Posted: Dicembre 7th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, Marx oltre Marx | Commenti disabilitati su Giorgio Agamben e l’“homo sacer”
di Marco Pacioni
L’estrema versatilità disciplinare e tematica ha potuto disorientare per un po’ i lettori di Giorgio Agamben, renderli perplessi riguardo gli obiettivi ai quali mirava la sua opera. Si pensi, ad esempio, all’apparente eclettismo del suo secondo libro, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (Einaudi 2011, prima ed. 1977), che si interroga sul rapporto tra poesia e critica passando per la lirica provenzale (da cui deriva il titolo), la melanconia di Dürer, Baudelaire, Freud, Marx, Heidegger (a lui il libro è dedicato), per personaggi e miti come Odradek, Beau Brummel, Edipo, Narciso, Pigmalione, la Sfinge. Analoghe considerazioni si potrebbero fare per Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (Einaudi 2001, prima ed. 1978), raccolta di saggi di estetica, antropologia culturale, teoria della storia che spaziano da Hegel a Heidegger, da Lévi-Strauss a Benveniste, da Adorno a Benjamin. Ma chi sulla base di un’apparente dispersione pensava che Agamben fosse un pensatore capace soltanto di grandi exploits, un disseminatore di spunti accattivanti privo di sistematicità si è dovuto ricredere.
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Posted: Dicembre 7th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: critica dell'economia politica, Marx oltre Marx | Commenti disabilitati su L’uomo in debito
La fabbrica dell’uomo indebitato*
di Maurizio Lazzarato
In Europa la lotta di classe, così come è accaduto in altre regioni del mondo, si manifesta e si concentra oggi intorno al debito. La crisi del debito minaccia anche gli Stati Uniti e il mondo anglosassone, paesi dai quali ha avuto origine non solo l’ultimo crollo finanziario, ma anche e soprattutto il neoliberismo. La relazione creditore-debitore, che definisce il rapporto di potere specifico della finanza, intensifica i meccanismi dello sfruttamento e del dominio in maniera trasversale, perché non fa alcuna distinzione tra lavoratori e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e inattivi. Tutti sono dei «debitori», colpevoli e responsabili di fronte al capitale, che si manifesta come il Grande Creditore, il Creditore universale. Una delle questioni politiche maggiori del neoliberismo è ancora, come illustra senza ambiguità la «crisi» attuale, quella della proprietà, poiché la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forza tra proprietari (del capitale) e non proprietari (del capitale). Attraverso il debito pubblico, la società intera è indebitata, cosa che non impedisce, ma anzi esaspera «le diseguaglianze», che è tempo di chiamare «differenze di classe».
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Posted: Dicembre 7th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica | Commenti disabilitati su The Shock Doctrine
http://www.youtube.com/watch?v=ScQO1txA57o
Posted: Dicembre 6th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: postcapitalismo cognitivo | 7 Comments »
di Sergio Bologna
VITA DA FREE LANCE
Dall’università al Teatro Valle, un nomadismo metropolitano disincantato per difendere una forma di vita indipendente.
«La furia dei cervelli», un saggio che passa in rassegna le forme del
lavoro della conoscenza.
Meglio un cervello furioso di uno fuggitivo? Questo libro di Giuseppe
Allegri e Roberto Ciccarelli, per quanto il gioco di parole del titolo –
La furia dei cervelli, manifestolibri, pp. 167, euro 18 – possa farlo
pensare, non si occupa di giovani talenti che emigrano, ma del tema
dell’indipendenza. Di grande attualità perché mai ci fu un periodo della
storia del capitalismo dove il concetto di indipendenza ha subito tante
offese. L’idea moderna di stato sovrano è nata con le grandi monarchie
del Quattrocento, è stata il fondamento dell’idea di stato finché il
concetto roussoviano di patto sociale non l’ha soppiantata. Da allora
solo il pensiero marxista dell’estinzione dello stato ne ha
rappresentato il contraltare. Ma solo il capitalismo contemporaneo,
attraverso i suoi meccanismi finanziari, è riuscito a realizzarla
mandando in frantumi non l’idea ma la consistenza della sovranità. Si
chiude oggi un ciclo di seicento anni di storia. E che resta dell’idea
di indipendenza? Forse resta, viene alla luce, la sua versione migliore,
quella dell’indipendenza e della sovranità delle comunità autogovernate.
Ma c’è un livello successivo (o antecedente) ed è quello del lavoro. Il
lavoro indipendente è una brutta bestia, è qualcosa che la storia del
capitalismo e del socialismo ha guardato con sospetto, perché non è un
lavoro salariato. È un lavoro «atipico», «non standard», dunque non va
inserito nei sistemi di previdenza e sicurezza sociale. Ma al tempo
stesso viene assunto a modello sul quale far convergere poco a poco il
lavoro salariato del nuovo Millennio.
Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri hanno affrontato il tema dei
lavoratori della conoscenza come dovrebbe sempre essere affrontato: a
partire da un movimento reale, sia pure localizzato, sia pure di breve
durata, ma reale, da un conflitto aperto, non solo immaginato. Non è
possibile parlare di lavoro, qualunque esso sia, artigianale, creativo,
industriale, forzato, femminile, senza parlare di conflitto. Le analisi
puramente «tecniche», per quanto brillanti o approfondite, per quanto
interessanti o stimolanti, sembrano lasciare sempre il discorso a metà.
Dopo averle lette ci si chiede sempre: e allora? Se la condizione è
quella descritta che succede, dove avviene il cambiamento? Qual è il
momento in cui il soggetto prende consapevolezza di quella condizione?
Per gli autori il punto di partenza è il movimento della «pantera»,
1990. Quanto fossero coscienti gli studenti di allora di «fare storia»
semplicemente perché la loro era la prima protesta argomentata della
nuova Italia, della Seconda Repubblica, non è dato di sapere. Di certo
ne sono consapevoli i due autori e questo rende particolarmente
apprezzabile il loro sforzo. Non sarà mai abbastanza l’impegno
pedagogico per sottolineare che il 1989/90 rappresenta la chiusura del
ciclo storico che si era aperto nel 1943/45 con la fine del fascismo.
Nasce una nuova compagine statale che porta in sé le stimmate del dramma
che stiamo vivendo oggi. Ciccarelli e Allegri scrivono: «nel 1990 il
movimento degli studenti comprese le finalità della trasformazione
neo-liberista dell’economia della conoscenza». Detto in soldoni:
capirono che sarebbero stati loro la categoria più beffata. Il loro
antenato non è la figura di intellettuale proletarizzato
dell’iconografia rivoluzionaria, ma il flaneur parigino che sogna e
soggettivamente pratica una quotidianità fuori dagli schemi del lavoro
salariato. L’incursione nella storia delle avanguardie artistiche
dell’Ottocento e del primo Novecento è suggestiva. Ma gli autori vanno
ancora a ritroso, al Seicento, per trovare le tracce di quello che
chiamano il Quinto Stato, gli indipendenti, mercanti o artisti o
artigiani o professionisti, quelli che Foucault definiva come coloro che
possiedono «l’arte di essere governati di meno». Considerati il diavolo
oppure disprezzati, secondo le epoche. Il tentativo di trovare una
genesi storica di quello che viene descritto come fenomeno
post-fordista, post-moderno, rappresenta uno degli aspetti più
interessanti del libro.
La parte finale è interamente dedicata a quelli che comunemente
chiamiamo «i movimenti» (i precari, gli universitari, il teatro Valle
ecc.). La lettura che ne viene data è complessa, perché si cerca di
rintracciare all’interno di quei movimenti il processo costituente del
nuovo ceto o, meglio, della nuova modalità di esistenza propria del
post-moderno. Rimane l’incognita del rapporto con il fare politica, con
quell’agire sociale che è in grado di contrastare i meccanismi del
potere. La sproporzione tra i mezzi a disposizione degli uni e degli
altri sembra oggi tale da togliere ogni plausibilità a un discorso sul
conflitto, cioè su un comportamento che costringa l’avversario a tenerne
conto, a sentirsi impegnato a difendersi. La sproporzione sembra tale
che l’idea stessa del conflitto appare obsoleta. In realtà questi sono
termini propri della società del salario, il cosiddetto «rapporto di
forze» è un tipico paradigma dell’epoca fordista, è stato anche il più
potente giustificativo dell’opportunismo. Qui ci troviamo in un altro
sistema di valori, in un sistema dove quello che viene classificato come
conflitto, in realtà è quel semplice istinto di sopravvivenza che noi
chiamiamo istinto di libertà.
LA FURIA DEI CERVELLI
Posted: Dicembre 6th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica | Commenti disabilitati su La mistica del Capitalismo
di ROBERTO ESPOSITO
Dalle monete ai brand i nuovi oggetti di culto. Adesso gli studiosi discutono di come sia possibile uscire dal paradigma liturgico. Il discorso economico e finanziario, nel corso del tempo, ha assunto toni quasi religiosi. L´analogia funziona anche per i paesi dell´Oriente dove l´accostamento è con il taoismo. Il punto è come togliere questa impronta teologica tornando alle pratiche reali.
[…]
Posted: Dicembre 5th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica | 2 Comments »
Stato del debito etica della colpa
Ida Domimijanni intervista Christian Marazzi
La missione impossibile del salvataggio dell’euro, la frana della de-europeizzazione, il cataclisma geopolitico che ne può derivare. Ma con l’austerità non si esce dalla crisi, si produce recessione e depressione. Intervista a Christian Marazzi sulla penitenza dopo l’abbuffata neoliberale e sull’antidoto del comune.
[…]
Posted: Dicembre 4th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: au-delà | Commenti disabilitati su Lucio e Mara
“La mia morte è cominciata da tempo. Quando Mara è scomparsa ha portato via con sè tutta la mia voglia di vivere, ed ero già pronto a seguirla. Lei lo ha intuito e in extremis mi ha strappato la promessa di portare a termine il lavoro che avevo avviato negli anni della sua sofferenza e che in altro modo era anch’esso in punto di arrivo.
La promessa è più un atto di amore, il regalo di un tempo supplementare. Era uno stimolo e un aiuto per dare una conclusione degna al destino che ci aveva fatto casualmente ma più volte incontrare e poi dato tanti anni di felicità totale. Era anche un appuntamento, o almeno così lo ho vissuto ogni giorno. Ora posso dire che la promessa la ho mantenuta al meglio che potevo. Il libro è stato pubblicato anche in Spagna, Inghilterra, Argentina e Brasile.
Nel lungo e doloroso intermezzo ho avuto modo non solo di riflettere sul passato ma anche di misurare il futuro. E mi sono convinto di non avere ormai nè l’età, nè l’intelligenza, nè il prestigio per dire o per fare qualcosa di veramente utile a sostegno delle idee e delle speranze che avevano dato un senso alla mia vita.
Intendiamoci, non escludo affatto che quelle idee e quelle speranze, riformulate, non si ripresentino nella storia a venire: ma in tempi lunghi e senza sapere come e dove. Comunque fuori dalla mia portata.
Per tutto ciò mi pare legittimo, anzi quasi razionale soddisfare un desiderio profondo che anzichè ridursi, cresce. Il desiderio di sdraiarmi a fianco di Mara per dimostrarle che l’amo come e più che mai, e dimostrare che la morte è stata capace di spegnerci, ma non di dividerci. Può essere solo un simbolo, ma non è poco.”.
[A seguire, un post scriptum, in cui Lucio Magri chiedeva di evitare cerimonie funebri, rimembranze e giudizi dettati dall’occasione, ma “semplicemente uno sguardo affettuoso, o almeno amichevole, rivolto ad una coppia di innamorati sepolti in un piccolo cimitero, insieme“]
Posted: Dicembre 2nd, 2011 | Author: agaragar | Filed under: comune, postoperaismo | Commenti disabilitati su Commons and Cooperatives
by Workerscontrol.net
In the last decade, the commons has become a prevalent theme in discussions about collective but decentralized control over resources. This paper is a preliminary exploration of the potential linkages between commons and cooperatives through a discussion of the worker cooperative as one example of a labour commons.
We view the worker coop as a response at once antagonistic and accommodative to capitalism. This perspective is amplified through a consideration of five aspects of an ideal-type worker cooperativism: associated labour, workplace democracy, surplus
distribution, cooperation among cooperatives, and, controversially, links between worker cooperatives and socialist states. We conclude by suggesting that the radical potential of worker cooperatives might be extended, theoretically and practically, by elaborating connections with other commons struggles in a process we term the circulation of the common.
[…]
Posted: Novembre 30th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, post-filosofia | 6 Comments »
di Michel Foucault
Perché scriveva Sade? Cosa poteva significare, per Sade, l´esercizio
della scrittura? Dagli elementi biografici che abbiamo su di lui,
sappiamo che ha riempito di inchiostro migliaia di pagine, molte più di
quelle che si sono salvate. Una quantità ragguardevole si è persa, ogni
qualvolta Sade è stato imprigionato. Sade scriveva, infatti, su pezzetti
di carta che gli venivano regolarmente sequestrati. È così che ha
redatto Le 120 giornate, alla Bastiglia, terminandole credo nel 1788-89.
Quando la Bastiglia venne espugnata dai rivoluzionari, quelle pagine gli
furono confiscate. Ecco il lato oscuro della presa della Bastiglia: la
sparizione de Le 120 giornate del Marchese. Fortunatamente queste pagine
vennero ritrovate, ma solo dopo la sua morte. Al tempo, per quella
“perdita”, Sade versò, è lui stesso a ricordarcelo, “lacrime di sangue”.
L´ostinazione che Sade ha posto nella scrittura, le sue lacrime di
sangue unitamente al fatto che ogni volta che pubblicava un libro veniva
sbattuto in galera – ecco, tutto ciò prova che Sade attribuiva alla
scrittura un´importanza ragguardevole. Con il termine “scrittura” non
bisogna intendere il mero fatto di scrivere, ma il fatto di pubblicare.
Poiché – ricordiamocelo – Sade pubblicava i propri testi. E se la
fortuna voleva che, mentre li pubblicava, egli fosse fuori di prigione,
ciò non impediva che fosse arrestato non appena quei medesimi testi
fossero pubblicati. E il tutto proprio a causa della loro pubblicazione.
Da dove viene dunque la serietà della scrittura in Sade? Io credo che a
un primo sguardo sia dovuta a un fatto, a più riprese espresso in
Justine e Juliette. Sade si rivolge ai lettori non in ragione del
piacere che i suoi racconti possono provocare in loro, ma proprio per
ciò che di sgradevole può esservi narrato. Lo dice chiaramente: «Non
avrete di che provare piacere, ascoltando il racconto di storie tanto
raccapriccianti. La virtù punita, il vizio ricompensato, bambini
massacrati, ragazzi e ragazze fatti a pezzi, donne incinte impiccate,
interi ospedali dati alle fiamme. La vostra sensibilità sarà rovesciata,
il vostro cuore non ne potrà più. Ma che cosa volete che vi dica? Non è
alla vostra sensibilità, né al vostro cuore che mi rivolgo. Mi rivolgo
alla vostra ragione – ad essa solamente. Voglio dimostrare una verità
fondamentale, ossia che il vizio viene sempre ricompensato e la virtù
punita». Si pone però un problema. Quando seguiamo un romanzo di Sade,
ci accorgiamo che non c´è assolutamente logica nella ricompensa del
Vizio e nella punizione della Virtù. In effetti, ogni qualvolta Justine,
che è virtuosa, viene punita, la punizione non dipende mai dal fatto che
abbia commesso un errore di ragionamento, che non abbia previsto
qualcosa o sia stata cieca nei confronti di una talaltra cosa. No,
Justine ha calcolato perfettamente tutto, ma le capita sempre una
qualche terribile sventura. Sventura che attiene all´ordine del caso e
come tale la punisce. Justine salva qualcuno? Bene, quando l´ha tratto
in salvo, finisce per massacrarlo. Massacra colui a cui ha appena
salvato la vita. Qui è il caso, sempre il caso, che interviene, mai la
conseguenza logica dei suoi atti. E questo caso determina la punizione.
Quando Sade afferma di indirizzarsi «non al vostro cuore, ma alla vostra
ragione» non è dunque in questione la razionalità del Vizio, né della
Virtù. Sade non si prende seriamente, qui. Ma allora, che cosa vuole
fare quando pretende di indirizzarsi alla nostra ragione, mentre
l´ossatura del racconto si rivolge a tutt´altro orizzonte? Credo che per
capirlo occorra riprendere un passaggio – il solo, in Justine e Juliette
– che si riferisce allo scrivere. Juliette si rivolge a un personaggio,
a un´amica già perversa, ma non totalmente perversa. Non ancora almeno.
Qui si tratta di fare l´ultimo apprendistato, di salire l´ultimo scalino
della perversione. Ecco i consigli di Juliette: «Rimanete quindici
giorni senza occuparvi di lussuria. Distraetevi, divertitevi con altre
cose, ma fino al compimento del quindicesimo giorno non lasciate il
minimo spiraglio alla più piccola idea libertina. Poi coricatevi, da
sola, nella calma, nel silenzio e nell´oscurità più profonda.
Ricordatevi allora di tutto ciò che avete bandito in quei quindici
giorni. Date poi alla vostra immaginazione la libertà di presentare
differenti modi di pervertirvi. Percorreteli nel dettaglio. Passateli in
rassegna. Persuadetevi che tutta la terra vi appartiene e avete il
diritto di cambiare, mutilare, distruggere, rovesciare qualunque essere.
[…] Il delirio si impossesserà di voi. Accendete allora la candela e
trascrivete sui fogli la specie di smarrimento che vi ha infiammato,
senza dimenticare alcuna circostanza che aggravi i dettagli.
Addormentatevi, dopo averlo fatto. L´indomani, rileggete le note e
ricominciate l´operazione». Ecco dunque un testo che chiaramente ci
mostra un modo di usare la scrittura. Un uso chiaro delle scrittura. Si
parte dalla libertà totale assegnata all´immaginazione, si scrive, ci si
addormenta, si rilegge, si procede con un nuovo lavoro
dell´immaginazione, si passa a una nuova elaborazione per mezzo della
scrittura e infine, come dice Sade, alla maniera di una ricetta
culinaria: «Commentate…».
Credo si debba studiare a fondo, in maniera più decisa e precisa, questo
testo. Chiediamoci allora come funziona, in esso, la scrittura. Direi
che in primo luogo la scrittura vi gioca un ruolo intermediario tra
immaginario e reale. Sade, o il personaggio in questione, si dà fin
dall´inizio alla totalità del mondo immaginario possibile e deve quindi
variare questo mondo, superarne i limiti, spostarne le frontiere. Va
oltre, proprio mentre credeva di aver già immaginato tutto, ed è questo
che va trascritto più volte e solo quando sarà arrivato a una data
realtà, allora potrà accedere al famoso: «Commentez ensuite». Come se
fosse facile, commentare quando si è sognato di massacrare migliaia di
bambini, di bruciare centinaia di ospedali, di far esplodere un vulcano…
La scrittura è dunque questo processo, questo momento che ci porta fino
a un reale che, a dirla tutta, spinge il reale fino ai limiti stessi
dell´inesistenza. La scrittura è ciò che permette di spingersi sempre
oltre le frontiere dell´immaginazione. Il principio di realtà o,
piuttosto, la scrittura è ciò che a forza di spinte successive sposta il
momento della conoscenza oltre l´immaginazione. La scrittura è ciò che
forza a far lavorare l´immaginazione, introducendo un ritardo nel
momento in cui il reale finemente si sostituirà al principio di realtà.
La scrittura spinge la realtà fino a divenire irreale quanto
l´immaginazione. La scrittura – ecco la sua prima funzione – abolisce le
frontiere tra realtà e immaginazione. La scrittura esclude la realtà,
ecco quindi che cancella tutti i limiti dell´immaginario.
Ci sono però altre funzioni che orientano la scrittura. La scrittura, in
particolare, cancella il limite temporale, cancella i limiti dello
sfinimento, della fatica, della vecchiaia, della morte. A partire dalla
scrittura, tutto può continuamente, indefinitamente ricominciare. Ma mai
la fatica, mai lo sfinimento, mai la morte si affacceranno in questo
mondo della scrittura, che è precisamente l´elemento che cancella la
differenza tra principio di realtà e principio di piacere. La scrittura
introduce il desiderio nel mondo della verità, togliendo a esso le
briglie e i limiti del lecito e dell´illecito, del permesso e del
proibito, del morale e dell´immorale. La scrittura introduce il
desiderio nello spazio dove tutto il possibile è indefinitamente
possibile e illimitato. La scrittura permette all´immaginazione e al
desiderio di non incontrare più altra cosa che non sia la sua
individualità. Permette al desiderio di essere sempre, in qualche modo,
all´altezza della propria irregolarità. In conseguenza di tutte queste
illimitazioni prodotte dalla scrittura, il desiderio diventa legge a sé
stesso. Diviene sovrano assoluto che detiene la propria verità, la
propria ripetizione, il proprio infinito, la propria istanza di
verifica. Niente potrà più dire al desiderio «sei falso», niente può
rinfacciargli «non sei totalità», niente «è vero ciò che sogni, ma c´è
qualcosa che ti si oppone». Niente può più dire al desiderio «ci sei, ma
la realtà dice un´altra cosa». Grazie alla scrittura, il desiderio è
entrato nel mondo della verità totale, assoluta, illimitata senza
possibile contestazione esterna.
Ecco dunque che, osservata da questa prospettiva, la scrittura sadiana
non ha come caratteristica il mettere in comunicazione, l´imporre, il
suggerire a qualcuno le idee o i sentimenti di un altro. Non si tratta
assolutamente di persuadere qualcuno di una verità esterna. La scrittura
sadiana è una scrittura che non si indirizza a nessuno. Non si indirizza
a nessuno nella misura in cui non si tratta di persuadere a nessuna
verità che avrebbe ipoteticamente nella testa, avrebbe riconosciuto e
dovrebbe quindi imporre al lettore. La scrittura di Sade è una scrittura
assolutamente totalitaria, tanto che nessuno può esserne persuaso in un
senso, e nessuno può comprenderla nell´altro. Ecco dunque che per Sade è
assolutamente necessario che tutti i suoi fantasmi passino per la
scrittura e attraverso la scrittura, in ciò che ha di materiale, poiché,
come ci dice il testo di Juliette, è proprio questa scrittura, quella
materiale, fatta di segni posti su una pagina che possiamo leggere,
correggere, riprendere e via all´infinito – è questa scrittura che mette
il desiderio in uno spazio illimitato, dove ciò che è esteriore, il
tempo, i limiti dell´immaginazione, le concessioni e i divieti, sono
totalmente e definitivamente aboliti.
La scrittura è dunque il desiderio che ha avuto accesso a una verità che
nulla può più contenere. Una verità senza limite. La scrittura è il
desiderio divenuto verità. Verità che ha preso forma di desiderio. Del
desiderio ripetitivo, del desiderio illimitato, del desiderio senza
letto, del desiderio senza esteriorità, dove l´esteriorità è la
soppressione dell´esteriorità in rapporto al desiderio. Questo è quanto
la scrittura porta a compimento, nell´opera di Sade. Ed è la ragione che
lo spinge a scrivere.
Posted: Novembre 29th, 2011 | Author: agaragar | Filed under: Marx oltre Marx | Commenti disabilitati su Lucio Magri: “PRAGA E’ SOLA” (1969)
“PRAGA E’ SOLA” di Lucio Magri (1932-2011)