Posted: Febbraio 21st, 2012 | Author: agaragar | Filed under: critica dell'economia politica | Commenti disabilitati su Il Leviatano della ricchezza
di Luigi Cavallaro
Dopo la riscoperta di Marx è la volta di Lenin, interpretato come un agit prop del capitalismo di stato. La crisi sbriciola la messianica fiducia nel mercato e rende così attuali cassette degli attrezzi teorici troppo rapidamente considerate obsolete. Un recente numero dell’«Economist» affronta il rinnovato protagonismo dello stato nella vita economica.
Nell’ottobre 1921, Lenin tenne alcuni discorsi in cui spiegò il significato della svolta nella gestione dell’economia sovietica inaugurata nella primavera precedente, dopo gli anni del «comunismo di guerra». Lenin la chiamò «Nuova politica economica», donde l’acronimo «Nep» con cui è passata alla storia e poi nel dimenticatoio.
La sua idea di fondo era che, accentrando la produzione e la distribuzione nelle mani dello stato, i bolscevichi avevano commesso l’errore di voler passare direttamente alla produzione e distribuzione su basi comuniste, dimenticando che a ciò si arriva attraverso un lungo e complicato periodo di transizione. La «Nuova politica economica» muoveva dal fatto che avevano subito una grave sconfitta e iniziato una ritirata strategica.
Era senz’altro comprensibile che molti si sentissero sgomenti, perché la svolta della Nep, implicando la possibilità per i produttori di scambiare liberamente sul mercato tutto ciò che dei loro prodotti non era assorbito dalle imposte, significava in buona misura restaurazione del capitalismo. La questione fondamentale, dal punto di vista strategico, era anzi proprio quella di capire chi avrebbe saputo approfittare della nuova situazione: avrebbero vinto i capitalisti, ai quali i bolscevichi stavano aprendo le porte prima serrate della produzione pubblica, e avrebbero cacciato i comunisti, oppure il potere statuale, continuando a regolare la moneta e la produzione, sarebbe riuscito a tener ferme le redini al collo dei capitalisti, creando un capitalismo subordinato allo stato e posto al suo servizio? Molto sarebbe dipeso dal partito comunista: se gli fosse riuscito di organizzare i produttori immediati in modo da sviluppare le loro capacità e di garantire a questo sviluppo il sostegno dello stato, bene; altrimenti, essi sarebbero stati presto asserviti al capitale.
Globalizzazione burrascosa
Così, grosso modo, scriveva Lenin in La Nuova politica economica e i compiti dei centri di educazione politica. Si potrebbe facilmente rilevare che, rilette oggi, le sue parole sembrano una gigantesca metafora del «secolo breve», quasi che cent’anni di evoluzione e rivoluzioni in Europa (e non solo) fossero stati lì contratti in meno di un decennio. Ma non è su questo che qui vorremmo richiamare l’attenzione. Il punto è che nell’analisi di Lenin sta racchiusa l’intera problematica del «capitalismo di stato»: che è questione nient’affatto tramontata, se perfino l’Economist ha sentito il bisogno di dedicarvi un corposo inserto (quattordici pagine!) nell’ultimo numero del mese scorso. Per metterla in forma di domanda: davvero il capitalismo di stato rappresenta un modello che – come scrive il settimanale inglese – sta emergendo a livello mondiale come alternativa al capitalismo liberale di marca angloamericana? E prima ancora, che cos’è il «capitalismo di stato»?
Da un punto di vista fenomenologico, possiamo descriverlo con le stesse parole dell’Economist: il capitalismo di stato «cerca di fondere le forze dello stato con le forze del capitalismo». La promozione della crescita economica è affidata all’azione dei governi, ma essi nel perseguirla si avvalgono anche di strumenti tipici del capitalismo, ivi comprese aziende statali quotate in borsa che nuotano come pesci nel mare della globalizzazione. Una miscela apparentemente contraddittoria che però funziona: a fronte della crisi economica in cui sono drammaticamente precipitate le economie capitalistiche occidentali, il capitalismo di stato può infatti contrapporre il più grande successo economico degli ultimi trent’anni, ossia quel «miracolo cinese» fatto di tassi di crescita del Pil del 9,5% all’anno. Lo stato cinese – ci ricorda l’Economist – non è soltanto il maggiore azionista delle 150 aziende più grandi del Paese, né semplicemente una guida o un pungolo per migliaia di altre: specialmente attraverso il potente Dipartimento dell’organizzazione del Partito comunista, esso plasma nell’insieme il mercato attraverso la gestione della moneta e delle politiche creditizie, indirizzando i flussi di denaro coerentemente con le scelte di politica industriale, e per di più lavora a stretto contatto con le aziende cinesi che si stanno espandendo all’estero (specie nel continente africano).
Lo Stato va in Borsa
Non si tratta, peraltro, di un’esperienza unica nel mondo industrializzato. Le aziende pubbliche costituiscono l’80% della capitalizzazione della borsa cinese, ma anche il 62% di quella russa e il 38% di quella brasiliana: come dire che è in gran parte del «Bric» (l’acronimo che designa Brasile, Russia, India e Cina) che il capitalismo di stato sta celebrando la sua marcia trionfale. Per non parlare dell’espansione dei «fondi sovrani» cinesi e arabi (ma anche norvegesi, russi, australiani), attraverso i quali il Leviatano statale, dopo aver vestito i panni del capitalista industriale, assume anche le sembianze del capitalista finanziario.
Ad una più attenta analisi, tuttavia, la fenomenologia del capitalismo di stato rivela un doppio paradosso. Soprattutto (anche se non solamente) in Cina, le aziende di stato sono diventate più efficienti e più potenti proprio mentre il settore statale complessivamente considerato si restringeva; d’altra parte, la capacità dei governi di incidere sulle leve fondamentali dell’economia si è accresciuta proprio mentre il settore privato si espandeva. L’Economist lo rileva, ma non riesce a darne una spiegazione. Affermare che, in un regime di capitalismo di stato, «i politici hanno di gran lunga più potere che sotto il capitalismo liberale» è semplicemente tautologico: il problema è infatti proprio quello di spiegare che cosa conferisca loro questo potere di «utilizzare il mercato per promuovere fini politici».
C’è un’impegnativa e assai poco meditata affermazione di Lenin dalla quale possiamo prendere le mosse per spiegare il paradosso. Risale ad un testo scritto nei giorni immediatamente precedenti la rivoluzione d’Ottobre e suona così: «il capitalismo monopolistico di stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo». Non è un caso che Lenin la riprenda testualmente in uno intervento (Sull’imposta in natura) che appare proprio nell’anno della svolta verso la Nep: letta insieme ad un’altra che di poco la precede e che spiega il senso della topica («Non significa forse, quando si riferisce all’economia, che nel regime attuale vi sono degli elementi, delle particelle, dei pezzetti e di capitalismo e di socialismo?»), essa mette in chiaro che, nell’opinione del leader bolscevico, l’espressione «capitalismo di stato» nasconde in realtà una duplice problematica: 1) se, e a quali condizioni, la proprietà statale dei mezzi di produzione possa dar luogo a nuovi rapporti di produzione di tipo «socialista»; 2) se, e in che modo, codesti nuovi rapporti di produzione possano coesistere con quelli preesistenti di tipo capitalistico.
Volgendo lo sguardo indietro allo sviluppo economico sovietico degli anni Venti del Novecento, possiamo in effetti apprezzare la pregnanza dell’ipotesi leniniana. La Nep fu bensì connotata da un ampio sviluppo del commercio, dal ristabilimento del ruolo allocativo della moneta e più in genere dall’influenza che i movimenti dei prezzi tornarono ad esercitare sulle scelte di consumo e investimento. Ma fu altresì caratterizzata dall’espansione di un insieme di apparati statali che sottraevano parzialmente la riproduzione allargata dall’influenza diretta dei rapporti mercantili, grazie soprattutto al ruolo svolto dalla pianificazione, dalla centralizzazione del bilancio pubblico e dalla realizzazione di programmi pubblici di investimenti.
Tra Mosca e Weimar
Per altro verso, la spinosa querelle che a metà del decennio si accese all’interno del partito bolscevico circa il carattere «genetico» o «teleologico» della pianificazione, nascondeva la questione (non meno decisiva) se codesta sfera di attività produttive finalmente sottratta all’imperio dei rapporti mercantili dovesse essere complessivamente subordinata al funzionamento del sistema capitalistico o posta, viceversa, in posizione relativamente dominante. Fintanto che si fosse limitato a riflettere le tendenze «spontanee» del sistema economico, il piano non avrebbe mai potuto assurgere a criterio orientativo delle scelte produttive fondamentali a prescindere dalla loro redditività monetaria: per liberare le scelte di politica economica (a cominciare da quella relativa all’industrializzazione) da un impiccio del genere, occorreva al contrario spezzare la logica del pareggio di bilancio, il che a sua volta richiedeva un sistema bancario capace di assecondare le crescenti esigenze di espansione monetaria, evitando al contempo che quest’ultima degenerasse in un’inflazione rovinosa come quella che, giusto in quegli anni, affliggeva l’esperimento socialdemocratico di Weimar.
Il laboratorio di Shenzen
Sta qui, in questo complesso mix di misure reali, monetarie e finanziarie, l’arcano che può consentire allo stato di sottrarre le condizioni d’impiego dei mezzi di produzione (ivi compresa la forza-lavoro) alle esigenze di valorizzazione del capitale. E sta nella duplicità dei rapporti che vengono a presiedere il processo complessivo di produzione e riproduzione sociale il segreto del movimento inversamente oscillatorio della disoccupazione e dell’inflazione che, molti anni dopo, A.W. Phillips avrebbe formalizzato nella sua famosa curva. Già all’epoca della Nep, il prevalere dell’una o dell’altra avrebbe infatti costituito una spia della (relativa) dominanza assunta dall’uno o dall’altro sistema di rapporti di produzione: quelli capitalistici ovvero quelli statuali.
Si racconta che nel 1980, all’indomani del varo della prima «Zona economica speciale» di Shenzhen, i dirigenti cinesi si affannassero a cercare nelle Opere complete di Lenin un qualche appiglio che potesse giustificare la scelta di concedere a privati cittadini diritti di uso e di trasferimento che concernevano il lavoro, i mezzi di produzione, gli edifici e perfino la terra. Non c’è da stupirsi che, alla fine, l’abbiano scovato proprio in alcuni testi redatti all’epoca della Nep, né che Chen Yun – che tra i leader storici del Pcc è stato forse il maggior esperto di pianificazione economica – abbia fin da subito proposto di circoscrivere l’esperimento riformatore iniziato nel 1978 nell’ambito dell’«economia dell’uccello in gabbia»: nella capacità di suscitare le forze dello sviluppo capitalistico e al contempo di controllarle in modo che «non volassero via» possiamo in effetti scorgere la principale realizzazione della strategia trentennale dei comunisti cinesi.
Messa la cosa in questi termini, risulta certo più chiaro il significato di certe espressioni ossimoriche così tipiche dei dirigenti cinesi, a cominciare da quella di «economia di mercato socialista». Il fatto è che il «mercato» è semplicemente un proscenio, ovvero (e più precisamente) una delle istituzioni sociali in cui si manifesta il nesso di dominanza/subordinazione concretamente esistente fra i rapporti di produzione capitalistici e i rapporti di produzione statuali («socialisti»). E il fatto che al momento siano questi ultimi ad essere saldamente attestati in posizione dominante è ciò che consente di giudicare la formazione economico-sociale cinese come irriducibilmente altra rispetto a quelle «capitalistiche» occidentali: non già perché all’interno di queste non si diano forme di cooperazione produttiva non più condizionate dal perseguimento del profitto monetario (basti pensare agli apparati pubblici preposti al welfare: scuole, ospedali, ecc.), ma semplicemente perché esse non sono (più) dominanti. L’infinita e stolida giaculatoria sull’«insostenibilità» del debito pubblico ne costituisce probabilmente la migliore conferma.
Il mercato del pubblico
Lascia perciò perplessi l’Economist allorché, a conclusione del suo rapporto, afferma perentoriamente che «la battaglia che definirà il XXI secolo non si combatterà fra capitalismo e socialismo, ma tra differenti versioni del capitalismo»: quel Lenin suggestivamente ritratto in copertina suggerisce piuttosto che la partita che si gioca intorno al «capitalismo di stato» è affatto aperta e per nulla predeterminabile nei suoi esiti ultimi.
Certo, si può sempre ritenere che il comunismo andrebbe ripensato «a partire dalla distanza dallo statalismo e dall’economicismo», come hanno sostenuto (quasi) tutti i partecipanti ad un importante convegno sull’«idea comunista» svoltosi proprio a Londra qualche anno fa.
All’estremo opposto, dei comunisti che volessero prendere sul serio gli insegnamenti del «miracolo cinese» dovrebbero interrogarsi sulle ragioni del consenso di cui hanno goduto in Occidente quelle politiche economiche che hanno progressivamente smantellato analoghi strumenti di controllo e governo pubblico dell’economia capitalistica, che risalivano agli anni ’30. Mi rendo conto, però, che è difficile credere che si diano parentele di sorta tra il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels e lo Statuto del Partito comunista cinese approvato giusto 160 anni dopo. Se poi si è anarchici, è perfino impossibile.
Posted: Febbraio 18th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, epistemes & società | Commenti disabilitati su Agamben
Se la feroce religione del denaro divora il futuro
«Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire
come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà».
La Repubblica, 16 febbraio 2012
Per capire che cosa significa la parola “futuro”, bisogna prima capire che
cosa significa un´altra parola, che non siamo più abituati a usare se non
nella sfera religiosa: la parola “fede”. Senza fede o fiducia, non è
possibile futuro, c´è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa.
Già, ma che cos´è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza
delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava
appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli
apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza
di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri
cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza,
guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente
davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco di
credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da
mesi di capire: pistis, ” fede” è semplicemente il credito di cui godiamo
presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le
crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è
sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste
ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco
il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un futuro esiste nella
misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre
speranze.
Ma la nostra, si sa, è un´epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola
Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza
convinzione. Quindi un´epoca senza futuro e senza speranze – o di futuri
vuoti e di false speranze. Ma, in quest´epoca troppo vecchia per credere
veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne
è del nostro credito, che ne è del nostro futuro?
Perché, a ben guardare, c´è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno
del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis,
tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca – la trapeza tes
pisteos – è il suo tempio. Il denaro non è che un credito e su molte
banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non – chissà perché, forse
questo avrebbe dovuto insospettirci – sull´euro), c´è ancora scritto che la
banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito. La
cosiddetta “crisi” che stiamo attraversando – ma ciò che si chiama “crisi”,
questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il
capitalismo del nostro tempo – è cominciata con una serie sconsiderata di
operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine
di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole,
che il capitalismo finanziario – e le banche che ne sono l´organo principale
– funziona giocando sul credito – cioè sulla fede – degli uomini.
Ma ciò significa, anche, che l´ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale
il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che
sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla
lettera. La Banca – coi suoi grigi funzionari ed esperti – ha preso il posto
della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce
la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se
stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di
lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo
il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso
(persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro
sovranità). In questo modo, governando il credito, governa non solo il
mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più
corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è
perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto
il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica
resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene
che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi
tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle
varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è di smettere di
guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece
lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e
soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse,
ritrovare la propria libertà. L´archeologia – non la futurologia – è la sola
via di accesso al presente.
Giorgio Agamben
Posted: Febbraio 17th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: comune, crisi sistemica | Commenti disabilitati su sovranità giuridiche
LA SOVRANA LEGGE DELLA DISEGUAGLIANZA
di Ugo Mattei
Sia in Europa che negli Stati Uniti il principio della «legge uguale per tutti» viene messo in discussione attraverso l’istituzione di norme e assetti legislativi che istituiscono stati d’eccezione per le imprese e il mondo degli affari. Un percorso di lettura sulle tradizioni della civil law e della common law.
[…]
Posted: Febbraio 14th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: comune, postcapitalismo cognitivo, postoperaismo | Commenti disabilitati su I luoghi della lotta di classe
di COLLETTIVO UNINOMADE
1) In un recente intervento su “il manifesto” Mario Tronti riconosceva all’esecutivo Monti il “merito” di “riaprire la questione sociale”. A differenza del precedente, questo governo “pratica l’obiettivo” in una cristallina logica di classe, guadagnando il plauso di stakeholder per niente occulti e di chi, accecato dai fin troppo esibiti curricula di ministre e ministri, tralascia di valutare il segno delle riforme adottate e in cantiere. Se il lascito della lunga fase di destrutturazione del “capitalismo organizzato”, apertasi negli anni ’70 del secolo scorso, è l’immane redistribuzione di ricchezza e potere dai subalterni alle classi dominanti, la continuità del governo Monti con le dottrine e le pratiche neoliberali degli ultimi trent’anni sono alla luce del sole. Il salto di qualità nell’attacco sferrato al salario differito (pensioni) e a quello socializzato nel welfare e nei servizi collettivi (bersaglio dell’austerity istituzionalizzata nella stabilità finanziaria delle amministrazioni), si salda senza soluzione di continuità con la “modernizzazione” del mercato del lavoro. Che a scanso di equivoci, c’informano, vale duecento punti di spread, assunto esplicativo delle sinergie tra finanza e mitologica “economia reale” (il cambiamento delle regole su licenziamenti e contrattazione collettiva, prima che prescrizione dei mercati, è un claim di Confindustria). Alla ristrutturazione e aggiustamento delle norme regolanti i rapporti di produzione occorrerà dedicare analisi meno episodiche, in grado di esplicitarne disegno ed effetti materiali. Basti qui evidenziare che, lungi dal distinguersi per innovazione, l’esecutivo interpreta alla lettera prescrizioni da tempo diffuse dai think tank neoliberali e filoaziendali.
[…]
Posted: Febbraio 13th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: bio, comune, Marx oltre Marx, post-filosofia | Commenti disabilitati su Il “nudo” e il “sacro”
La biopolitica di Giorgio Agamben
di Fabio Milazzo
“La storia della ratio governamentale,
la storia della ragione governamentale
e la storia delle contro condotte che le si sono opposte non possono essere dissociate l’una dall’ altra.”
Michel Foucault, Sicurezza, territorio e popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), p.365).
Nel 1979 Michel Foucault rese celebre il concetto di “biopolitica” dedicandogli un intero corso al Collège de France[1].
Durante il ciclo di lezioni Foucault cercò di dimostrare la correlazione tra il liberalismo, l’economia e il governo. L’economia, con il liberalismo, diventa il paradigma orientante le pratiche di governo.
“ Mi sembra che l’analisi della biopolitica non si possa fare senza aver compreso il regime generale di questa ragione governamentale di cui vi sto parlando, regime generale che si può chiamare questione di verità, in primo luogo della verità all’interno della ragione governamentale, e di conseguenza se non si comprende bene di che cosa si tratta in questo regime che è il liberalismo, (…) e una volta che avremo saputo che cos’è questo regime governamentale chiamato liberalismo potremo sapere cos’è la biopolitica”[2].
[…]
Posted: Febbraio 12th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica | Commenti disabilitati su Intervista a Lunghini
“Per salvare l’Italia Monti faccia cose di sinistra”
Niccolò Cavalli
Applicando la ricetta individuata da Keynes nell’ultimo capitolo della Teoria generale, l’Italia potrebbe crescere in 5 anni del 2,5% in termini reali. Ne è convinto Giorgio Lunghini, ordinario di Economia politica all’Università di Pavia e accademico dei Lincei. Per l’economista l’azione del Governo Monti, improntata a una politica “dei due tempi”, è per definizione fallimentare: «È vero che il vincolo di bilancio è un problema reale, ma l’equità e la crescita lo sono altrettanto, anche perchè le condizioni del debito pubblico italiane non sono affatto disastrose, mentre ciò che spaventa gli investitori è principalmente il fatto che l’economia non cresca da almeno 10, 15 anni».
[…]
Posted: Febbraio 11th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: Révolution | 1 Comment »
Οι λαοί έχουν τη δύναμη, δεν παραδίδονται ποτέ. Οργάνωση, αντεπίθεση!
The peoples have the power and never surrender. Organize counterattack!
I popoli hanno il potere e non si arrendono mai. Organizziamo il contrattacco!
“PAME” sindacato comunista.
Posted: Febbraio 9th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: bio, vita quotidiana | Commenti disabilitati su A Beirut per leggere il futuro
di Franco Berardi “Bifo”
yani
Nuovamente si spegne la luce. Quanto a lungo resteremo al buio questa volta? Mezzo minuto.
Ci sono queste brevi interruzioni dell’elettricità, nessuno ci fa caso. Ma ogni volta potrebbe essere la volta buona, you know what I mean. Yani. L’intercalare più frequente. Un attimo di sospensione. Un attimo prima.
Solo i computer non si spengono ai tavoli del bread republic, e ciascuno continua a digitare imperterrito la faccia illuminata dalla luce eterna del ciberspazio. Mi sono svegliato presto stamattina alle sei e tre quarti in preda a un’eccitazione pericolosa, folle. Ieri sera al Time out con una siriana un indiano due palestinesi un’italiana tre libanesi una mezza inglese e mezza non so cosa a parlare dei Grundrisse, del general intellect, della poesia dell’esaurimento dell’energia fisica e psichica, e della demografia mondiale. Nessuno fa cenno a quello che sta succedendo in Siria perché tutti lo sanno benissimo. Duecento morti al giorno a un’ora di auto da qui, e la violenza pronta a esplodere in ogni istante all’angolo di strada per ragioni imperscrutabili. Come reagirà Hezbollah al possibile crollo del regime siriano? Come reagirà Israele alla possibile reazione di Hezbollah?
[…]
Posted: Febbraio 9th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: bio, comune | Commenti disabilitati su Zizek
La Rivolta della Borghesia Salariata
Come ha fatto Bill Gates a diventare l’uomo più ricco d’America? La sua ricchezza non ha nulla a che fare con la produzione di un buon software Microsoft a prezzi inferiori rispetto ai suoi concorrenti, o con lo ’sfruttare’ i suoi lavoratori con più successo (Microsoft paga i lavoratori intellettuali uno stipendio relativamente alto). Milioni di persone ancora acquistano il software Microsoft, perché Microsoft si è imposto come uno standard quasi universale, praticamente monopolizzando il campo, come una incarnazione di ciò che Marx chiamava il ‘General Intellect’, con la quale egli intendeva la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza al know-how pratico. Gates effettivamente ha privatizzato parte del general intellect ed è diventato ricco appropriandosi della rendita che ne seguì.
[…]
Posted: Febbraio 9th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: comune | Commenti disabilitati su il manifesto
Senza fine
09.02.2012
Siamo alla prova cruciale, al corpo a corpo con la nostra stessa vita materiale e politica. Il manifesto andrà in liquidazione coatta amministrativa. Verranno funzionari di governo, che si sostituiranno al nostro consiglio di amministrazione. È una procedura cui siamo stati costretti dai tagli alla legge dell’editoria. Noi, come altre cento testate, nazionali e locali, non potremo chiudere il bilancio del 2011. Mario Monti e il ministro Passera potrebbero riuscire dove Berlusconi e Tremonti hanno fallito. Usiamo il condizionale perché non abbandoniamo il campo di battaglia e siamo ancora più determinati a combattere contro le leggi di un mercato che della libertà d’informazione farebbe volentieri un grande falò. La fine del manifesto sarebbe la vittoria senza prigionieri di un sistema che considera la libertà di stampa non un diritto costituzionale ma una concessione per un popolo di sudditi. La fisionomia della nostra testata, il suo carattere di editore puro, il nostro essere una cooperativa di giornalisti, hanno sempre costituito una felice anomalia, un’eresia, la testimonianza in carne e ossa che il mercato non è il monarca assoluto e le sue leggi non sono le nostre.
Il compito che ci assumiamo e a cui vi chiediamo di partecipare è tutto politico. I tagli ai finanziamenti per l’editoria cooperativa e politica non sono misurabili «solo» in euro, in bilanci in rosso, in disoccupazione. Naturalmente, se avessimo la testa di un Marchionne sapremmo cosa fare per far quadrare i bilanci. Così come un vero mercato della pubblicità ci aiuterebbe a far quadrare i conti, e un aumento dei lettori nel nostro paese ci farebbe vivere in una buona democrazia. Ma è altrettanto evidente che le nostre difficoltà sono lo specchio della profonda crisi della politica, l’effetto di quella controrivoluzione che ha coltivato i semi dell’antipolitica, del «sono tutti uguali» fino a una sorta di pulizia etnica delle idee e dell’informazione.
Care lettrici e cari lettori, siamo chiamati, noi e voi, a una sfida difficile e avvincente. Dovremo superare nemici visibili e trappole insidiose. Sappiamo come replicare alle politiche di questo governo, ma siamo profeti disarmati contro il successo del populismo, che urla contro il potere assumendone modi e fattezze. State con noi, comprateci tutti i giorni, abbiamo bisogno di ognuno di voi. Adesso che tutti hanno imparato lo slogan dei beni comuni, lasciateci la presunzione di avere rappresentato una delle sue radici, antica e disinteressata. Ed è per questo che nell’origine della nostra storia crediamo di vedere ancora una vita futura.