Il sacro dilemma dell’inoperoso
Posted: Febbraio 24th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: epistemes & società, Marx oltre Marx, post-filosofia | Commenti disabilitati su Il sacro dilemma dell’inoperosodi Toni Negri
La pubblicazione di «Opus dei» del filosofo italiano per Bollati Boringhieri
è la conclusione di un percorso teorico inziato con «Homo Sacer». La posta
in gioco è sempre stata teoretica, cioè l’essere, e ha comportato un corpo a
corpo con «l’ideologia europea». Ma ad ogni tappa sono stati affrontati temi
centrali in una auspicabile politica della trasformazione. Un nichilismo
radicalizzato dove non c’è spazio per la storia.
Con questo Opus dei (Bollati Boringhieri, pp. 155, euro 15) sembra
concludersi il cammino che il filosofo italiano Giorgio Agamben ha
intrapreso con Homo Sacer. Un bel tratto di strada, dai primi anni Novanta
del Novecento, un ventennio. Un’archeologia dell’ontologia condotta (con un
rigore che neppure il gioco bizzarro e fuorviante dei numeretti messi a
fingere un ordine per diversi stadi della ricerca è riuscito a rendere
opaco) – fino ad una riapertura del problema del Sein (l’essere). Uno scavo
quale neppure a Martin Heidegger (a dire dell’autore che qui si rivendica
giovane allievo del filosofo tedesco) era riuscito – perché qui l’ontologia
è liberata da ogni vestigia di «operatività», da ogni illusione che essa
possa legarsi alla volontà ed al comando. Che cosa ne resta? «Il problema
della filosofia che viene è quello di pensare un’ontologia al di là
dell’operatività e del comando, e un’etica e una politica del tutto liberate
dai concetti di dovere e volontà».
La dimostrazione che l’ontologia criticata da Heidegger sia ancora, al
fondo, una teoria dell’operatività e della volontà, è idea indubbiamente
vera. Già Schürmann l’aveva sviluppata quando aveva criticato il Sein come
l’idea stessa di «arché», e dunque come indistinzione di inizio e di
comando. Seguire lo sviluppo e l’organizzazione successiva di
quest’ontologia dell’operatività, che dai neoplatonici ai padri della
Chiesa, dai filosofi latini a Kant, da Tommaso a Heidegger pone un’idea
dell’essere completamente assimilata a quella della volontà/comando, è
compito da Agamben qui assolto con grande maestria.
In debito con la religione Aristotele, prima di tutti. Nella sua teoria
della virtù come abito, egli avrebbe potuto strappare l’essere ad ogni
pulsione aporetica verso la virtù e così liberarsi di ogni operatività
valorifica: non ce la fa, pur essendo colui che, alle origini della
metafisica, aveva concepito la virtù come rapporto con la privazione e come
determinazione ontologica inoperosa. Ma di qui in avanti – secondo Agamben –
le cosa vanno di male in peggio. Nel cristianesimo (ancora una volta
l’immersione nel rapporto fra neoplatonismo e patristica sollecita Agamben
nel suo procedere) azione e volontà cominciano a farla da padroni. Lasciamo
ai medievisti il giudizio sulla correttezza dell’analisi agambeniana: a noi
basta seguirne il filo che mostra una indubbia coerenza. Ora, l’aporia
aristotelica che si definiva nell’alternativa di collegare (o non collegare)
l’abito e la virtù, l’essere ed il dovere, la passività e l’attività, nella
Scolastica viene meno. L’abito critico è piuttosto ordinato costitutivamente
all’azione e la virtù non consiste più nell’essere ma nell’operare – ed è
solo attraverso l’azione che l’uomo si assimila a Dio. Così in Tommaso: «È
questa ordinazione costitutiva dell’abito all’azione che la teoria delle
virtù sviluppa e spinge all’estremo». D’ora in poi la storia della
metafisica, scarnificata dall’archeologia critica, mostra una bella
continuità e rivela una sorta di ansia perversa (secondo Agamben) di
svolgere ed approfondire quel principio operativo dell’etica e quel concetto
di virtù come obbligo e dovere che la teologia medioevale le aveva concesso
in eredità. Il «debito infinito» in cui consiste, secondo i filosofi della
Seconda Scolastica, il dovere religioso, viene così definitivamente
impiantandosi nelle metafisiche della modernità. Con Kant fa la prima
comparsa l’idea di un compito e di un dovere infiniti, irraggiungibili ma
non per ciò meno doverosi. In un passo esemplare Agamben riassume: «Qui si
vede con chiarezza che l’idea di un “dover-essere” non è soltanto etica né
soltanto ontologica: essa lega, piuttosto, aporeticamente essere e prassi
nella struttura musicale di una fuga in cui l’agire eccede l’essere non
soltanto perché gli detta sempre nuovi precetti, ma anche ed innanzitutto
perché l’essere stesso non ha altro contenuto che un puro debito». Nelle
pagine successive Agamben insiste polemicamente sull’interiorizzarsi
dell’idea della legge morale, sul suo approfondirsi della forma
dell’autocostrizione e persino del piacere masochista nella legge. «La
sostituzione del “nome glorioso di ontologia” con quello di “filosofia
trascendentale” significa, appunto, che un’ontologia del dover-essere ha
preso ormai il posto dell’ontologia dell’essere».
Una trattazione ed una conclusione del tutto heideggeriane, si direbbe. E
però, lo si avverte da subito, questo riferimento delude Agamben. «Anche
Heidegger sviluppa un’ontologia che è più solidale di quanto si creda con il
paradigma dell’operatività che intende criticare». Restiamo stupiti da
questa affermazione. Non era dunque andato abbastanza avanti Heidegger nella
sua distruzione dell’ontologia della modernità? Non aveva già abbastanza
scarnificato il Sein – l’essere – di quanto di umano gli si poteva
attribuire? No – insiste Agamben – c’è un punto nel
quale Heidegger cede alla tentazione di un’ontologia operativa: sono la
teoria della tecnica, la critica del Gesell che scoprono questa
irresolutezza. «Non si comprende l’essenza metafisica della tecnica, se la
si intende solo nella forma della produzione. Essa è, altrettanto e
innanzitutto governo e oikonomia, che, nel loro esito estremo, possono anche
mettere provvisoriamente fra parentesi la produzione causale in nome di
forme più raffinate e diffuse di gestione degli uomini e delle cose».
Auschwitz insegna! Già nel Regno e la gloria, con un po’ di attenzione, si
sarebbe potuta leggere questa conclusione.
Il distacco da Heidegger Qui mi nasce un sospetto. E cioè che questo libro,
Opus Dei, benché riassuma e sviluppi, come già detto, le analisi di Il Regno
e la gloria, in realtà non sia solo il completamento di quel filone
archeologico di pensiero e di lavoro agambeniani. Questo libro segna
piuttosto il definitivo distacco di Agamben da Heidegger: la scelta
ontologica sovrasta la qualità archeologica dell’analisi e lo scontro si
innalza a livello fondamentale. Heidegger è qui accusato d’esser
riuscito solo ad una provvisoria soluzione delle aporie dell’essere e del
dover-essere (ovvero dell’operatività): indeterminazione più che
separazione, più che scelta di un altro terreno ontologico. Debbo ammettere
di aver provato una certa soddisfazione rilevandolo. Ma essa fu breve. Qual
è infatti il Sein ulteriormente imperscrutabile che Agamben ora, pur contro
Heidegger,ci propone? Già una volta, nel 1990, prima di avventurarsi nella
lunga vicenda dell’Homo Sacer, in La Comunità che viene, Agamben si era
allontanato da Heidegger: aveva allora ceduto ad una sollecitazione
benjaminiana, quasi marxista, nel promuovere una sfida sul senso umanistico
dell’essere. Ora, non è certo in questo senso che Agamben procede. Si
muove, al contrario, contro ogni umanesimo, contro ogni possibilità di
azione, contro ogni speranza di rivoluzione.
Ma come ci è arrivato, Agamben, a questo nihilismo radicalizzato, agitandosi
nel quale si compiace di aver superato (o portato a termine) il progetto di
Heidegger? Ci arriva attraverso un lungo percorso che si articola su due
direzioni: una di critica propriamente politico-giuridica, l’altra
archeologica (uno scavo teologico-politico). Carl Schmitt è al centro di
questo cammino: ne guida le due direzioni, quella che porta alla
qualificazione del potere come eccezione, e dunque come forza e destino,
strumentazione assoluta e senza qualità di ogni tecnica, e sadismo della
finalità; d’altro lato quella che porta alla qualificazione della potenza
come illusione teologica, ovvero impotenza, e cioè affidamento impossibile
all’effettualità, quindi: incitamento all’inoperatività, quindi denuncia
della frustrazione necessaria del volere, del masochismo del dovere. Le due
cose vanno assieme. È quasi impossibile, recuperata l’attualità
dei concetti schmittiani dello «Stato di eccezione» e del
«teologico-politico» comprendere se essi rappresentino il più grande
pericolo o invece se si tratti semplicemente di una apertura alla loro
verità. La metafisica e la diagnostica politica si arrendono
all’indistinzione. Ma ciò sarebbe
forse irrilevante se in questa indistinzione non fosse annegata ogni
possibile resistenza. Ritorniamo alle due linee identificate: tutto il
percorso che segue Homo Sacer si svolge su questo doppio binario. La seconda
linea è sommarizzata da Il Regno e la gloria.
La virtù efficace Insistiamo: anche questa seconda linea è mossa dalla
Teologia politica di Carl Schmitt e dal confronto con l’ontologia di
Heidegger. Diciamo questo per evitare che si confonda l’archeologia
di Agamben con quella di Foucault. In Agamben manca la storia, quella storia
che in Foucault non è solo archeologia della modernità ma genealogia attiva
del presente, del suo darsi come del suo disfarsi, del suo essere come del
suo divenire. La storia, per Agamben, non esiste. Meglio, è al massimo
storia del diritto, che è appunto il solo luogo dove il filosofo può farsi
grammatico ed analista delle grammatiche del comando. Ma certamente anche il
luogo dove biopolitica e genealogia possono presentarsi solo in maniera
lineare – come destino, appunto.
Perché qui neppure l’ombra della soggettività, della produzione, appare – ed
anzi sembra che anche quest’ultima sia totalmente sommessa al blocco del
fare, della tecnica, dell’operare e, soprattutto, della resistenza.
Non stupiscono allora, in Opus Dei, le esemplificazioni giuridiche che
Agamben presenta a definitiva prova delle sue tesi. L’assolutizzazione del
dovere nel diritto sarebbe stata introdotta da Pufendorf più che da Hobbes
(e questo processo si conclude con Jean Domat). Può darsi.
Una lontana storia seicentesca, dunque, che marcia in contemporanea con la
nascita e lo sviluppo della Seconda Scolastica (quanto le deve lo stesso
Heidegger!) e della definitiva stabilizzazione di una metafisica
dell’operosità, della virtù efficace. Ma soprattutto importante,
perché è Kant che riprende questo motivo e, dopo Kant, Kelsen lo assolutizza
nella figura fondamentale del dovere giuridico, del Sollen. Si ricordi: non
è tanto la conclusione kelseniana che pur afferma la relazione fra diritto e
comando come doverosa, ad essere qui importante; l’importanza sta nel fatto
che essa riprende – mille miglia lontano dalla sua prima affermazione,
eppure vivente in tutta l’«ideologia europea» – quel nesso interno alla
liturgia che va dall’operatività economica all’essere divino, scendendo
omogeneamente attraverso le deduzioni giuridiche, fino alla necessità
fondante del Sollen: tutto ciò non rappresenta altro che il comando
imperscrutabile della divinità. Così, di Kelsen, si è fatto l’uguale di
Schmitt e le due linee aperte da Homo Sacer, si ricompongono: da un lato la
critica dell’eccezione e dall’altro la critica del Sollen, filtrata nella
oekonomia cristiana, in definitiva si unificano. Ma se questa riduzione può
essere – a grandissime linee e su un terreno che ormai non è più né
giuridico né politico – accettata; se è vero che la pratica di governo
fondata sul diritto di eccezione e sulla pretesa dell’efficacia economica,
hanno sostituito ogni forma costituzionale di governo; se, come
ricordava Benjamin tanto tempo fa, «ciò che è ormai effettivo è lo stato di
eccezione nel quale viviamo e che non sapremmo più distinguere dalla
regola»: bene, ciò detto, che cosa secondo Agamben può liberarci?
Giungiamo così al termine di un cammino complesso. Occorre liberarci dal
concetto e dalla potenza di volontà: così Agamben comincia a rispondere alla
questione. Dobbiamo liberarci dalla volontà che si vuole istituzione, che si
vuole efficacia ed attualità. Le ragioni le conosciamo. Nella filosofia
greca dell’età classica il concetto di volontà non ha significato
ontologico; questa deturpazione ontologica viene introdotta dal
cristianesimo, forzando elementi embrionalmente presenti in Aristotele; così
il dovere è introdotto nell’etica per dare fondamento al comando; così
l’idea di una volontà è elaborata per spiegare il passaggio dalla potenza
all’atto. In tal modo tutta la filosofia occidentale è posta dentro un
terreno di insolubili aporie che trionfa nella modernità piena, con il
ridefinirsi del mondo come prodotto di tecnologia e di industria (che cosa è
più evidente del realizzarsi, del divenire efficace del potere nella realtà,
nell’attualità – che cosa più di questo orizzonte?). Di nuovo si impone la
questione: come uscirne? Come riconquistare un essere senza effettualità?
Che bell’enigma ci ha regalato Agamben! Ci sarebbe forse una via che Agamben
a questo punto potrebbe ancora percorrere.
È quella dello spinozismo, cioè una via nella quale la potenza si organizza
immediatamente come dispositivo di azione, dove violenza e piacere si
determinano nelle istituzioni della moltitudine e la capacità costituente
diviene sforzo di costruire, nella storia, libertà, giustizia e
comune. Agamben percepisce questa via d’uscita, perfettamente atea. La
coglie infatti nell’insultante rifiuto dell’ateismo di Spinoza che, in un
momento critico della modernità, Pufendorf e Leibniz dichiarano. Ma l’essere
che Agamben ci presenta è, per ora, talmente nero e piatto, l’immanenza così
indistinta, l’ateismo così poco materialista, il nihilismo talmente triste
che Spinoza davvero non può stare al gioco – pur considerando, egli,
superstizione ogni ideologia dello stato che non fosse prodotto della
moltitudine e, fondamento intransitivo di libertà, il corpo (i corpi della
moltitudine). Né Spinoza, d’altra parte, sta ad attendere che le
forme di vita dell’Occidente siano giunte alla loro consumazione storica
(rifiutando nel frattempo di agire perché la volontà non morderebbe
l’effettualità). Sa invece dare risposta alla domanda sull’agire, sulla
speranza, sul futuro. Il positivo che avanza Che cosa sono i Lumi? È questa
la domanda che attraversa, con la filosofia di Spinoza, quelle di
Machiavelli e di Marx – e che, nell’attualità, è stata ripresa da Foucault.
Contro il nazismo ontologico di Heidegger. In fondo, l’unico luogo del lungo
tragitto percorso da Agamben, nel quale la soglia ontologica di potenza
potrebbe essere raggiunta, è quando, spostando l’accento dalle forme
linguistiche dell’essere storico, la forma di vita si stacca non dal diritto
in astratto ma da quel diritto storicamente dato (cioè dal diritto di
proprietà), non dal comando in generale ma da quel comando che è della
produzione capitalistica e del suo Stato. Lavorare alla dissoluzione del
diritto di proprietà e della legge del capitalismo è l’unico nihilismo
operativo che gli uomini virtuosi proclamano e agiscono. Ma anche questa
ipotesi Agamben scarta, recentemente, in Altissima povertà.
Come finirà questa storia? C’è una questione che, a fronte di un discorso
come quello di Agamben, nuovamente si apre: potrà forse la forma – ovvero
l’azione o l’istituzione – salvarsi dalla distruzione di ogni contenuto
doveroso? Chi, a questo proposito, insiste su toni e negazioni anarchiche è
tanto irritante quanto chi pensa che la continuità dell’istituzione o
l’annullamento di ogni azione negativa rappresentino la condizione di un
radicale passaggio in avanti. Probabile è invece, contro questi estremismi,
che come in altre epoche rivoluzionarie anarchismo e comunismo, in forme
nuove, sempre di più, nelle lotte che attraversano il nostro secolo, stiano
riavvicinandosi. In ogni caso, la sola cosa certa è, spinozianamente, che
«l’uomo guidato da ragione è più libero nello Stato, dove vive secondo un
decreto comune, che nella solitudine dove obbedisce soltanto a se stesso».