea della costitutiva fragilità di ogni identità di genere e dell’incoerenza sempre in agguato in ogni citazione e ripetizione della norma a cui ogni identità è riconducibile. In Scambi di genere e Corpi che contano di Judith Butler, generalmente considerati come due dei testi fondativi e più influenti della teoria queer, è possibile ravvisare alcuni dei trend teorici ed epistemologici che avrebbero caratterizzato il futuro sviluppo della teoria.

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Precari per sempre

Posted: Aprile 9th, 2013 | Author: | Filed under: 99%, comune, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo, Révolution | 1 Comment »

di Benedetto Vecchi

cavalli

Nei recenti libri di Joseph Stiglitz e Zygmunt Bauman, la crescita della
differenze sociali e di reddito è figlia dell’austerità. Come illustra in un
suo saggio, la filosofa Ilaria Possenti ne evidenzia il nesso con una
intermittenza nel mercato del lavoro.

Due sono ormai le parole ricorrenti nella politica istituzionale. In nome
loro, vengono decise politiche draconiane di austerità, che invece di
risolvere, non fanno altro che confermare una condizione di illibertà. Si
tratta di «precarietà» e «disuguaglianza», termini che dovrebbero orientare
il pensiero critico nella traversata del deserto neoliberista ma che invece
sono entrati a far parte del lessico di intellettuali, economisti
preoccupati di dimostrare che le disuguaglianze e la precarietà sono una
anomalia, una parentesi di una società che tende, grazie al buon
funzionamento del mercato, all’uguaglianza. Convinzione smentita dai dati
europei sul crescente divario di reddito esistente nelle società, uniti a
quelli sull’altrettanto crescente esercito del lavoro «atipico» e sulla
disoccupazione che ha superato la boa del dieci per cento (in Italia, le
cifre sui disoccupati oscillano tra i 3 milioni e i 3,5 milioni di senza
lavoro, mentre quelle sui precari sono oltre i 4 milioni).

Le eccezioni non mancano e vedono protagonisti piccoli gruppi intellettuali
o movimenti sociali. Preziosa nello svelare il carattere immanente delle
disuguaglianze nel capitalismo è, ad esempio, l’analisi che da anni conduce
il filosofo francese Etienne Balibar, di cui vanno segnalati, oltre il
recente Cittadinanza (Bollati Boringhieri), i volumi La proposition de
l’égaliberté e Citoyen Sujet, entrambi pubblicati dalla casa editrice Puf.
Questo nulla toglie al fatto che, tanto la precarietà che la disuguaglianza,
sono tornate a infoltire di titoli una pubblicistica impegnata nel
riproporre, in forma innovata, dispositivi keynesiani che hanno garantito al
capitalismo oltre trent’anni di sviluppo. Tra quest’ultimi vanno ricordati
il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, il tedesco Ulrich Beck, l’inglese
Anthony Giddens, il polacco Zygmunt Bauman, lo statunitense Richard Sennett,
cioè i «senza partito» ritenuti le punte di diamante del pensiero
democratico. Tra queste due posizioni, occorre affiancarne un’altra, che
sviluppi una critica alle politiche di austerità, considerando i «senza
partito» democratici interlocutori, senza rinunciare all’obiettivo di una
sintesi tra eguaglianza e libertà, all’interno di una superamento del lavoro
salariato, di cui la precarietà è solo l’ultima manifestazione, in ordine di
tempo.

La costante neoliberista
Rilevante a questo fine è prendere atto che, sia nello spazio nazionale che
in quello europeo, la condizione precaria e le disuguaglianze sono oggetto
di politiche sociali che tendono a contenere gli effetti destabilizzanti
all’interno del modello di accumulazione capitalistica neoliberista. Come ha
argomentato Maurizio Lazzarato nella raccolta di scritti da poco pubblicata
dalla casa editrice ombre corte, Il governo delle disuguaglianze è da
considerare una costante del neoliberismo, sgomberando così il campo della
retorica dello stato minimo che ha accompagnato il lungo inverno della
controrivoluzione neoliberale. Lo stato, argomenta in maniera convincente
l’autore, è lo strumento per assicurare la gestione e la legittimità delle
disuguaglianze, ma anche per plasmare un «uomo nuovo», quell’individuo
proprietario che doveva diventare il perno su cui far ruotare l’insieme
delle relazioni sociali e attorno al quale costruire un nuovo progetto di
società dove l’insieme delle tutele sociali e i diritti sociali della
cittadinanza siano merce da acquistare sul mercato della protezione sociale.
Che questo sia lo scenario che ha caratterizzato il neoliberismo non ci sono
molti dubbi. Soltanto che dal 2008 il dominante governo delle disuguaglianze
è entrato in crisi.

Il capitalismo ha visto non solo crescere la povertà, ma anche una diffusa
indisponibilità di uomini e donne a fare proprio l’incubo dell’individuo
proprietario. Indisponibilità che si è tradotta nelle forme ambivalenti del
populismo, nell’esplosione di rivolte sociali che hanno attraversato gli
Stati Uniti e l’Europa. E nella crescita, in alcuni paesi del vecchio
continente, come l’Italia, la Spagna e la Grecia, dell’astensionismo
elettorale. Ed è proprio in Europa e negli Stati Uniti che l’attenzione e la
denuncia della precarietà e delle disuguaglianze è più forte. Anche in
questo caso, le posizioni che si contendono l’arena pubblica si concentrano
sulle politiche adeguate per affrontare una «questione sociale» che viene
spesso paragonata a quella di fine Ottocento o a quella successiva alla
«grande crisi» del ’29. E se la troika europea subordina l’accesso ai
diritti sociali di cittadinanza all’accettazione della precarietà, negli
Stati Uniti le disuguaglianze sono l’esito di una economia di mercato andata
fuori controllo.

Nel suo ultimo libro – Il prezzo delle disuguaglianza, Einaudi, pp. 473,
euro 23 – Joseph Stiglitz denuncia la crescita del reddito dei dirigenti di
impresa e quello del lavoro dipendente. Il panorama sociale al di là
dell’Atlantico vede una minoranza di super ricchi e una numeroso esercito
costituito da ceto medio impoverito e working poor. Per il premio Nobel per
l’economia, se continuano così, gli Stati Uniti non solo sono destinati a un
lento declino economico, ma vedranno lo sbriciolamento delle sue stesse
fondamenta democratiche. Da qui, la sua valorizzazione di Occupy Wall
Street, cioè un movimento che ha come collante proprio la denuncia della
polarità esistente tra il 99 per cento della popolazione impoverita e il
restante un per cento. La via d’uscita proposta è il ritorno a politiche
redistributive del reddito, a un limitato intervento dello Stato in economia
per lo sviluppo delle infrastrutture necessarie a rendere competitive
imprese sempre più globali, investimenti nella formazione e politiche volte
a garantire una diffusa assistenza sanitaria.

Al di qua dell’Atlantico, gli fa idealmente eco il pamphlet di Zygmunt
Barman che denuncia la falsità della retorica dominante seconda la quale La
ricchezza di pochi avvantaggia tutti (Laterza, pp. 100, euro 9). Anche in
questo caso, il dito è puntato contro il crescente divario di reddito che
caratterizza le società europee e statunitensi. A differenza di quella
svolta da Stiglitz, ci troviamo però di fronte a un’analisi che lega
disuguaglianze e precarietà, dove il secondo termine indica l’esito di quel
dissolvimento delle istituzioni della modernità che Barman ha più volte
posto come esito dell’avvento della società liquida.

Cacciatori di innovazione
Quello che però né Stiglitz né Bauman affrontano è il venir meno del nesso
tra cittadinanza e lavoro. Nella condizione precaria, infatti, l’accesso ai
diritti di cittadinanza garantiti dallo stato nazionale è interdetto, mentre
il regime di accumulazione ha necessità di attivare un ciclo continuo di
innovazione, sempre più delegato al lavoro vivo. La precarietà, dunque, va
considerata come la condizione propedeutica affinché le imprese possano
attingere a un bacino di expertise in un mercato del lavoro che non prevede
più la stabilità nel rapporto professionale. È dunque un dispositivo che
consente la «cattura» della capacità innovativa del lavoro vivo.

In una importante analisi delle tesi di Bauman e Sennett, la filosofa
italiana Ilaria Possenti ne delinea, nel volume Flessibilità (ombre corte,
pp. 195, euro 18), alcuni dei tratti distintivi. Adattabilità a cambiamenti
repentini del processo lavorativo, gestione individuale del rischio,
sviluppo e cura delle rete sociali che consentono di poter gestire
l’intermittenza della presenza nel mercato del lavoro. Se per i
neoliberisti, tutto ciò significa diventare «imprenditori di se stessi», per
Ilaria Possenti queste sono le caratteristiche del «precario», figura
lavorativa che sembra calzare a pennello per le giovani generazioni, ma che
Sennett considera prerogative dell’antica figura dell’artigiano ritornata in
auge nel capitalismo contemporaneo.

Nei suoi ultimi scritti – L’uomo artigiano e Insieme, entrambi pubblicati da
Feltrinelli – Richard Sennett afferma che stiamo assistendo alla rivincita
del lavoro concreto sul lavoro astratto, che dovrebbe consentire di far
tornare a un livello socialmente accettabile le diseguaglianze. Ciò che non
convince dell’analisi di Sennett non è solo la sua apologia del lavoro
artigiano, ma la rimozione del fatto che sono proprio quelle caratteristiche
che egli assegna al lavoro concreto ad entrare in campo nei processi di
valorizzazione capitalistica. Più la precarietà diviene norma generale, più
il processo di espropriazione della capacità innovativa del lavoro vivo è
quindi garantito. La precarietà è cioè il dispositivo che regola i rapporti
tra capitale e lavoro vivo.

Le linee del colore, la differenziazione generazionale, la contrapposizione
tra permanenti e temporanei sono dunque da considerare forme di governance
del mercato del lavoro, scandito appunto dalla precarietà. In altri termini,
le differenziazioni generazionali, di razza e sessuali sono parte integrante
di quel governo delle disuguaglianze che, anche se in crisi, è lo sfondo
entro cui collocare il tema della precarietà.

La missione impossibile
Tutto ciò può servire a quell’attraversata del deserto che il pensiero
critico sta compiendo. Va detto che molte altre sono le acquisizioni che ha
tratto dal neoliberismo, meglio dal capitalismo contemporaneo. Tra queste,
l’impossibilità di un ritorno alle norme che regolavano il rapporto tra
capitale e lavoro nel passato. La precarietà non è infatti un incidente di
percorso, ma il presente e il futuro del lavoro vivo. L’altro aspetto che è
stato reso evidente dai movimenti sociali di questi anni è l’indisponibilità
a funzionare come oggetto passivo. Ci sono stati processi di organizzazione
del precariato, mentre il tema del reddito di cittadinanza è entrato a far
parte del lessico politico tanto in ambito nazionale che sovranazionale. Il
rischio che si corre è che precarietà e reddito siano ridotti a significanti
vuoti da riempire secondo i vincoli dettati, appunto, dal «governo delle
disuguaglianze».

In ambito europeo, ad esempio, precarietà e continuità di reddito sono temi
affrontati all’interno di politiche di workfare: si accede al reddito solo
se si è disponibili a svolgere un lavoro qualunque esso sia. La precarietà è
qui declinata secondo le politiche di austerità imposte dalla troika ai
paesi dell’Unione europea. In ambito nazionale, il reddito di cittadinanza è
relegato da forze ritenute antisistema – il movimento cinque stelle –
nell’ambito di un misero sussidio di disoccupazione al quale gli
«intermittenti» del mercato del lavoro hanno diritto, additando i dipendenti
del settore pubblico come dei «privilegiati».

La posta in gioco, tuttavia, è di prospettare il reddito di cittadinanza
come un flessibile strumento per quella mission impossible che è la sintesi
tra eguaglianza e libertà, all’interno di un superamento del regime fondato
sul lavoro salariato.


Genealogie del futuro

Posted: Aprile 6th, 2013 | Author: | Filed under: 99%, comune, crisi sistemica, post-filosofia, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 2 Comments »

di ADELINO ZANINI e GIGI ROGGERO*

Pubblichiamo l’introduzione al volume “Genealogie del futuro. Sette lezioni per sovvertire il presente” (uscito in questi giorni nella collana UniNomade di ombre corte), che raccoglie il corso di autoformazione Commonware del 2012 “Da Marx all’operaismo”.

Holly Peers

Formazione militante. Non è semplice oggi tornare a pronunciare queste parole, ancor meno tradurle in una pratica. Troppo pesante sembrerebbe l’ipoteca delle vecchie “scuole di partito” che su di esse grava. Eppure, questa è la sfida: come ripensare la formazione politica dentro le mutazioni soggettive e le pratiche di movimento contemporanee? È una sfida che UniNomade ha assunto. L’abbiamo chiamata Commonware: è un nome apparentemente criptico e volutamente ironico, scelto per dileggiare i pacchetti didattici delle aziende universitarie, i cosiddetti courseware, rovesciandone il senso dentro la libera cooperazione sociale. Non è un caso, del resto, che le sette lezioni raccolte nel presente volume si siano tenute in sede universitaria (quella di Bologna, nello specifico), simbolicamente e concretamente uno dei principali laboratori dei processi di dequalificazione del sapere critico.

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Capitalismo come religione

Posted: Aprile 3rd, 2013 | Author: | Filed under: philosophia, post-filosofia, Révolution | 16 Comments »

di Giorgio Fontana

Leggere Capitalismo come religione di Walter Benjamin (appena edito da il Melangolo) può sembrare soltanto un esercizio di memoralistica, o un vuoto sforzo intellettuale. Il capitalismo del 1921 – l’anno in cui il filosofo tedesco quando prese questi appunti – era molto diverso da quello contemporaneo: ancora non aveva subito l’onda della grande crisi, e soprattutto non era passato attraverso le successive, numerose metamorfosi. Cosa possono insegnarci quattro pagine scarne di novant’anni fa sul momento storico che stiamo vivendo?

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La civetta costituente

Posted: Marzo 31st, 2013 | Author: | Filed under: comune, crisi sistemica, Révolution | 3 Comments »

di ANTONIO NEGRI

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Che siamo entrati in una fase costituente, tutti lo dicono: ma costituente di che cosa? La Boldrini e Grasso, ma anche tanti altri, ripetono ad ogni entrata in scena che la Costituzione del ’48 è “la più bella costituzione del mondo” – e allora, su quale ramo dovrà appollaiarsi la civetta costituente?

In realtà continuiamo a spendere parole troppo importanti per dir poco o niente. “Costituente” è una di queste parole. Per trasformare il Senato in Camera delle autonomie, non dovrebbe esser necessario il ricorso allo spirito costituente. E neppure per fare una nuova legge elettorale, e neppure per realizzare il riconoscimento dei sindacati, e neppure per abolire le province, e tantomeno per stabilire i criteri del fiscal compact (che, d’altra parte, la Commissione europea ha già statuito), ecc.. Non sembra che in tal modo il desiderio costituente e l’ansia di corrispondere a tempi nuovi siano esaltati – ormai si parla sempre di più di “costituente” ma sempre di più si opera, in realtà, sul terreno amministrativo. Si pensi a quanto avviene sul livello europeo – se “l’Europa non è uno Stato”, non è neppure un ambito costituente, anche se ognuno dei mille produttori di norme e dei mille attori di governance che agiscono dentro il terreno comunitario, si pretendesse costituente. Iniziativa costituente significa invece creare “incidenti democratici di base”, “produzioni istituzionali di democrazia dal basso” e non determinare semplicemente atti amministrativi nell’alto dei cieli della politica dei partiti.

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La potenza di astrazione e il suo antagonismo. Sulle psicopatologie del capitalismo cognitivo

Posted: Marzo 28th, 2013 | Author: | Filed under: au-delà, bio, epistemes & società, postcapitalismo cognitivo, Révolution | 1 Comment »

di MATTEO PASQUINELLI

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La vita fende la materia, elabora e contrae la materia, dando vita alle virtualità contenute nel materiale in direzioni sconosciute. La vita emerge come divenire-concetto, divenire-pensiero o, nel caso della coscienza, come divenire-cervello. — Elisabeth Grosz[1]

Il dibattito filosofico-politico degli ultimi anni, almeno alle latitudini del pensiero francese e italiano, è stato caratterizzato da una oscillazione concettuale che ha focalizzato di volta in volta il lavoro immateriale o il lavoro affettivo, l’economia della conoscenza o l’economia del desiderio, il cognitivo o il biopolitico. Nessuna agenda di ricerca o politica è stata immune a questa oscillazione, talvolta recitando in modo polemico un polo contro l’altro. Dopo un periodo al lavoro sull’economia della conoscenza, per esempio, una maggiore attenzione veniva data al lavoro affettivo (tornando a riscoprire quello che il femminismo aveva già tentato di politicizzare negli anni ’70), mentre le biotecnologie occupavano il palco centrale del dibattito sulle nuove forme di potere. Spesso è capitato di sentire lamentele contro un paradigma cognitivo che si dimenticava della materialità biologica e genetica del corpo, della sua libido, dei suoi affetti, ecc. Da alcuni come Lazzarato la noopolitica fu allora proposta come estensione dello spazio del biopotere per arrivare a coprire anche le nuove forme dell’immaginario collettivo e delle tecnologie della conoscenza.[2] Ma solo recentemente si è cominciato propriamente a capire l’importanza delle neuroscienze nelle ricerche dell’operaismo e del post-strutturalismo.[3]

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