Posted: Maggio 7th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: Marx oltre Marx | Commenti disabilitati su Marx e l’istituzionalismo
di Carlo Formenti
La crisi ha portato allo scoperto i limiti della teoria economica egemone tanto a livello accademico quanto a livello politico. Ecco perchè massima deve essere l’attenzione verso i contributi controcorrente, come il libro di Forges Davanzati “Credito, produzione, occupazione: Marx e l’istituzionalismo”.
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Posted: Maggio 6th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: Révolution | Commenti disabilitati su GENOVA, NOME PER NOME
Genova, nome per nome – Le violenze, i responsabili, le ragioni: inchiesta sui giorni e i fatti del G8
Un libro di Carlo Gubitosa – carlo@gubi.it
In occasione del decennale della contestazione al G8, Carlo Gubitosa (direttore della rivista Mamma!) e le edizioni Altreconomia vogliono contribuire alla memoria storica di quei giorni diffondendo su internet “Genova, nome per nome”, un libro/inchiesta di 600 pagine, frutto di un lavoro di ricerca e documentazione durato due anni.
Questo testo, utilizzato anche come strumento per spettacoli teatrali (“Sangue dal Naso”, di e con Andrea Maurizi) e documentari televisivi (“Blu Notte” di Carlo Lucarelli), si e’ confermato nel corso degli anni come un riferimento imprescindibile per capire che cosa e’ accaduto in quel luglio 2001, quando la proposta del movimento per la globalizzazione dei diritti e il sogno di “un altro mondo possibile” si sono scontrati con il potere violento delle istituzioni.
A partire dal 20 luglio 2011 il libro “Genova, Nome per Nome” di Carlo Gubitosa, edito da Altreconomia, e’ rilasciato con la licenza Creative Commons BY-NC-ND 3.0, che ne consente il libero utilizzo per finalita’ non commerciali, a condizione che sia preservata l’integrita’ dell’opera e l’attribuzione all’autore.
La versione diffusa in formato elettronico e’ integrata da un dossier realizzato da Altreconomia, nel quale sono riassunte le vicende giudiziarie relative ai fatti di Genova che si sono sviluppate dopo la pubblicazione del libro.
[pdf]
Posted: Maggio 6th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, bio, vita quotidiana | Commenti disabilitati su Il suicidio dell’amore
di Sarantis Thanopulos
Un uomo di 34 anni ha ucciso la sua convivente di 20 anni e ha gettato il cadavere, avvolto in un lenzuolo, da un cavalcavia. Durante un momento di intimità lei l’aveva chiamato con il nome del suo ex fidanzato. Dall’inizio dell’anno sono 54 le donne uccise dal loro compagno per motivi, il più delle volte, di gelosia. Freud ha interpretato il delirio di gelosia dell’uomo in termini di negazione dell’omosessualità: «Non sono io che amo lui (l’uomo). È lei (la mia donna) che lo ama». L’omosessualità contribuisce alla costituzione di un desiderio eterosessuale compiuto perchè garantisce il necessario investimento narcisistico del proprio desiderio e favorisce l’identificazione con il desiderio del partner. Nel maschio il rigetto della propria componente omosessuale è sempre associato alla paura della femminilizzazione, della perdita idella propria identità virile. Provoca una difficoltà di coinvolgimento erotico profondo, perché comporta l’inibizione della parte accogliente, femminile di sé, e alimenta la frustrazione e l’odio nei confronti della donna. La rimozione eccessiva dei propri desideri omosessuali è il motivo della gelosia morbosa anche nella donna eterosessuale: spesso dietro l’acerrima rivalità si nasconde il desiderio inconfessabile per la rivale. Tuttavia nella donna, la gelosia folle, che l’omofobia interna può determinare, non esita solitamente nella stessa violenza distruttiva che a volte conduce l’uomo all’omicidio. Ciò perché questa gelosia protegge la donna da una figura materna intrusiva, che ha invaso il suo spazio erotico quando era bambina inibendo la parte omosessuale del suo desiderio. L’odio nei confronti dell’uomo traditore concentra l’investimento erotico su di lui, figura meno invasiva (perché meno significativa) che fa da cuscinetto protettivo tra lei e la rivale, oggetto di un amore impossibile. L’uomo eterosessuale ossessivamente geloso deve difendersi dai sentimenti omosessuali, perché in lui sono rinforzati dal suo odio nei confronti della stessa figura materna intrusiva che minaccia l’erotismo della donna omofoba. La gelosia lo protegge dalla propria omosessualità e conserva il carattere eterosessuale del suo desiderio (e il suo legame con la donna) ma lo allontana dal legame solidale, omofilico con il suo simile (in principio il padre) e lo lascia indifeso nei confronti di una figura femminile che capta tutto il suo interesse ed è vissuta come castrante. Il tradimento da parte di una figura cosi potente gli appare come conferma della sua impotenza e può scatenare una rabbia incontenibile. La figura di una madre infelice nel suo rapporto con l’uomo che si riscatta attraverso il possesso del figlio getta la sua ombra sul destino degli assassini delle loro compagne. Con questa madre da riscattare essi si identificano, non ne possono fare a meno anche se la odiano. La donna trovata morta in un lenzuolo sotto il cavalcavia, sembrava, a detta dei testimoni, avvolta in un sudario. Corpo materno avvolto nel sudario del figlio sacrificale, il figlio messianico che uccidendo nella propria donna (vittima sfortunata e incolpevole) la madre da riscattare afferma che il riscatto non è possibile che nella morte, nell’omicidio-suicidio.
[il manifesto]
Posted: Maggio 4th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: comune, postcapitalismo cognitivo, Révolution | Commenti disabilitati su Intervista a Jason Read
Un’intervista al filosofo autore di un fortunato saggio su
«Micro-Politics of Capital». La solitudine di una generazione dopo che
l’esplosione della bolla speculativa delle lauree ha radicalizzato la
competizione per accedere al mercato del lavoro.
Nel profondo Maine, ora governato da un aggressivo rappresentate del Tea
Party, ci sono almeno una ventina di inziative che hanno assunto il nome di
Occupy. Tra queste, l’occupazione della University of Southern Maine, in cui
insegna ed è politicamente attivo Jason Read. Il suo importante libro The
Micropolitics of Capital (Suny Press, 2003, ora disponibile anche in formato
ebook), che ha al proprio centro la questione della produzione di
soggettività, cerca di far dialogare il marxismo «postoperaista» con
l’apparato concettuale althusseriano, pur nei diversi e spesso contradditori
rivoli in cui si sono dispersi gli allievi del maestro francese.
La conversazione con Read è partita dai motivi che sono alla base della sua
ricerca. «Sono arrivato all’operaismo dall’anarchismo diffuso nei college
americani e soprattutto attraverso la pubblicazione del testo sull’autonomia
operaia di Semiotext(e): capii che dovevo leggere Marx. Credo che sia
possibile comprendere il capitalismo, teoricamente e politicamente, solo
afferrando la produzione di soggettività nel duplice significato del
genitivo: il pensiero althusseriano permette di elaborare un discorso su
come i soggetti sono costituiti, l’operaismo ha invece colto l’altra parte,
cioè la formazione del soggetto autonomo. É necessario mettere in relazione
e in tensione queste due letture, per porre a critica l’idea dominante
secondo cui tutto è strutturato dal capitale».
Come questo duplice concetto di produzione di soggettività può spiegare da
un lato le politiche neoliberali e la loro crisi, dall’altro le lotte e il
movimento Occupy?
La cosa più semplice che si può dire del neoliberalismo è che produce una
soggettività completamente individualizzata, presunte figure
autoimprenditoriali private di ogni identificazione collettiva. Se il
capitale fisso si soggettivizza, il capitale deve gestirlo e governarlo,
rendere le soggettività isolate, competitive e incapaci di articolare le
proprie relazioni sociali. Credo che il movimento Occupy stia creando un
significato della dimensione collettiva, producendo una soggettività
politica ma in assenza di un linguaggio che articola questa soggettività. È
necessario comprendere le nuove forme in cui la ricchezza è estratta e
permea l’intera vita, dal debito alla privatizzazione dei servizi. Lo
sfruttamento non è limitato al lavoro: dobbiamo allora approfondire questi
processi per capire le soggettività e le differenti forme di resistenza allo
sfruttamento.
Qual è lo spazio per questi temi nel dibattito teorico e politico
statunitense, dentro e fuori l’università?
Questi temi non si trovano necessariamente nei contesti in cui ce li
aspetteremmo. Prendiamo l’esempio del lavoro affettivo, che connette la
teoria degli affetti a partire dala filosodia di Spinoza, il contributo del
femminismo e le trasformazioni del lavoro. Questi differenti lati sono
limitati dai confini disciplinari e mai completamente articolati. Vi è poi,
politicamente, una discussione sul lavoro affettivo rispetto al lavoro di
cura, ma uno dei maggiori problemi è, almeno negli Stati Uniti, il reciproco
isolamento di politica e teoria: solo la loro interazione è in grado di
produrre una reale trasformazione. Chi è interessato a questi temi dal punto
di vista teorico li considera questioni accademiche, sconnesse
dall’attualità politica.
Tuttavia, esistono le possibilità di superare questo reciproco isolamento.
Molta della produzione teorica del movimento Occupy, ad esempio, ha preso
corpo innanzitutto attraverso i video, i blog, i siti: è avvenuto tutto
troppo velocemente per essere compreso o catturato dal meccanismo
dell’accademia. È però necessario creare degli spazi all’interno di Occupy
per la riflessione teorica: finora sono stati riempiti dai discorsi delle
«celebrità», come Slavoj Zizek o Judith Butler. Penso invece che già stiano
prendendo corpo i luoghi della discussione e dell’autoformazione, ma devono
crescere e determinare una prassi teorica che abbia continuità.
Il reciproco isolamento di pratica teorica e pratica politica rischia di
consegnare la prima all’accademia e la seconda a un attivismo che fa
difficoltà a costruire prospettiva.
Quali sono i tentativi di costruire quella che hai chiamato un’articolazione tra produzione di sapere e organizzazione politica?
Ci sono varie esperienze in questa direzione. La sfida è andare oltre
all’evento spettacolare: Occupy ha bisogno non di domande, perché ciò
presuppone qualcuno che vi risponda e le legittimi. Diciamo allora che ha
bisogno di articolare le proprie prospettive. C’è una resistenza da questo
punto di vista, che è parte della pluralità delle lotte. Ma a un certo punto
bisogna scegliere tra la completa trasformazione della struttura economica e
sociale, oppure la semplice limitazione legale dell’azione delle banche: se
non si costruisce un confronto critico tra queste differenti prospettive, la
semplice pluralità rischia di bloccare l’azione politica.
È qualcosa che sta avvenendo oppure è un’indicazione da costruire?
Ogni movimento sociale deve produrre il proprio sapere. Occupy ha portato a
galla ciò che già esisteva – come la privatizzazione e la militarizzazione
degli spazi urbani, o la criminalizzazione degli homeless – ma che era
passato senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Molte delle leggi usate
contro Occupy sono, ad esempio, quelle contro i senza casa o chi dorme in un
parco. Penso che l’autoformazione del movimento debba muoversi verso la
critica dell’economia politica. Uno dei limiti di Occupy è il modo di
pensare la produzione e la circolazione della ricchezza. È quindi di
strategica importanza la questione del debito. Essendo un dispositivo di
moralizzazione e individualizzazione, cioè è rappresentato come una forma di
dipendenza da nascondere, è difficile costruire azione collettiva.
Il debito da consumo riguarda l’uso della carta di credito, ma anche
l’esternalizzazione dei costi dei servizi sociali e le forme di produzione
della propria esistenza: viene così mistificato il passaggio dal pubblico al
privato. Per Occupy significa svillupare un punto di vista generale sui
commons, che finora negli Stati Uniti è stato innanzitutto incentrato sulla
gestione dello spazio e sul fatto che la politica debba riguardare le
persone e non le imprese. Il passaggio è comprendere il comune come ciò che
viene prodotto collettivamente. Perciò la produzione di ricchezza è una
questione teorica centrale per andare oltre il dispositivo di moralizzazione
e individualizzazione del debito.
Il debito studentesco è anche una forma di canalizzazione delle scelte di
studio e di vita, in un certo senso è un regime di controllo dei
comportamenti futuri. Il debito è dunque un dispositivo di produzione di
soggettività…
Questo è il punto: il debito forza continuamente lo studente a sacrificare
il presente per il futuro. Gli studenti che si indebitano per andare
all’università non si chiedono a cosa sono interessati o quali sono i loro
desideri, ma semplicemente qual è lo spazio per un futuro nel mercato del
lavoro. È terribilmente vincolante ed agisce dall’alto e dal basso.
Dall’alto c’è uno spostamento dei costi dell’università dal pubblico al
privato. Nelle università pubbliche americane due terzi dei costi della
formazione erano pagati dallo Stato e un terzo dagli studenti: ora il
rapporto è rovesciato, e i costi a carico dello studente stanno
ulteriormente crescendo. C’è una trasformazione dell’università pubblica in
università del debito. Dal basso, produce un soggetto costretto a essere
interessato solo ai programmi e ai saperi che offrono la possibilità di
ripianare il debito, come medicina, giurisprudenza, business e così via.
Diminuiscono invece le domande per filosofia, sociologia, arte, le
humanities in generale. Ai docenti di queste discipline non viene detto che
non possono insegnare, ma che non ci sono domande; così filosofia viene
trasformata in etica medica. Dunque, la ristrutturazione sembra venire dal
basso, dai supposti bisogni della sovranità dei consumatori, però si tratta
di consumatori indebitati, le cui domande sono prodotte dall’università
stessa.
Tutto ciò mentre l’università cessa di essere un ascensore per la mobilità
sociale e il valore delle lauree è una bolla ormai esplosa…
Da tempo, negli Stati uniti c’è una discussione proprio sulla bolla delle
lauree dequalificate: il debito, ad esempio, ha prodotto molti più avvocati
di quanti riuscissero a trovare un lavoro. C’è dunque un’inflazione di ciò
che si immagina essere spendibile sul mercato del lavoro; molte figure
altamente specializzate non riescono a trovare un’occupazione nel campo per
cui si sono indebitate. Per tanti anni in questo paese si è detto che le
scienze di programmazione informatica avevano un alto valore, nessuno
pensava che il lavoro potesse essere esternalizzato in India a una forza
lavoro meno costosa.
La logica mercantile che sottostà alla specializzazione crea problemi di
sovrapproduzione e vede una massa di studenti che non possono ripianare il
debito e quindi devono cercare lavori che non hanno nulla a che fare con
quello che hanno studiato.
Poi c’è la retorica secondo cui quello che viene richiesto ai lavoratori
sono competenze generiche e non specializzate, la capacità di pensare
criticamente, l’intelletto in generale e non le sue specifiche forme.
Nessuno più ci crede. La specializzazione è quindi esclusivamente una forma
di disciplinamento dei lavoratori, che ti rende pronto ad accettare tutto.
Inoltre, se le lauree diventano sempre più iperspecialistiche è perché vi è
una stretta parternship tra gli interessi economici locali e le università:
se il settore assicurativo o quello finanziario o l’ospedale hanno un ruolo
importante in una città, i programmi universitari saranno costruiti di
conseguenza. Così, ti devi indebitare per la tua specializzazione, per il
tirocinio, per aggiornare le tue competenze che diventano rapidamente
obsolete.
Il debito, in particolare quello studentesco, sta diventando una questione
importante nel movimento Occupy, soprattutto con la campagna Occupy Student
Debt. Quali prospettive vedi?
Sul sito di Occupy Wall Street le persone descrivono la propria condizione
economica, i debiti contratti e quanti lavori fanno, mostrando il gap
incolmabile tra debito e salario. Quando dentro Occupy si parla di debito
c’è la preoccupazione che si possano creare divisioni: altre generazioni
sono andate a scuola dentro differenti regimi finanziari, dunque c’è il
problema di articolare la solidarietà tra queste diverse esperienze di
debito studentesco. Credo che ciò sia possibile solo comprendendo come il
debito abbia permesso la diminuzione dei salari reali. Il debito ha
consentito agli americani di percepirsi ancora come classe media, è stato un
enorme strumento di pacificazione. Puoi avere la casa, la macchina, mandare
i figli al college e finché dura, pur nella stagnazione salariale, ti senti
rappresentato e soddisfatto della società in cui vivi. Adesso che tutto ciò
è collassato, il problema è come produrre una soggettività politica del
debitore, in grado di andare oltre i processi di individualizzazione.
Quali sono, in generale, le prospettive del movimento Occupy a partire dalla
May Day?
Una grande sfida nei prossimi mesi sarò di rimanere separati dalla scadenza
elettorale, soprattutto perché il Partito democratico sta cercando di
ringiovanirsi attraverso Occupy. Il movimento si è identificato nella
tattica dell’occupazione, centrale e necessaria, capace di comporre e
mobilitare figure e spazi che vivono in una condizione di frammentazione e
precarietà. Allo stesso tempo bisogna creare altre tattiche, come hanno
fatto ad Oakland bloccando il porto. Come organizzare uno sciopero di massa
dei debitori? Come agire senza creare una centralizzazione della decisione
politica? Un movimento deve essere capace di auto-sostenersi, per tirare
fuori le persone che sono state arrestate durante gli sgomberi, creare reti
di solidarietà che consentano di avere cibo e supportare chi sciopera.
Bisogna pensare a forme di redistribuzione e riappropriazione, creare
davvero un’istituzione del comune: non una semplice protesta, ma un processo
costituente.
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SCAFFALE
Dall’etica di Spinoza alla scuola di Althusser
Laureato nel 1994, Jason Read ha conseguito il dottarato alla «State
University of New York» con una tesi su «The Production of Subjectivity:
Marx and Contemporary Continental Thought». Autore di un saggio su
«Micro-Politics of Capital» (Suny Press), Read ha pubblicato molti saggi
attorno alla filosofia di Baruch Spinoza ed è considerato uno delle figure
emergenti del pensiero critico radicale Usa. Molto attivo nel movimento
Occupy, ha scritto molti interventi e saggi su come è cambiato il sistema
universitario statunitense a partire dall’equivalente Usa del «debito
d’onore».
il manifesto
Posted: Maggio 2nd, 2012 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, Révolution | 3 Comments »
May Day statement of “Collective Action”. In it we outline our analysis of the problems facing the anarchist movement in the UK and offer a call out to all independent anarchist communists to participate in our project to re-visit our political tradition, re-group and re-kindle our political action.
“I listen to them freely and with all the respect merited by their intelligence, their character, their knowledge, reserving always my incontestable right of criticism and censure.” – Mikhail Bakunin
The contemporary anarchist movement throughout the UK, and indeed around the world, faces unique challenges.
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Posted: Aprile 30th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, Révolution | Commenti disabilitati su Urban Revolution
Autore: Rivlin-Nadler, Max
Lunga intervista a David Harvey sui temi del suo ultimo libro Città Ribelli, di prossima pubblicazione in Italia. Dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street. Salon, 29 aprile 2012
Titolo originale: Urban revolution is coming – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Dalla Parigi del 1871 alla Praga del 1968 al Cairo nel 2011, per finire con le vie di New York, le città sono da lungo tempo il terreno di coltura dei movimenti radicali. Nel corso del tempo le proteste urbane nascono da una infinità di spunti diversi, dalla disoccupazione alla fame, alla privatizzazione alla corruzione. Ma c’entra forse anche la stessa geografia delle città? Una questione particolarmente accesa questa settimana, mentre il movimento Occupy si prepara a una serie di grandi manifestazioni in tante città del paese per il Primo Maggio.
Il geografo e sociologo David Harvey, professore di antropologia al Graduate Center della City University di New York, uno dei venti studiosi in campo umanistico più citati di tutti i tempi, ha passato un’intera vita a studiare il modo in cui si organizzano le città, e poi cosa vi accade. Il suo nuovo libro Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution, esamina in profondità gli effetti delle politiche finanziarie liberiste sulla vita urbana, il paralizzante debito dei ceti medi e a basso reddito d’America, la devastazione dello spazio pubblico per tutti i cittadini operata da uno sviluppo sfuggito al controllo.
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Posted: Aprile 29th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: au-delà, comune, Marx oltre Marx, Révolution | Commenti disabilitati su Animal Spirit – A Bestiary of the Commons
di Matteo Pasquinelli
Introduction
What constitutes the common? While I was exploring the dark sides
of digital commons and culture industry, the awakening of the animal
spirits of the financial crisis during 2008 became in fact the horizon of
the political debate. The idea of investigating the animal spirits of the
commons was actually conceived a few years earlier, when the global
mediascape following stock indexes were fed by the pornography of
war terrorism. Yet the irrational fears and forces struggling behind
media
networks were never illuminated by critical thinkers and political
activists or, more specifically, considered as a productive component
of economic flows. John Maynard Keynes once defined ‘animal spirits’
as precisely those unpredictable human drives that influence stock
markets and push economic cycles.1 Similarly, in his recent work, Paolo
Virno has underlined how all institutions (from the nation-state to contemporary
digital networks) represent an extension of the aggressive
instincts of humankind.2 In this reading, language and culture form the
basis of the common (networking), but also new fields of antagonism and
chaos (notworking).3
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Manifesto Urban Cannibalism
Posted: Aprile 28th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: comune, Marx oltre Marx, Révolution | Commenti disabilitati su Tra Foucault e Tommaso (Müntzer): una replica ad Asor Rosa
di MARCO ASSENNATO
Alberto Asor Rosa ha dedicato un lungo articolo – sul Il manifesto del 27 aprile – di critica al “Manifesto per un soggetto politico nuovo”, che già aveva suscitato un’accesa discussione sulle pagine dello stesso quotidiano. Franchezza per franchezza: non è tanto sulla valutazione da darsi dell’ipotesi di fondare un nuovo partito – sulla scorta del manifestino dei beni comuni – che trovo interessante porre questioni. Non saprei dire, infatti, se mi preoccupa di più il contenuto di quella proposta politica o il contenuto delle repliche polemiche che ha suscitato. Mi interessa invece, e m’interroga, l’arco di argomentazioni che Asor pone per giustificare la sua critica, poiché mi pare coincidere con altre e sempre più diffuse “pose” argomentative sulla sinistra italiana. La passione dello storico chiama Asor Rosa a rammentarci per intero la raccomandazione di Gramsci sull’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione: un modo per dire che non s’ha bisogno, per trasformare il mondo, di “ridicoli fantasticatori” pronti ad esaltarsi ad ogni sciocchezza o deprimersi di fronte all’orrore, quanto piuttosto “d’uomini sobri, pazienti” capaci d’una analisi realistica dei contesti e d’una azione all’altezza del tempo dato. Ecco. Sempre più spesso (e me ne sfugge la ragione) in Italia si ragiona iniziando così, quando s’affronta il nodo politica istituzionale – movimenti. Penso ad esempio a molti e differenti articoli apparsi su Alfabeta2, insomma all’impostazione complessiva di quel dibattito, come ad alcuni accenti della discussione sul manifesto. Sempre così inizia il ragionamento: vi sarebbe da una parte la nebulosa degli “esaltati”, “sognatori” – a volte definiti persino “saturnini” – e dall’altra quella degli “uomini sobri”, “realistici”, “pragmatici”. D’un lato lo svolazzo ideologico, dall’altro la paziente ricostruzione di fatti e situazioni concrete. Poi, questi due tipi, vengono pian piano lasciati scivolare sino a sovrapporsi da una parte sui “movimentisti” che tutto criticano ma nulla cambiano e d’altro canto su chi si pone – certo realisticamente! – il problema del partito, della rappresentanza e delle elezioni. In modo più o meno esplicito – qui Asor Rosa ha il merito di non nascondersi dietro a un dito e nominare oltre al peccato, anche il peccatore – l’ideologo dei primi sarebbe Toni Negri (insieme a Michael Hardt) e l’ideologia in questione starebbe dentro alla parola “comune”, alla quale viene appiccicata una presunta matrice tomistica o teologico-cristiana. Adesso: su pragmatici e sognatori vorrei muovere qualche perplessità; e sulla coincidenza tra “beni comuni” e “comune” qualche altra, come del resto sulla presenza e sul ruolo effettivi di Toni Negri e Michael Hardt (che potranno certo smentire) alla regia della proposta di costituzione di un nuovo partito politico mossa da Ugo Mattei, Marco Revelli e altri.
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Posted: Aprile 26th, 2012 | Author: agaragar | Filed under: crisi sistemica, Révolution | Commenti disabilitati su URSS, il continente scomparso
di Mario Tronti
Dal capitalismo al socialismo e ritorno. «L’esperimento profano» di Rita Di Leo ripercorre controcorrente il fiume di una storia rimossa, che illumina lo scontro di oggi fra politica ed economia
Siamo malati di anniversari. Se non ci fossero, per i giornali, bisognerebbe inventarli. E infatti spesso se ne inventano. E altrettanto spesso se ne nascondono. E’ passato tutto intero il 2011 e nessuno, o quasi, si è ricordato che, esattamente vent’anni prima, era accaduto quell’evento che si chiama «fine dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”. Si può non avere simpatia per il presidente Putin e in effetti non ne suscita in gran quantità, ma ha detto almeno una volta la cosa essenziale e cioè che la caduta dell’Urss è stata la più grande catastrofe geopolitica del Novecento. Le futili vicende che abbiamo vissuto da allora, mascherate da improbabili accadimenti epocali, ce lo confermano. Ecco un libro che ci riporta, saltando indietro nel tempo che conta, a una vicenda, «un esperimento», si dice, che ha fatto storia e che non a caso alla sua conclusione ha fatto parlare di fine della Storia. Sto parlando di Rita di Leo, L’esperimento profano, sottotitolo eloquente Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse, Citoyens, Roma 2012.
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Posted: Aprile 21st, 2012 | Author: agaragar | Filed under: critica dell'economia politica, Marx oltre Marx, postcapitalismo cognitivo | Commenti disabilitati su “In colpa di fronte al Dio-Capitale”
Su LA FABBRICA DELL’UOMO INDEBITATO di Maurizio Lazzarato
Tra debito e credito passa una relazione politica, non solo economica. Che attraversa e unifica tutto il campo sociale.
ALIAS – il manifesto
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